Travaglio, l’acido e il diritto di metafora

C’è questa battuta di Marco Travaglio sulla legislatura da sciogliere nell’acido che ha suscitato l’indignazione di molti, tra cui Lucia Annibali che con l’acido, quello vero e non quello metaforico di Travaglio, ci ha avuto purtroppo a che fare davvero.
Effettivamente il linguaggio è crudo e la memoria ci riporta, specie qui in Sicilia, a ricordi orribili legati all’orribile pratica della mafia e alle povere vittime, tra cui il piccolo Giuseppe Di Matteo.
Però, come si dice, c’è un però.
La permalosità del web legata alla necessità di dover per forza trovare un totem da abbattere, un argomento contundente, un sasso da lanciare nello stagno delle polemiche, crea delle distorsioni che vanno osservate con occhio sereno e senza ditino alzato (lo dico a me, innanzitutto). Ho detto che l’uscita di Travaglio è infelice, ma credo che esista ancora il diritto di metafora soprattutto nel giornalismo d’attacco (che può piacere o no, ma che deve continuare a esistere perché una vita senza sale e pepe non si augura a nessuno). Credo che serva un attimo di riflessione su questa nostra foga censoria, su quest’aggressività tanto social e poco real. Di questo passo non potremo più dire che “a questo governo vanno tagliate le gambe” senza suscitare le ire di un povero amputato. Non potremo più accusare un partito di “essere la stampella” di un altro per paura di offendere un povero cristo che ha bisogno di quei sostegni. O dovremo correggere la frase di Falcone sulla mafia cancro “che non prolifera per caso su un tessuto sano” affinché i pazienti oncologici non si sentano in alcun modo accomunati all’associazione criminale.
Ci sono contesti, ambiti e controindicazioni, lo sappiamo tutti perché siamo grandi e vaccinati.
Per questo – specialmente noi giornalisti, io per primo – dobbiamo cercare di andare oltre l’impeto commentizio e  provare a occuparci di cose un po’ più serie della frase di un Travaglio di questi.