L’accendino di Betlemme

Nel caldo africano di quel giorno d’estate ho ripensato a Betlemme e ho scelto di rimanere ancora un po’ senza l’accendino.
Ho girato e rigirato tra le mani le mie sigarette slim, le ho annusate e ho il percepito il peso di una viziosa “quasi felicità”, legata a un’assenza.
Quando ho conosciuto Betlemme mi hanno colpita le sue dita nerissime e affusolate, che rigiravano otto sigarette nazionali.
“La mia dose quotidiana di felicità” mi ha detto quando abbiamo iniziato quella che doveva essere un’intervista, ma che presto si è trasformata in una serie di rimandi, filtrati dallo sguardo di zucchero filato dell’interprete.
Al CPA di Lampedusa c’è un filtro per tutte le cose, anche per giocare a pallone nelle ore d’aria.
Betlemme ha gli occhi che guardano costantemente altrove, le labbra carnose e quella formosità, invidiabilmente imperfetta, che è solo delle donne d’Africa.
“I’m from Nigeria. I want a job, honest or dishonest, but I want a job”.
Gli occhi le luccicavano quasi vi avessero nidificato dentro eserciti di moscerini.
“E’ solo stanca, le passerà”, ha sussurrato l’inteprete, con il sorriso di ceralacca.
Betlemme mi ha guardata, e ricominciato: “Freedom and job, freedom and job”.
Si è rigirata tra le mani le otto sigarette, ne ha poggiata una sulle labbra, si è guardata intorno. A gesti mi ha chiesto se avessi da accendere. Ho frugato nervosamente tra le mie cose, ma non ho trovato l’accendino: l’avevo dimenticato in macchina.
Betlemme ha iniziato a parlare veloce, pareva avesse il timore che la sua confidenza potesse essere assalita da qualcuno, da qualcosa.
“Ci danno le sigarette – ha detto – ma qui nessuno ha mai da accendere…”.
Ha lasciato in sospeso la frase.
Sono andata via, salutando frettolosamente lei e l’interprete. Ho scelto di non incrociare gli occhi di cobalto di Betlemme. Certi sguardi hanno la pretesa di volerci rimanere incollati addosso e di farci da grillo parlante, quando abbiamo poche cose da raccontare a noi stessi.
Prima di uscire dal centro, un giovane clandestino mi ha domandato se avessi una biro. Quella è sempre a portata di mano. Gli ho fatto cenno che poteva tenerla. Nel fargli quel minuscolo regalo ho sentito un peso in meno sulla mia pelle, troppo chiara per sopportare quel sole mezzo siculo e mezzo africano.
Salita in macchina, ho trovato l’accendino, ma al primo cassonetto l’ho buttato via. Ho scelto di rimanere senza, anche solo per un giorno. E so bene che mi sarebbe bastato fermare qualcuno per strada per poter accendere. Per Betlemme non è così.
Fosse solo quell’accendino a chiuderle le porte della felicità forse i suoi occhi sarebbero meno annacquati, o forse ha ragione l’interprete: “E’ solo un po’ stanca, le passerà…”.

Odio gormitico

Mia madre diceva sempre che sarei cresciuta violenta e mascolina per colpa del Grande Mazinga. Pure di Jeeg Robot d’acciaio e di Goldrake, a dire il vero. Ma Mazinga era in vetta a tutti gli incubi materni. Era la fine degli anni Settanta e dividevo la mia devozione televisiva tra quel vigoroso robot e l’orfana Candy Candy. Tutti e due vinsero le loro battaglie di vita, io ebbi regolarmente le mestruazioni, e oggi non mi ritrovo seduta davanti ad uno psicologo per turbe sessuali.
Almeno, non per quelle.
Solo che la storia si ripete, ed è questo che mi rode di più.
Mio figlio è un estimatore dei Gormiti, pupazzetti plasticosi poco più alti di un pollice che migliaia di piccoli collezionano per il puro gusto di possederli. A suscitare tanto interesse non è la serie tv (postuma rispetto al successo di vendite) né chissà quali salvifici messaggi per il pianeta Terra. Dietro il successo di questi mostriciattoli c’è invece il brivido dell’acquisto dal tabaccaio, la bustina che si apre e il Gormita che sbuca fuori, senza una vera storia alle spalle. Che ne so, un Generale nero contro cui lottare, una pettoruta Venus con cui fidanzarsi o un qualunque professor Shiba imbottigliato in un tubo catodico da consultare in caso di necessità. Mi ritrovo a sospirare, a scaricare centinaia di puntate di tutti gli eroi dei miei tempi che ottengono un discreto successo presso la mia prole. Ma il mio sdegno gormitico rimane intatto.
Prendiamo quello che mio figlio preferisce in assoluto: il Sommo luminescente. Lo possiede di tutte le misure. Ne esiste pure una versione gigante, e parlante, e ricorda vagamente gli storici robot giapponesi. Solo con i pettorali meno scolpiti. Tanto a che gli servono, già il Gormita medio non perde il suo tempo a combattere, figuriamoci i vip.
In cambio i Gormiti sfasciano gli equilibri matrimoniali. Piccoli come sono arrivano dovunque, e se il figlio è uno di quelli che trascorre ancora sul lettone le sue notti, allora capita di ritrovarseli sotto le terga. Rare volte, quando il loro padroncino non c’è e i genitori si ricordano di avere una vita sessuale, allora interviene Obscurio. Provate voi a farlo mentre un tizio con le corna da toro e le ali da pipistrello vi guarda di traverso. E poi fatemi sapere come va a finire.

Soundtrack

O.T.
C’è sempre il solito problema tecnico che rende un po’ (solo un po’) più difficile postare commenti. Vi ricordo che la procedura più semplice, se non si è loggati a Blogger, è quella di postare come “anonimo” e mettere la firma o il nick name alla fine del commento. Sorry.
Ge.P.

Libri e bambole spettinate

La passione per la lettura nasce da piccoli, dura tutta la vita e chi ce l’ha la affina con gli anni diventando sempre più schizzinoso anche per le edizioni. Quelle tascabili sì, ma solo se Einaudi o Adelphi e poche altre. Le ristampe a 5 euro fanno compagnia alle riviste in bagno. Nasce, cresce e si sviluppa la ricerca del “libro perfetto”, quello che magari insegna a vivere, regala parole che sfuggono per la definizione di un dolore o per una gioia. Un libro ricorda un momento, un giorno, l’attesa, un temporale. E’ la prova che una persona ha attraversato la nostra vita. Ci sono libri che fanno incazzare, altri che provocano cataclismi interiori: i migliori. Alcuni li mettiamo in un angolo. Aspettano. Ogni testo ha il suo tempo.
Tutta ‘sta premessa per parlare di un sito, www.anobii.com, al quale sono molto affezionata (sì, affezionata) e che permette di entrare in contatto con una marea di gente che legge. Lo so: la lettura è l’arma dei solitari e col tempo ho imparato che il giudizio di una persona può non corrispondere in pieno con il gusto di un’ altra. Nelle pagine si nascondono migliaia di sfumature e solo di queste, alla fine, si parla.
Perché mi piace Anobii? Perché, se è vero che un appassionato di libri non sa mai quanti ne ha (io sì, purtroppo), grazie a questo sito finalmente può ricevere l’inventario in Excel direttamente per e-mail. L’elenco dei testi divisi per autore, per casa editrice, per anno di pubblicazione…
Ovviamente ciò non avviene per opera dello spirito santo ma solo dopo un certosino lavoro di inserimento del codice Isbn. Ho passato ore, e conosco molta che gente che ha fatto come me, a scrivere quel numero per vedere magicamente comparire sullo schermo la copertina di ciò che avevo in mano. Non è, per fortuna, il solo modo per “caricare” i volumi. Uno, tanto ovvio quanto geniale, è quello di guardare le librerie altrui e cliccare sull’opzione che permette di copiare il libro nella tua, oppure, se non ce l’hai, puoi andare a spiare una lista che racchiude quelli che vorresti avere. E ancora, secondo il principio secondo il quale i libri scandiscono il tempo, per ogni volume c’è la possibilità di inserire il luogo di acquisto (è tutto nel database) il negozio, la data, di etichettarlo, e soprattutto di esprimere un giudizio, o una articolata recensione. Insomma: un inventario che fa ordine nel posto in cui è più difficile fare ordine, la fantasia.
P.S. Ne approfitto per dire che, secondo me, coloro che organizzano i premi o quelli che scrivono recensioni nei giornali più importanti, la devono finire di prendere in giro i lettori. Spesso parlano di boiate infinite scritte da raccomandati. Rossovermiglio, ad esempio, vincitore dell’ultimo Campiello, è scandaloso. E i giornali la finissero di intervistare l’autrice, Benedetta Cibrario, anche su come vanno pettinate le bambole. A molti di noi le bambole ci piacciono spettinate.

Maria, amici e guardati

Il sentimento, nelle sue forme più variegate. E’ il principio e la fine (ma soprattutto il fine) della tv filippiana. Moderna Montessori, nel look una via di mezzo tra un’aguzzina delle SS e una manager sadomaso del Terzo Millennio (per quest’ultimo riferimento vedansi le calzature esibite per due sabato sera consecutivi su Canale 5, una rete da pescatore a trama stretta che s’inerpica con feticistica voluttà dall’alluce fin poco sopra la caviglia), Maria De Filippi assolve il non semplice ruolo di educatrice dell’animo nazionale, dall’adolescenza (“Amici”) all’altare (“Uomini e donne”), alla famiglia accompagnata per mano, lungo e attraverso le generazioni, fin quasi alle soglie della sepoltura gentilizia (“C’è posta per te”). E siccome la catarsi pedagogica non può che avverarsi soltanto dopo lungo, sofferto travaglio emotivo, è nel difficile esercizio del conflitto – e nell’arte sottile e fittizia del dipanarlo – che Maria (detta, alla pari di una sua illustre antenata, “la sanguinaria”) affila le sue unghie e la sua scienza. I futuri showman and showgirl di “Amici” (tranquilli, li rivediamo da domenica prossima su Canale 5, promossi al pomeriggio del dì di festa proprio come se la loro telecatodica formazione fosse un compito a casa da consegnare il lunedì mattina in classe) devono sottostare alle forche caudine della cattivissima professoressa o trovar conforto nel docente dal cuore di zucchero, ma soprattutto mettere in atto cruente strategie per eccellere. Pin-up lungocigliate e palestratoni infingardi di “Uomini e donne” sono invece già partiti per la caccia grossa al possibile uomo/donna della propria vita. Una volta si diceva “ti porto a prendere un gelato”, oggi la faccenda è più prosaica, “ti porto in esterna”, cinguettano o muggiscono le lei e i lui dell’agenzia matrimoniale di Maria, come a dire “usciamo fuori da questo studio televisivo e ti faccio vedere chi sono veramente” (e che importa se te lo dimostro pure lì davanti a due cameramen e a un fonico?). Ma lo shock più forte è al sabato sera (“C’è posta per te”), madido di lacrime, un immenso feuilleton, disseminato di acuminati cocci da ricomporre attraverso un sovrumano, spossante, sudorante perdonismo familista. “Apri la bustaaaa!!!” urla l’arena tv al ragazzone ventottenne la cui madre è scomparsa nel nulla quando lui era in fasce. “Apriiiiii!!!”, impone la folla al padre che non vuol più vedere la figlia che ha disonorato casa trescando e scappando col marito della zia (sorella di mammà). Montessori 2000 su tacco 12 confessa laicamente i postulanti e invoca il candeggio per ogni colpa, un verdetto favorevole, un pollice in alto, che sia epilogo rassicurante e riconciliante di quei microgiudizi universali attraverso cui, la sera che precede il dì di festa, vuol emendare ogni abominio commettibile fra il tinello e il piano cottura. Quasi sempre, ci riesce.
Avvertenza (con invito alla riflessione): da troppo tempo la tv filippiana (specie “C’è posta per te”) ha vocazione (e probabilmente ascolto) centro-sudista. Forse perché è lì, in quelle plaghe del Belpaese un tempo afflitte ma nemmeno oggi messe granché bene, s’annida il vero cuore dell’Italia? (“addinòcchiate, e vàsame ’sti mmàne”, zàn, zàn-zà; cfr: “’O zappatore”).

Filetto flambé

Certe volte capita, e capita tutto in un giorno.
Capita che al mattino chiedi alla tua metà di comprare le cotolette già impanate dal macellaio. Perché poi, a pranzo, devi fare presto. E capita che invece lui tiri fuori dalla busta della spesa due filetti che ti toccherà fiammeggiare, dopo un’ accurata marinatura in cognac e spezie.
Capita che poi, più tardi, ti venga in mente di chiedere alla tua collaboratrice una scheda di percentuali e grafici, perché poi devi sviluppare un certo lavoro, che magari sia bene informato e bello anche da vedere.
E capita che invece lei ti rifili un copia ed incolla da un sito americano, e pure mal tradotto, dove nessun congiuntivo sta al suo posto, e dove i grafici- dimenticati in un angolo del foglio- si riducono all’advertising di Google: “cerchi sesso facile?”, “cerchi un lavoro?”.
Capita, anche, e capita nel pomeriggio, che in farmacia ti rifilino un cachet per il mal di testa a posto di un clistere. E che poi tu torni indietro per sentirti dire che sì, quella pillola provoca degli effetti secondari che- guarda che culo- fanno al caso tuo. E che non vale la pena usare-prodotti- invasivi-per un problema-così banale.
Capita che tu ti rivolga a tuo padre per la prima volta dopo sette mesi, e che lui scambi un messaggio di riconciliazione per una richiesta di aiuto. E che dunque rifili ai tuoi figli cinquanta euro per comprarsi quaderni e grembiulino.
Capita che di notte sogni il tuo fratellone che manca dalla tua vita da troppi anni. E che, tra un abbraccio e l’altro, ti ricordi di fargli la domanda fatidica. Capita. Capita che gli chiedi, con molta cautela: dai, a me lo puoi dire, cosa c’è “dopo”? Eh? Dimmelo, dai…
E che lui di colpo ti volti le spalle, e ti risponda sadico:
“Un bel filetto flambé!
E che altro sennò, sorellina?”

Lilli e il (Lamberto) vagabondo

Intailleurata come una di quelle attempate dive americane che dopo aver fatto tanto le tragiche svaccano nelle sophisticated comedy attratte dal profumo dei dollari (interno notte: cena d’affari nell’attico di Manhattan) è tornata Lilli la rossa. Si sente già nostalgia di Ferrara, a “Otto e mezzo”, della sua barba burbera, dei suoi ringhi, delle sue manone, del suo giornalismo wrestling. Anche Gruber vorrebbe fare la “dura” alla Giulianone ma non ce la fa: troppo stretta la giacca del tailleur, troppo rosso il rosso del rossetto, troppo atteggiata la palpebra, troppo di traverso forever. L’unica ruvidezza è che è troppo certa delle sue certezze (compresa la gaffe d’esordio – “una colf guadagna 7 euro netti al giorno” – rimediata soltanto alla fine magari perché non si pensi che in casa Gruber a passar l’aspirapolvere sia la schiava Isaura). E’ tornato anche Santoro. Il capello non lo aiuta (una spuntatina dal barbiere no?) e non lo salva nemmeno – anzi, lo affossa – il generoso slancio di braccia e avambraccia, il mulinare di mani, il frullare di dita: eccessivi, ormai, televisivamente antiquati. Senza più i toni tribunizi d’un tempo (tanto per non far saltare la mitralica ai vertici aziendali), con quella spettinatura e quell’ampio ancheggiare, sembra più Michelone ’o pazzo, malamente da sceneggiata. Dal limbo semi-invisibile di Telenorba è riapparso anche Sposini, piazzato al posto di Cucuzza nel gioco delle tre carte di viale Mazzini (“questo la mattina/questo il pomeriggio/questo la sera/questo la mattina/questo il pomeriggio/questo la sera”). Sembra un pilota Alitalia, bello e brizzolato com’è, in immacolate maniche di camicia con cravatta. Si vede che è un po’ in imbarazzo, sullo sgabello, come a dire “che ci faccio io qui a sentir strologare tale Sergio Muniz ex Isola dei famosi?”, a volte (specie quando si collega con le inviate-gattine, forse teme sbaglino e lo chiamino “Micheeeeele…”) dà l’impressione che la vita, lui, vorrebbe togliersela. In diretta. Ma bisogna pure arrangiarsi. Come dice Raffa, la situazione mondiale non è buona.
Ps. A proposito di acconciature: Iacchetti passi dal barbiere anche lui (sembra un “pappa”, con quel cascatone di riccioli); e vogliamo parlare del ministeriale taglio Carfagna di Barbara D’Urso? Roba da querela per plagio!

A proposito di informazione e omosessualità

Chiedete a Salvatore (Totò) Rizzo qualche riga autobiografica e vi sentirete rispondere con la sua voce squillante (che magari imita un attore, un presentatore, un collega…): “Ma che ti devo dire? Lo sai, faccio il giornalista da trent’ anni e solo per mestiere mi sono sempre occupato di soubrettes e ballerine”. Se insistete, scoprirete una persona fiera “d’aver trasmesso nei tre figli il virus dell’ironia”, che sogna “ormai una vita tranquilla ma non per questo ciabattante”. Altro, Totò? “Non lo so, non le so fare queste cose… Ah, potresti mettere che per puro caso non sono nato a Bolzano dove sono stato concepito. E che il mio problema non è cosa voglio fare da grande (quello lo so, il caratterista nelle fiction tv) ma che forse non mi è mai andato giù di fare il ‘grande’. Ti prego, sbrigatela tu”.

di Salvatore Rizzo

Carissimi amici e amiche,
 perdonate se esco fuori dal seminato con una digressione futile al limite della provocazione ma credo (sono ahimè nato cultural/spettacolista e temo che tale morirò, fra una decina d’anni, quando busserà la pensione Inpgi) che anche questo mio campanellino abbia a che fare col tema informazione e omosessualità.
 L’altra sera, Raiuno ha sancito con la nuova edizione di Carràmba il debutto della prima serata friendly della tv pubblica italiana e della sua rete generalista. Beh, più che friendly eravamo catapultati nello stereotipo spinto: a parte l’icona Raffa tappezzata dal solito Sabatelli, il ritorno dei 40 bonazzi a farle da contorno con le canzoncine alla Macao di Boncompagni (siamo bellissimi ma non feròci, faceva, sottotitolato a dovere con l’accento sulla “o”, uno dei jingles); se non ho capito male, il gioco della Lotteria Italia sta proprio nell’indicare dal numerino sul torace palestrato il più bbbbono fra i 40 e votarlo; lo stesso Boncompagni en travesti in versione zia mattocchia; il duetto da serata al Muccapazza con Renatino Zero; il medley degli Abba. Spero a questo punto in una “carrambàta” a tema omo in una delle prossime puntate, tra un Tiziano Ferro e un’antologia musicale dei Village People. Adesso, secondo voi, ci sarà uno straccio di giornale che s’accorgerà di questa straordinaria “rivoluzione” di Fabrizio Del Noce & Co.?
 Non so se lo show fosse davvero figlio di un progetto “mirato” (tendente quantomeno a recuperare tra la cosiddetta comunità gay qualche briciola di share in una serata come quella, televisivamente insidiosa in termini di ascolti) però anche di questo bisognerebbe scrivere (io non posso perché ho avuto un piccolo incidente di salute e sono in malattia) sulle nostre meravigliose gazzette e non soltanto sui nostri siti web e sui nostri blog. Ma questo è cascame, mi direte, sottocultura. Sì, proprio come quella delle interviste a caldo sul disastro aereo di Madrid dove i nostri cari colleghi ficcavano il microfono sotto il naso delle cugine di Domenico Riso per sentirsi ambiguamente/allusivamente raccontare che “era un uomo che amava in bello in ogni sua forma, aveva un gusto eccezionale, stravedeva per l’opera lirica, aveva una casa stupenda a Parigi, arredata con uno stile meraviglioso” e tra me e me dicevo “speriamo che domani non piombi La vita in diretta per una visita postuma nella casa del poverino e la solita inviata scema scopra l’intergrale discografica Callas/Dalida/Mina/Patty Pravo…”.
 Questo non è cascame, nè sottocultura: anche questa è la stampa, o se volete, la Comunicazione, bellezze.

Alla ricerca della "particella di Dio"

Massimo Marino, palermitano, è un fisico/computer scientist che ha lavorato nella ricerca per 17 anni, prima al CERN dal 1988 al 1997 e poi al Lawrence Berkeley National Laboratory in California. Parte del software che girerá negli esperimenti CMS ed Atlas nell’LHC di Ginevra porta la sua firma. Verso la fine del 2005 Massimo ha accettato l’incarico di Head of Science & Reseach Business Unit presso la Apple, Inc. a Londra. Dal dicembre del 2007 integra il Leadership Team del World Economic Forum come direttore del progetto WELCOM.

Lo scorso 10 settembre il CERN ha acceso l’LHC – Large Hadron Collider – con il primo fascio di protoni lanciato lungo il tunnel di 27 chilometri dell’acceleratore di Ginevra. E’ un momento storico per la Fisica delle alte energie che dará materiale di studio ai fisici di tutto il mondo per almeno una ventina d’anni. Generazioni di scienziati vedranno i loro primi passi sull’ LHC ed anche gli ultimi, andando in pensione, forse anche prima che le grandi scoperte attese siano provate e verificate. I run veri e propri, con le prime collisioni e prese dati, avverranno probabilmente non prima di un anno, tanto ci vorrá per mettere a punto la macchina e calibrare al contempo i quattro esperimenti maggiori, ognuno piú o meno delle dimensioni del duomo di Milano.

L’LHC dovrebbe permettere ai fisici di spiegare l’origine delle masse delle particelle, con la sperata scoperta del Bosone di Higgs (dal fisico inglese che per primo ne postuló l’esistenza) e nota in questi giorni come “la particella di Dio”, proprio in quanto nella teoria sarebbe responsabile del meccanismo nel Modello Standard per la generazione della massa. Un’altra risposta che potrebbe arrivare dagli esperimenti dell’LHC riguarda l’origine della materia oscura (dark matter) che costituirebbe il 95% della massa dell’Universo: come mai la Natura preferisce di gran lunga la materia all’anti-materia?

L’acceleratore di Ginevra ricreerá le condizioni all’origine dell’universo, praticamente al momento in cui è avvenuto il Big Bang. Il potenziale è enorme per la comprensione dell’universo conosciuto e di quello che ancora è postulato: l’LHC potrebbe dare – se non le prove – almeno le chiavi per una sua corretta interpretazione.

L’enormitá dell’LHC risiede anche nella collaborazione internazionale necessaria per mettere su una tale avventura. E’ un esempio mirabile di quello che la comunitá internazionale puó fare quando unisce sforzi e capacitá in un clima di trasparenza e collaborazione.

Pane, mortadella e follia

Il mio salumiere è speciale. E non per quello che vende, che pure è di qualità. Ma per gli impiegati che assume. Per lavorare da lui ci vuole la patente della stupidità. Lo dico dopo quindici anni di frequentazione, quindi con statistiche alla mano. L’argomento ha un che di drammatico, in parte: gli individui molto poco svegli che trasportano sacchetti e affettano panini sono, immagino, il risultato di paga scarsa e lavoro nero. E di questo mi dispiaccio per loro. Ma proprio se paghi poco e occulti molto, ti può capitare di reclutare impiegati “di scarto”. Nel caso del mio salumiere, solo quelli. Quando telefono per una consegna a domicilio, il dialogo-tipo con lo sciroccato di turno alla cornetta – in genere si tratta di ventenne crivellato dall’acne e con ciuffo ossigenato e liscio spalmato sulla fronte a coprire gli occhi lessi – è il seguente:
Io: “Per favore, mi manda un pacco di Oro Saiwa?”.
Lui: “Col manico? E vuole pure il secchio, o solo il bastone?”.
Scambia i biscotti per un mocio Vileda.
Io: “Vorrei anche due etti di prosciutto cotto, senza conservanti”.
Lui: “Quello blu? C’è solo blu. Quello chiaro l’abbiamo terminato”.
Sarà prosciutto di maiale extraterrestre?
Io: “Vabbè, allora mi porti un detersivo per piatti e uno per lavatrice”.
Lui: “Quale? Quello del Capitan Findus?”.
Insomma, la merce che mi arriva a casa mi dà sempre un brivido, ogni volta che frugo nei sacchetti.
L’unico che funziona, in quella salumeria, è un tunisino cinquantenne. E’ il solo a non tremare davanti ai capi – due temibili fratelli che discutono esclusivamente di corse di cavalli – anzi, ai capi dà addirittura del tu. E se osano contraddirlo, sono cavoli: “Senti, Franco”, sbotta lui rivolto a uno dei due, “qua lo dico io come si fanno le consegne e come si piazza la merce, e se non stai zitto ti butto all’aria il carrello e me ne vado”. Il tunisino è temuto, ma ha anche una debolezza: ogni estate, prima di rimpatriare per vedere moglie e figli, passa da casa mia e si lamenta che Franco o Pino (l’altro capo) lo hanno accusato di aver rubato due o tre carte da cento euro. Sempre, ogni agosto, immancabilmente. E io sospetto che lui, con quelle banconote, ci si paghi il biglietto per Tunisi o porti un regalo ai bambini. Sarà per questo vizietto che è arrivato dal suo paese – forse sulla scorta della legge del taglione – con due dita mozze della mano destra?

Camera numero 11

I buddisti dicono che la sfortuna viene dalla bocca e ci rovina, mentre la fortuna viene dal cuore e ci rende degni di rispetto.
Non saprei cosa possa mai aver detto di tanto malvagio il mio amico Lele. Non mi ricordo che una sola cattiveria sia uscita dalle sue labbra, almeno da quando lo conosco. Il rispetto, quello, se l’è guadagnato sul campo: è intelligente, carismatico, gran lavoratore, sempre pieno di belle idee.
La mia amica Simona qualche giorno fa ha aggiunto che era pure “beddu comu ‘u suli”.
Già, era. Qualche giorno fa sono stato a trovare Lele al reparto malati terminali e di bello restano solo gli occhi verdi.
L’ospedale sembra un albergo a quattro stelle. C’è pure una tisaneria. Si chiama proprio così: è una stanza con lo spazio lettura, una mini biblioteca e un tavolo dove i pazienti, se lo vogliono, possono accogliere amici e parenti senza per forza riceverli in stanza. Certo, non si può ordinare un Martini con l’oliva, ma un infuso di tiglio sì.
Lele mi ha accolto con un bel sorriso e abbiamo parlato delle solite cose: politica, letture, cucina, cazzate. Era disteso, alle sue spalle un armamentario tecnologico.
Altre volte sono andata a trovarlo. Altri ospedali, altri reparti, ma la musica, dopo la visita, è sempre quella e suona in filodiffusione nel mio cervello.
Come una colonna sonora ripetitiva, ma non sgradevole.
Pensate che sia il Requiem di Mozart?
Sbagliato.
Somiglia invece all’Estate di Vivaldi, o giù di lì.
E’ sempre la stessa storia. Appena lascio Lele dismetto il sorriso forzato. Poi soffoco una lacrima, sento il rossore che mi sale in faccia, e il tutto dura circa un minuto. Quando il sole, o il vento, o qualunque altra traccia atmosferica mi sfiora il viso, attacca il mio Vivaldi cerebrale.
Io sono viva, mi dico. Sono viva.
Infine mi sento un verme. Ma anche quello dura poco.
Una prece. Per me.