Tommaso Padoa Schioppa

Un ministro che chiama bamboccioni quelli che, ormai prossimi ai quarant’anni, vivono per scelta coi propri genitori non mi scandalizza affatto. E se lo stesso ministro dichiara con studiato candore che pagare le tasse è bello mi scappa un sorriso, e non di scherno.
Siamo un Paese di viziati, brontoloni, moralisti e smemorati. Se qualcuno dice la verità, magari in termini un po’ alla buona, siamo pronti a indignarci. Se qualcun altro invece si traveste in doppio (triplo) petto e ci promette un milione di posti di lavoro, più impunità e meno tasse per tutti, siamo pronti a votarlo. E’ una mia perversione: pur ruminando brontolii come un cammello sahariano, ho più simpatia per la solidarietà fiscale che per i condoni.
I finti giovani che nascondono le responsabilità sotto l’ala delle anziane madri mi stanno antipatici. Pagare le tasse è giusto e, con la giusta dose di masochismo sociale, pagarle in un Paese di milionari evasori può persino essere bello. Sto diventando più buono o più rimbecillito?

Gentile presidente Miccichè

Gentile presidente Gianfranco Miccichè, lei è la più alta carica dell’Ars, il parlamento siciliano, tra i più antichi del mondo. Recentemente ha scritto nel suo blog, e confermato in altre interviste, di voler far debuttare la Sicilia su Second Life. Non mi unisco al coro dei soliti disfattisti che rispolverano sempre problemi antichi (insoluti) quando si parla di idee moderne, anche se mi ha fatto sorridere la battuta di un blogger su Rosalio che, parafrasata, suonava così: prima di pensare alla second, pensiamo alla prima life.
Bando agli scherzi, la tecnologia e l’innovazione non sono surrogati, né vernice coprente della realtà quindi smettiamola con i piagnistei: la mafia, la disoccupazione, la siccità e il traffico non si sentono trascurati se si dà più forza al silicio e ai circuiti stampati.
Le scrivo dal mio piccolo blog perché qui c’è la certezza di rimanere in tema e c’è il mio personale impegno affinché tutti i commenti fuori argomento (in gergo internettiano OT) vengano evitati. Parliamo di tecnologia, di immagine virtuale della Sicilia, di risorse economiche destinate a questi settori.
Con l’operazione Second Life lei dice, anzi scrive, di voler coinvolgere “i cittadini in un processo di democrazia partecipativa” all’interno del “metamondo”. Ottima idea. Ma quanti cittadini hanno accesso alla rete senza problemi? E’ più importante una realtà virtuale con tanti commessi-avatar, mostre in alta risoluzione e banner assessoriali o una connessione con mezzi efficienti, tariffe eque e soprattutto al passo con le altre città europee?
Lei, gentile presidente, ha promesso un network Wi-Fi cittadino e leggo che entro due settimane partirà un servizio sperimentale in piazza Magione a Palermo. Favoloso, me lo segno. Possiamo sapere in modo chiaro quali sono i costi di questa operazione così da poter giudicare in modo sereno e soprattutto completo?
E, a proposito di costi, ci può dire a cosa stiamo rinunciando (perché la coperta è stretta, si sa) per lanciarci nell’avventura di Second Life?
Nel “metamondo”, che è già una parola poco digeribile in una regione che di “metà” sopravvive, dobbiamo dare immagini complete e aderenti alla realtà. Che specchio è quello che non riflette, ma deforma?
Ecco, gentile presidente, mi piace pensare che l’immagine virtuale della Sicilia che lei ha in mente sia quanto più veritiera possibile: con i tesori dell’Isola e con i pirati che le sono nemici, con le risorse e con i limiti che dovranno essere eliminati, con la storia dei grandi e con l’elenco degli ignobili, con le promesse in evidenza al pari degli errori da non ripetere mai più.
Solo così dimostrerà di aver indirizzato la medesima attenzione alla prima e alla second life.

Aggiornamento.
La risposta del presidente Gianfranco Miccichè.
Buongiorno
per quanto riguarda SL ribadisco quanto già detto….per quanto riguarda i costi di piazza magione si attestano attorno ai 10000€ che è al mio modo di vedere un costo basso per un servizio del genere…

saluti

Gianfranco Miccichè

La polemica sul fondoschiena

Apprendo che nei giorni della mia assenza si è sviluppata una polemica sul culo delle concorrenti di Miss Italia. Un giurato ha esternato la sua pulsione di vedere anche il fondoschiena delle concorrenti e ha innescato un dibattito nazionale sul tema. Ho letto critiche sdegnate, ho letto richiami al rispetto della donna, ho letto interventi di Grandi Firme, ho letto infine una marea di stupidaggini.
Fatta salva la risata per la goliardata del giurato – che era la reazione più consona che un Paese normale avrebbe dovuto riservare all’argomento – cosa ci si aspetta da un concorso di bellezza? Sorprese, leggerezza e, perché no?, stupidaggini.
Una volta, molti anni fa, mi capitò di scrivere su un concorso che aveva l’ardire di intitolarsi “Una checca per l’estate”. Mi commissionarono un pezzo ironico, anche di sfottò. Mi ritrovai invece a scrivere una cronaca crudele, e soprattutto seria. Come seria può essere una manifestazione del genere. Ricevetti – e fu l’unica volta – diverse lettere di complimenti che provenivano dalle/dai concorrenti. Le conservo ancora.
I concorsi di bellezza, in ogni latitudine, insegnano una sola cosa: l’aspetto fisico è carta d’identità e sbozzo di moralismi, è orgoglio e vergogna, è alcol dei sensi e valeriana della ragione. Pretendere che una miss abbia un bel culo è un diritto. Far finta di giudicarla dallo sguardo, un’ipocrisia pelosa.
Evitiamo i primi piani per via della fascia protetta, tanto chi guarda programmi simili sbircia senza tante storie. Però non facciamone un argomento serio su cui perdere tempo. Di culi in mostra parliamo, eh!

Ancora sul bacio

Ancora sul bacio tra omosessuali, tema sul quale ci scaldiamo da un paio di giorni. Stavolta vi do due elementi di cronaca, neanche troppo fresca, su cui riflettere.
Secondo il sostituto procuratore generale della Cassazione Vito D’Ambrosio, ”se si stavano solo baciando, non c’è alcun dubbio che i due omosessuali sorpresi al Colosseo non hanno commesso nessun atto osceno. Ormai da molti anni, per fortuna, la giurisprudenza è costante nel considerare il bacio in pubblico un comportamento lecito e la valutazione sulla liceità deve essere fatta indipendentemente dalle tendenze sessuali di chi si cambia questa effusione”.
“Non è ammissibile ritenere che gli stessi atteggiamenti che quotidianamente assumono in pubblico migliaia di coppie eterosessuali – ha detto D’Ambrosio – possano essere considerati ‘fuorilegge’ se si tratta di una coppia omosessuale: verrebbe violato l’articolo tre della costituzione sull’uguaglianza dei diritti”.
Ecco invece le cifre fornite dall’Istat sulle denunce per atti osceni in Italia. Lo scorso anno sono state 1.640 le persone denunciate. Il numero degli atti che – per il codice penale – offendono il “buon costume” e che si realizzano in luoghi pubblici sono stati compiuti per lo più da uomini (1514 denunce), mentre le donne accusate sono 126. I minori sono 53, 47 dei quali sono ragazzini. Per questo reato ci sono state 1.144 condanne, ma non sempre i colpevoli vengono identificati: in circa 620 casi le forze dell’ordine non sono riuscite ad identificare i responsabili. Una curiosità: sono i centri più piccoli, quelli fino a 30 mila abitanti che raggiungono il picco degli 851 atti osceni denunciati a fronte dei 349 avvenuti nelle città con più di mezzo milione di abitanti.

Tema

La cenere di New York e quella di Kabul

Che gioco è quello in cui, alla fine, tutti perdono? E’ la domanda – banale quanto volete – che mi ronza in testa da qualche anno, dopo la strage dell’11 settembre 2001. Da allora, ad ogni anniversario, le due parti fanno, a modo loro, bilanci trionfali. Da un lato il progressivo annientamento degli “Stati canaglia”, dall’altro una continua pressione (anche psicologica e mediatica) su Bush e il suo “popolo di infedeli”.
Ci sono ancora molti dubbi su ciò che accadde la mattina di sei anni fa nei cieli d’America, i più sorvegliati al mondo. Non riesco ad avere un’idea precisa degli scenari, perché mi sono ingozzato di ogni tipo di documento, articolo, video, fanzine, pizzino sull’argomento. Posso solo riferire ciò che la pelle trasmette, perché a quella devo limitarmi: sotto c’è la carne, e in questa storia la carne brucia tra le macerie.
Il popolo Usa ha dimostrato una coesione degna della sua tradizione (non antica, peraltro). Nei momenti difficili, tutti col Presidente, sempre. Poi gli si faranno le pulci.
Le bombe intelligenti perdono punti nella scala del QI anche se a lanciarle è un premio nobel. Figuriamoci se le tira un coglione.
La guerra preventiva è un segno di onnipotenza che genera orfani preventivi, fame preventiva, vendette preventive.
Alcuni giornali, all’indomani delle stragi, scrissero: “Siamo tutti americani”. Dalle mie parti, per cultura, siamo più arabi che americani. Non lesiniamo aiuti e solidarietà, non abbiamo pulsioni da kamikaze. E soprattutto se vogliamo fare il pieno di benzina, ci affianchiamo con l’auto e paghiamo, non occupiamo militarmente tutto il quartiere per prenderci il distributore.
L’11 settembre è una buona occasione per riflettere sulle vittime senza colore. A Manatthan come a Kabul, la cenere è grigia.

 

Il mestiere di giornalista

A Palermo c’è un giornalista che è costretto a lavorare con la scorta. I contenuti di certe comunicazioni tra mafiosi e alcuni messaggi di minaccia lo rendono “persona a rischio”: sabato scorso hanno persino tentato di piazzargli una bomba sotto l’auto. Lirio Abbate scrive di mafia da molti anni, nonostante non sia un vecchio del mestiere: il vizio della cronaca lo ha preso infatti che era giovanissimo.
Dopo un periodo in cui, per motivi di sicurezza, ha accettato di trasferirsi a Roma, è rientrato in Sicilia, nella terra che più ritiene fertile di notizie, la sua terra. E, puntuali, ha trovato gli uomini delle cosche a dargli il bentornato.
Sono molto critico nei confronti della categoria dei giornalisti – di cui faccio parte da tempo – perché si è lasciata svuotare di ruoli e responsabilità. Ci sono più pensatori che cronisti, più tecnici di impaginazione che teste curiose, più poltroncine che tacchi consumati. La notizia non va più cercata, ma trattata. La verità esiste solo nella testa di certi direttori, che col giornalismo hanno poca dimestichezza. I dubbi, che sono il sale del giornalismo, sono privilegio di pochissimi.
Lirio Abbate – che, spero, non diventi mai un simbolo – mi riconcilia con questa professione. Perché lui ha dimostrato di avere l’ostinazione e l’onestà che mancano alla maggior parte di noi.
P.S.
Proviamo a scrivere dovunque questa frase: la mafia ha rotto i coglioni.

La strana storia del signor Rubin

Il gigante discografico Columbia Records ha assoldato come co-presidente un quarantaquattrenne, produttore di gruppi rock, capellone, appassionato di yoga, che va in giro senza scarpe e che ha fatto scrivere sul contratto che non andrà mai in ufficio nella sede di New York. Rick Rubin vive in California, è appassionato di magia, legge testi orientali, probabilmente si spara qualche canna e ha accettato un compito pazzesco: salvare le case discografiche dai colpi inferti dal popolo dell’Mp3 che non compra più cd e che scarica files sull’iPod. I giornali puntano tutto sull’effetto: l’anti-manager ce la farà? Il neo-hippy può essere un bluff? Come lavora uno che non va in ufficio per contratto? Come la prenderanno colleghi e sottoposti?
Ciò che non si dice (scrive) è, come spesso accade, la frase più elementare: questo Rubin deve essere veramente bravo.
Se i signori della casa madre Sony, che notoriamente non sono né scemi né votati al harakiri, lo hanno scelto devono aver guardato oltre le sue apparenze pulciose. In un mondo in cui l’attento osservatore dei costumi è ormai solo un maniaco da spiaggia, nuove strade vanno tentate. Lo stile corporate, il fare e pensare trendy, l’abbigliamento griffato, il volto piallato dai chirurghi non sono necessariamente garanzie di buona amministrazione: qualcuno comincia ad accorgersene. Come dire? Proviamo con i cannaroli, i cocainomani hanno fallito.

Sei minuti

Nel giallo di Garlasco – una piccola Twin Peaks pavese – il colpo di scena quotidiano è oggi dedicato a un buco di sei minuti, il tempo impiegato dal fidanzato della vittima a entrare e ad uscire dal luogo del delitto. Mi sono perso qualcosa in questa storia cucinata e spalmata sui giornali e sui siti web. Anzi, ho voluto perdermi qualcosa quando ho capito che la tragedia di una ragazza massacrata finiva per essere un elemento di colore nei resoconti morbosi di invidie malcelate, chiacchiericci paesani, pulsioni post adolescenziali e voglie di protagonismo televisivo. Ho seguito soltanto le cronache di Piero Colaprico, che su Repubblica si è ostinato tenere un diario puntuale sugli sviluppi delle indagini. Il resto mi è sembrato quasi tutto immondizia.
Tralascio l’irruzione di Fabrizio Corona e la saga delle due cuginette, diventate oggetto di un tormentone fotografico, e dedico poche righe a questi cruciali sei minuti. Gli investigatori vogliono sapere cosa ha fatto veramente il fidanzato di Chiara in quest’arco di tempo, a parte chiamare la vittima, attendere una risposta che non arriva, scavalcare il cancello della villetta, entrare, scendere una rampa di scale, scoprire il cadavere, spaventarsi quanto basta, uscire e avvertire il 118. Sei minuti sono molti per chi indaga, pochissimi per chi si trova in un dramma. Non voglio esagerare, ma mi sembra irreale costruire un castello accusatorio su un tempo così neutro. Sei minuti basterebbero per uccidere a forza di muscoli (la ragazza è stata assassinata con dei colpi di un oggetto molto pesante), nascondere l’arma del delitto e presentarsi pulito ai soccorritori? Credo di no.

Leggi mancine

E’ un Paese strano quello in cui si grida allo scandalo se una giunta di sinistra dichiara guerra ai lavavetri. Ci pensavo stamattina leggendo i giornali. E in particolare mi soffermavo sull’inconsistente concetto di sinistra (e, per contrappasso, di destra). “Potevi pensare a qualcosa di meglio”, direte voi. Vero è. Ma lasciatemi spiegare, così mi disinnesco.
Una giunta di sinistra deve lodare l’illegalità o far finta che certi fenomeni non esistano? Mi pare questa la domanda cruciale.
Nel nostro Paese, il rigore e la tolleranza zero sono sinonimi di destra. Altrove sono chiare linee politiche, anche di destra.
Nel nostro Paese, le fantasie più impopolari e il garantismo più ballerino sono sulle bandiere di una sinistra finto-buonista. Altrove sono semplici errori di grammatica politica, anche di sinistra.
Più che giudicare un provvedimento legislativo, una delibera, una circolare, dalla casacca partitica di chi firma, sarebbe utile leggere quel provvedimento, quella delibera, quella circolare e scegliere se applaudire o se fischiare, pur obbedendo.
Restiamo distanti dalle regole mentre ci attraggono i moralismi pelosi, le scaramucce da campanile, le strategie condominiali. Siamo campioni di equilibrismo logico, vogliamo sempre ragione e se non ne troviamo una disponibile ce la costruiamo. Anche abusivamente.
Se una giunta dichiara guerra ai lavavetri, voglio sapere come e perché è arrivata a tanto. Voglio sapere cosa accade giorno per giorno e se la situazione migliora. Voglio sapere chi vigila per evitare abusi e chi garantisce sulla effettiva applicazione della legge. Voglio illudermi di non lasciarmi influenzare se chi ha firmato l’ordinanza è mancino oppure no.