Penne

Adoro le penne. Mi piacciono quelle da due soldi a inchiostro o gel (Bic o Muji), ma ho una venerazione per una Montblanc che mi ha regalato mio padre e una Lamy che mi ha donato un amico. Scrivo col computer, ma devo sempre essere circondato dalle mie penne multicolore, multimarca, multispessore. Mi servono non solo a prendere appunti e a fissare idee sul blocco di carta che sta accanto alla tastiera, ma a svolgere il loro compito principale cioè consentire lo sfogo della mia compulsività: con la penna annodo ghirigori da 50 e passa anni poiché nulla esiste dalle mie parti senza uno scarabocchio. Un tempo raccoglievo le penne dagli hotel in cui mi capitava di soggiornare, oggi le lascio perdere perché la qualità è molto scaduta, e nulla ammazza più la libido creativa di una penna che scorre male. Ho una grafia orribile, talmente brutta che a leggere i miei appunti sembro sgrammaticato: mi mangio le doppie, ho le erre che sembrano zeta e le enne appiattite tipo linea orizzontale: se scrivo giugno chiunque legge “giugo”. Ho sempre detestato le penne cancellabili o, peggio di peggio, quelle a inchiostro simpatico, perché se voglio cancellare scelgo una matita (e la matita è un altro universo) e se scelgo una penna cerco qualcosa che marchi, al limite imbratti. I segni indelebili sono affascinanti, ammettiamolo, a patto che non siano sul nostro corpo. Tuttavia detesto le stilografiche, troppo delicate, troppa cura intorno a un tratto che rischia di interrompersi da un momento all’altro come un coito insoddisfacente. E poi a forza di preliminari su preliminari uno rischia di dimenticarsi di quel che segue.