Fallire per vincere

È quasi fine giornata. Il sole del tardo pomeriggio abbandona le Dolomiti di Valdaora come se dovesse chiudere un sipario. I muscoli delle gambe sono ancora tesi per 1.300 metri di dislivello consumati con una progressione che nulla ha di turistico: in fondo ognuno ha la vacanza che si merita. Ogni volta che mi cimento in questi cammini più o meno arditi penso di non avere più il fisico, eppure soffro e godo al tempo stesso. Fin quando il saldo delle good vibration sarà positivo, continuerò. Quando un passo in più sarà il solo modo per evitare di stramazzare al suolo, allora mi ritirerò.

Lo sforzo e la fatica, ora che mi sono ripulito e che sorseggio un buon Merlot nel silenzio di un balcone che dà sul bosco, mi sembrano quasi un premio. Un premio per l’avventura che molti di noi si cuciono addosso. Perché la voglia di scoprire (e di scoprirsi) non ha valori assoluti, ma meravigliosamente relativi. Vi ho raccontato quanto pesi l’identificarsi con altri uomini, altre vite, altri passati. Ci sono esistenze che sono state progettate dal Grande Stratega solo per illuminare le strade altrui: sono il vero dono per chi crede che una vita non sia solo uno spazio vuoto da riempire, ma un’immensa tela bianca su cui dipingere. O fingere di farlo.

In questo pomeriggio che se ne va, nel respiro fresco della montagna, ho accanto un libro di cui vi ho parlato poco tempo fa e che narra la storia più sensazionale che abbia mai conosciuto.

Quella del capitano Ernest Shackleton è l’avventura per antonomasia. E qui, adesso, serve a ricordarmi il valore della determinazione: nello sport, nell’arte, nel tran tran quotidiano, persino nell’ozio serale di una vacanza. Shackleton è una figura poco conosciuta rispetto al valore assoluto della sua impresa eppure, grazie alla narrazione delle sue gesta ad opera di Alfred Lansing, ha cambiato la mia visuale sul mondo dell’avventura. Perché, probabilmente condizionati da un’idea di eroe moderno che vince e convince nella maggioranza dei casi (e se perde, rimanda sempre a una seconda stagione della serie), i nostri modelli corrispondono a un cliché: non c’è avventura senza il risultato.

Ebbene Shackleton stravolge tutto giacché fallisce la sua missione sin da subito (attraversare ai primi del Novecento l’Antartide a piedi e con le slitte trainate dai cani) e costruisce la sua fama nel recupero, nella ritirata, nella disperazione di una sconfitta. Sconfitta che trasforma, come in quasi nessun altro caso di mia conoscenza, in una vittoria memorabile: salvare tutti i suoi uomini in un’operazione ancora oggi giudicata praticamente impossibile. Il grande capo, che è insieme grande uomo e grande condottiero, lo fa con la severa intransigenza di un vero leader: se dà un ordine è lui il primo a dare l’esempio; se tradisce un sentimento sa che c’è un dazio da pagare. Non è un duro, è un uomo che sa prendere decisioni come nessun altro, unico nella storia. Insomma è Shackleton.

A questo pensavo mentre il sole tramontava sulle Dolomiti di Valdaora. Al senso delle nostre gioiose missioni, alla solidità dei traguardi conquistati con fatica, all’importanza della determinazione anche quando inciampiamo in un errore.

Oggi come oggi, se potessi essere un altro uomo, vorrei essere lui: l’uomo che fallendo un obiettivo, realizzò un capolavoro.