Dobbiamo farcene una ragione. Tra pochi giorni è Natale. La discussione potrebbe essere oziosa come l’estinzione delle mezze stagioni, la beatificazione dei giovani di una volta, ridateci la Dc, Baudo è sempre Baudo, il freddo secco non fa male quello umido sì. Ma stavolta c’è una variabile che, partita in sordina già da qualche anno, sta facendo sentire gli effetti con allarmante (per me) costanza. Il timore-rispetto per l’Islam.
Assumendo come punto fermo il convincimento che le religioni hanno il diritto di illuminare e, perché no?, condizionare i propri fedeli, non capisco perché debbano fare corto circuito ciascuna con le altre su questioni di risibile importanza. Leggiamo che a Londra si prospetta un Natale senza luci “per rispetto dell’Islam”, o che il presepe non tira più per reconditi motivi (religiosi?), o ancora che in molte scuole del Nord si rinuncia a muschio e pastorelli per non offendere la sensibilità degli alunni di altre religioni.
Personalmente sono convinto che siano ben altri i simboli, e soprattutto i comportamenti, che ledono la sensibilità degli islamici come dei seguaci di altre religioni. L’essere considerati diversi e difendibili innanzitutto. Una religione non è un handicap fisico, non necessita di traduzioni, non deve essere necessariamente universale. E’ l’ambito più personale che ci rimane. Se io prego guardando il mio pollice destro e chiamo il mio dio con un nome che può essere Gesù, Allah o Bahá’u’lláh, non devo essere tutelato da qualcuno, ma semplicemente rispettato. E se nel corso di una preghiera itinerante – può succedere di parlare col proprio dio mentre si è in giro, non c’è mica un orario di ricevimento – passo davanti al simbolo di un’altra religione, magari mi viene un’ispirazione in più.
Sogno un mondo in cui si preghi ognuno come cavolo vuole, con le parole che vengono, senza nulla da imparare a memoria e dove il catechismo sia come il raccordo anulare di Roma: incasinato sì, ma con molte vie d’uscita.