E’ irritante il circo di dichiarazioni, mobilitazioni, annunci, e annunci di annunci che si sviluppa attorno ad Annamaria Franzoni. Fermo restando che i familiari hanno tutto il diritto di dannarsi e di stare vicino alla condannata come, quanto e quando possono, ciò che mi procura fastidio epidermico è la riflessione senza riflessioni che il caso di Cogne ha innescato. Se si crede in una giustizia terrena, umana quindi ontologicamente parziale, c’è un cancello dinanzi al quale ci si deve fermare. Quello del giudizio definitivo.
Per la misera legge degli umani questa donna è colpevole di infanticidio. Colpevole così così, d’accordo (16 anni sono una tipica condanna italiana per omicidio), ma colpevole. Il rispetto delle vittime, in certi casi, passa per il rispetto delle sentenze.
Ancora ieri i giornali trasudavano pensieri attribuiti alla Franzoni: “Mi mancano i miei figli”; “Potrei chiedere la grazia”. Come a voler insinuare nella pubblica opinione il tarlo del to be continued. No, a questo punto – con rispetto per la condannata – il gioco si ferma. Certi dolori ineluttabili si lasciano nell’alveo dal quale sono scaturiti. Certe iniziative non si annunciano, si prendono.