Da oggi e per tre giorni i giornalisti italiani sono in sciopero. Vuol dire che, includendo i due giorni di vacanze natalizie, la stragrande maggioranza dei quotidiani non sarà in edicola prima di mercoledì. Questa non è una testata giornalistica, ma io, innanzi tutto, sono un giornalista (da vent’anni) e non posso far finta di essere altro. E’ in atto uno scontro senza precedenti tra la mia categoria e quella degli editori. Per i dettagli della vertenza, se mai foste interessati, vi rimando ad altre sedi.
In genere questo è un argomento delicato che si affronta in alti consessi, con adeguate rappresentanze e anche con una certa tutela (sindacale). Eppure ci sono poche righe che non posso tenere per me. Quello che mi preme comunicare è la gravità di una posizione, quella degli editori, che traduce in termini elementari il concetto di dialogo: se tu provi a dire una cosa che non mi piace o che non mi conviene, io ti mando a quel paese e nemmeno ti voglio incontrare per strada. Discorso plausibile finché si tratta di questioni condominiali, discorso pericolosissimo quando ci sono in gioco robe come i contratti o la Costituzione. I giornalisti inseguono gli editori come in un gioco da giardinetti e quelli vanno via senza neanche rispettare le regole del gioco. Il peggio è che ci sono giornalisti che stanno con la controparte, consentendo la pubblicazione di giornali estemporanei pur con uno sciopero di categoria in vigore, senza nemmeno aver chiaro il proprio futuro. Ho parlato di controparte, sì. Gli editori non sono il nostro nemico. Sono i nostri datori di lavoro, coloro i quali hanno creduto in noi, scegliendo giorno per giorno il rischio di impresa e sfidando un mercato sempre più difficile. I giornalisti non sono imprenditori, se lo fossero non sarebbero giornalisti: è come chiedere a un parroco di farsi chiesa e fedeli tutto insieme. Un pasticcio, insomma. Ognuno ha i propri ruoli. Chi li confonde crede di essere più realista del re, ma in realtà è solo ostaggio del re.
In genere questo è un argomento delicato che si affronta in alti consessi, con adeguate rappresentanze e anche con una certa tutela (sindacale). Eppure ci sono poche righe che non posso tenere per me. Quello che mi preme comunicare è la gravità di una posizione, quella degli editori, che traduce in termini elementari il concetto di dialogo: se tu provi a dire una cosa che non mi piace o che non mi conviene, io ti mando a quel paese e nemmeno ti voglio incontrare per strada. Discorso plausibile finché si tratta di questioni condominiali, discorso pericolosissimo quando ci sono in gioco robe come i contratti o la Costituzione. I giornalisti inseguono gli editori come in un gioco da giardinetti e quelli vanno via senza neanche rispettare le regole del gioco. Il peggio è che ci sono giornalisti che stanno con la controparte, consentendo la pubblicazione di giornali estemporanei pur con uno sciopero di categoria in vigore, senza nemmeno aver chiaro il proprio futuro. Ho parlato di controparte, sì. Gli editori non sono il nostro nemico. Sono i nostri datori di lavoro, coloro i quali hanno creduto in noi, scegliendo giorno per giorno il rischio di impresa e sfidando un mercato sempre più difficile. I giornalisti non sono imprenditori, se lo fossero non sarebbero giornalisti: è come chiedere a un parroco di farsi chiesa e fedeli tutto insieme. Un pasticcio, insomma. Ognuno ha i propri ruoli. Chi li confonde crede di essere più realista del re, ma in realtà è solo ostaggio del re.