Banane

banana Constant

Ora allo stadio si lanciano banane a giocatori che se sono spiritosi se le mangiano lì stesso, altrimenti si incazzano e chiamano l’arbitro a sbrigarsela lui. Il problema è che i giornali sono costretti a fare titoli tipo “Lanciate due banane a Constant” dimenticando che il sottinteso del messaggio giornalistico è talmente sottinteso che il rischio del ridicolo è stratosferico. Perché magari sarebbe meglio titolare: “Provocazione razzista contro Constant” o al limite, se se ne ha il coraggio, “ultrà coglione priva il suo orifizio di una banana e la getta in campo”. Quel che manca è la capacità del salto logico, l’astrazione professionale che racconta fuori dagli schemi qualcosa di odioso e di altrettanto contagioso. Lanciare una banana in campo è una scemenza che chiunque può fare senza particolare abilità. Basta essere meno intelligenti di altri, meno aperti di altri, meno interessati al mondo degli altri, meno esperti della vita. Basta essere meno, insomma.
Siccome, a dispetto di alcune dottrine democratiche, non è assolutamente vero che siamo tutti uguali – lo ripeto e ci metto pure il maiuscolo, NON E’ VERO CHE SIAMO TUTTI UGUALI – sarebbe opportuno che si usassero mezzi eccezionali contro scemi eccezionali. E non parlo di provvedimenti legislativi, ma di raggruppamenti verbali, di controffensive concettuali.
Chi lancia le banane è un coglione, una finta scimmia che scimmiotta (e pure malissimo) le vere scimmie. Non ci vuole la forza pubblica per isolare questi minus habens, bastano i compagni di curva, basta un Genny meno carogna e meno fetente (magari con una semplice maglietta “Fruit of the loom”) che anziché minacciare Amsik intimidisca i fruttivendoli complici.
Perché, diciamolo chiaramente, il rischio grottesco è che in un futuro molto vicino, la banana venga classificata come arma impropria. E che i giornali arrivino a titolare: “O la buccia o la vita”.

L’Italia carogna di Genny ‘a carogna

Jenny a carogna

Funziona così in un paese che si fa forte coi deboli e che lecca gli stivali agli arroganti. Uno, un giocatore, un funzionario pubblico, va a trattare con un delinquente per far sì che una partita di calcio possa iniziare, che gli ostaggi di uno stadio – che rappresentano una nazione intera – possano riprendere a respirare. Inutile dire che dovremo aspettare un’altra vita, giacché non c’è più speranza in questa, per provare l’emozione di vivere in un mondo ben sincronizzato, in cui se gli ultras di una squadra mettono a ferro e fuoco uno stadio e addirittura una città, non solo la partita non si gioca, ma la squadra se ne va a raccogliere margherite per qualche anno.
I discorsi alla melassa secondo i quali la moltitudine onesta non può pagare le colpe di un ristretto gruppo di monellacci dovrebbero valere non per i tifosi di quella squadra – che ha comunque una singolare concentrazione di malavitosi tra le sue file – ma per i cittadini di una nazione che non possono soggiacere ai desiderata di Genny ‘a carogna, uno che ha già un nickname lombrosiano.
In Italia lo Stato, o chi per lui, è sempre pronto a trattare per un oggetto misterioso che resta segreto ma che ha la forma della codardia. Che si tratti di mafia, di calcio, di agibilità politica, di mandanti occulti, di tritolo o di bombe carta, arriva puntuale un emissario in giacca e cravatta, o in calzoncini, o in divisa, pronto a stipulare patti da cui emerge una sola certezza: l’onesto sarà sempre un poveraccio che non conta un cazzo. Per tutto il resto basta rivolgersi a un galantuomo che si mostra al mondo con una maglietta che inneggia all’assassino di un poliziotto onesto.

Ogni picchiatore è bello a mamma soia

Da Corriere.it.