Ho visto “il Divo” di Paolo Sorrentino, il film ispirato alle opere e ai misfatti di Giulio Andreotti. Forse drogato dallo spottone propinato la scorsa settimana da “Anno Zero” mi aspettavo di più. Invece è un film che supera la sufficienza, questo sì, ma che traveste da furbizie certe ingenuità, e viceversa.
Il lenzuolo del grottesco, che avvolge l’opera, è infatti un buon alibi per chiedere allo spettatore di perdonare il continuo ricorso a luoghi comuni che strappano un sorriso solo agli alieni, a quelli cioè che da almeno trent’anni non sfogliano un giornale. Il circo Barnum dei personaggi – di buon effetto nel primo tempo, meno nel secondo – non va oltre, salvo rare eccezioni, l’originalità della didascalia che accompagna ogni nuova apparizione. Mi è sembrato efficace, tra loro, Carlo Buccirosso-Paolo Cirino Pomicino.
Toni Servillo-Giulio Andreotti è, secondo me, bravissimo. Interpreta in modo surreale il principe delle tenebre e lascia trasparire attraverso le rughe (e il cerone) l’impenetrabilità di un personaggio che deve traghettare l’intera storia tra le sponde della farsa e della tragedia. E’ una caricatura che deve recitare il ruolo di caricatura. E lo fa molto bene.
Il vero difetto del film è nel voler raccontare tutto senza aver la reale volontà di farlo. In un turbine di omicidi, riunioni, patti trasversali, accuse, tradimenti, testimonianze, interviste, votazioni, sequestri, insabbiamenti, sguardi, urla e domande, la sceneggiatura sembra risolversi in un bignamino dell’andreottese. Un buon videoclip senza pretese di approfondimento che finisce quando le pagine da leggere sono ancora tante. Troppe.