L’errore

E adesso abbiamo un nuovo martire di cui non si sentiva la mancanza.

Col cappio al collo

Come qualche illustre commentatore osserva sui giornali di oggi, la condanna a morte di Saddam ha fatto sì che l’Italia si ritrovi unita in un coro a difesa della vita del dittatore. Il sentimento di unità nazionale è effettivamente molto raro da riscontrare se non in certe vecchie canzoni patriottiche o in qualche volume impolverato: non ci trovo nulla di strano, viviamo così distanti l’uno dall’altro che solo temi forti o appassionanti possono far sì che da cocci gli italiani tornino a farsi vaso.
Ho già affrontato la questione dei dittatori e del sano odio che suscitano in me. Il concetto di sacralità della vita è strettamente legato a quello di giustizia. Se odio qualcuno che ha fatto del male, voglio che costui paghi fino all’ultimo giorno di permanenza su questo mondo. E dal momento che Saddam ha molto da espiare ritengo che la vera giustizia, feroce e implacabile, debba pesare sul suo groppone per anni, più a lungo possibile. Non sarà un cappio al collo a chiudere la partita: più che al patibolo, il rais iracheno si avvia al martirio. Ed è una sorte che non merita. Giusto sarebbe togliergli quest’ultimo palcoscenico, condannarlo ad un’anonima e sicura prigionia, curarlo e trattarlo da ergastolano. Eradicarlo dai simboli di cui si è appropriato e restituirlo alla nuda terra senza altro diritto che quello di sopravvivere alla sua stessa caduta.

Ecomafia

Devo scrivere un racconto che ha a che fare con le corse clandestine di cavalli. Mi sto documentando, chiedo in giro, cerco su internet. La sensazione che ne ricavo è che nonostante le decine di blitz delle forze dell’ordine, in Sicilia come nel resto d’Italia, ci sia un fenomeno sommerso e a tenuta stagna. Insomma è più facile raccogliere notizie sull’ultimo, misterioso, pentito di mafia che sulle organizzazioni criminali dedite allo sfruttamento degli animali. Le ecomafie in Italia sono, per quello che leggo, un’emergenza. Di anti-ecomafia invece si parla pochissimo, purtroppo. Non per carenza di coraggiosi militanti quanto per una mera questione di rilevanza politica. La lotta alle ecomafie non è mai andata di moda, non ha ispirato carriere né è mai stata strumento elettorale. In quanto pura lotta al crimine è destinata alle brevi in cronaca. Se così non è, sarò felice di essere smentito.

Mailing list

Il natale è definitivamente cambiato. Lo so, questo è un concetto del tipo “ai miei tempi” e vuol dire che sto invecchiando. Ma se da un lato è naturale che la stagionatura dei neuroni abbia certi effetti collaterali (ricordare e paragonare, paragonare e ricordare), dall’altro anche un ventenne si rende conto di quanto e come i meccanismi su cui si fonda l’aspetto sociale della festività siano mutati nel tempo.
Per farla breve, prendete gli auguri.
Prima si telefonava, ci si sottoponeva a estenuanti visite di cortesia, ci si incontrava o semplicemente si parlava con parenti di cui per tutto il resto dell’anno si erano perse le tracce. Avevo uno zio che credo di aver incontrato, in vita mia, solo in periodo natalizio. Adesso ci sono gli sms e, in forma meno grave, le e-mail. I cellulari rigurgitano messaggini impersonali a qualunque ora del giorno. Spesso ce li inviano persone che abbiamo incrociato mezza volta o di cui non conosciamo neanche la voce.
Carissimi auguri di un sereno natale.
Segue un nome e spesso nemmeno quello.
Un tempo c’erano i biglietti imbustati. Anche lì si sconfinava nel formalismo e nell’impersonalità. Ma almeno c’era una firma vergata, c’era una grafia, c’era un segno di riconoscimento. Oggi il nostro destino dipende dalle mailing list: se ci finiamo dentro possiamo essere contattati senza limiti di tempo, modo e quantità da chiunque ci abbia eletti a bersaglio. Durante il periodo natalizio queste liste appaiono fondamentali per i professionisti dell’informazione senza forma e senza contenuto.
Il prossimo anno impegniamoci a restituire ogni “messaggio circolare” al mittente. Nella speranza di essere eliminati dalla sua vacua mailing list.

Buongiorno e buonasera

Non so se ci avete fatto caso, ma riscuotere un saluto, un augurio o comunque una frase di buon auspicio diventa sempre più difficile. Persino il vecchio “buongiorno” di circostanza che il fruttivendolo vi regalava appena vi avvicinavate si è trasformato in uno sbrigativo “dicaaa”. Il che è un po’ come il salto dei preliminari in amore: prima di fare (o dire) c’è un rito millenario che va celebrato. Qualche anno fa, quando vivevo ancora in appartamento, mi capitò di incazzarmi col portiere dello stabile in cui abitavo. Costui aveva l’abitudine di parlare al telefono in continuazione e non si curava dei condomini che, come me, avevano deciso di ribellarsi al racket delle mance che lui aveva messo su. In pratica se non cacciavi fuori la banconota, lui non ti aiutava a scaricare la spesa dall’auto, ti ignorava quando lo cercavi al citofono, non puliva la tua parte di pianerottolo, non ti avvisava se c’era posta, non ti guardava neanche.
Una mattina, dicevo, decisi di arrabbiarmi con lui. E passandogli davanti gli gridai: “Salutare! Salutare è salutare!”. Sono certo che la “e” accentata sia stata scambiata con una congiunzione e che di conseguenza non sia stata compresa la funzione benefica del saluto.
Infatti lui alzò lo sguardo dal cellulare e mi gelò con un “Buongiorno e buonasera”.
Buon natale a tutti, buon natale e ancora buon natale!

Dignità

Ho molte cose da fare e molti spunti da fornirvi. Un romanzo a otto mani che langue, un racconto che mi hanno appena commissionato, un manoscritto che doveva essere pronto qualche mese fa. E ancora un monologo teatrale che attende solo di traghettare dalla mia testa al foglio di word, molti libri da leggere, la mia famiglia da coccolare, un bel po’ di musica arretrata da scaricare dal web, qualche film da vedere. Eppure…
Eppure ancora oggi voglio dedicare queste righe all’argomento di cui abbiamo parlato ieri, la situazione dei giornalisti in Italia, con particolare riferimento alle due testimonianze che trovate nei commenti del post qui sotto (quello di ieri). Giovanni e Vincenzo, due precari del mondo dell’informazione, ci hanno raccontato due modi di vivere la loro condizione in queste condizioni. E davanti alle loro parole le mie cose da fare e gli spunti da proporvi mi sembrano piccini e per nulla urgenti. Se avete tempo quindi oggi date un pensiero a tutti i Giovanni e i Vincenzo che combattono con l’arma della dignità contro la spocchia del cretino prezzolato di turno, in qualunque mestiere, ambito, pianeta abbia il demerito di operare.

Gli ostaggi

Da oggi e per tre giorni i giornalisti italiani sono in sciopero. Vuol dire che, includendo i due giorni di vacanze natalizie, la stragrande maggioranza dei quotidiani non sarà in edicola prima di mercoledì. Questa non è una testata giornalistica, ma io, innanzi tutto, sono un giornalista (da vent’anni) e non posso far finta di essere altro. E’ in atto uno scontro senza precedenti tra la mia categoria e quella degli editori. Per i dettagli della vertenza, se mai foste interessati, vi rimando ad altre sedi.
In genere questo è un argomento delicato che si affronta in alti consessi, con adeguate rappresentanze e anche con una certa tutela (sindacale). Eppure ci sono poche righe che non posso tenere per me. Quello che mi preme comunicare è la gravità di una posizione, quella degli editori, che traduce in termini elementari il concetto di dialogo: se tu provi a dire una cosa che non mi piace o che non mi conviene, io ti mando a quel paese e nemmeno ti voglio incontrare per strada. Discorso plausibile finché si tratta di questioni condominiali, discorso pericolosissimo quando ci sono in gioco robe come i contratti o la Costituzione. I giornalisti inseguono gli editori come in un gioco da giardinetti e quelli vanno via senza neanche rispettare le regole del gioco. Il peggio è che ci sono giornalisti che stanno con la controparte, consentendo la pubblicazione di giornali estemporanei pur con uno sciopero di categoria in vigore, senza nemmeno aver chiaro il proprio futuro. Ho parlato di controparte, sì. Gli editori non sono il nostro nemico. Sono i nostri datori di lavoro, coloro i quali hanno creduto in noi, scegliendo giorno per giorno il rischio di impresa e sfidando un mercato sempre più difficile. I giornalisti non sono imprenditori, se lo fossero non sarebbero giornalisti: è come chiedere a un parroco di farsi chiesa e fedeli tutto insieme. Un pasticcio, insomma. Ognuno ha i propri ruoli. Chi li confonde crede di essere più realista del re, ma in realtà è solo ostaggio del re.

La politica del rigore

Notizia: negli Usa il totale del raccolto delle piantagioni di marijuana ha un valore doppio rispetto a quello del grano. Cause ed effetti sono spiegati negli articoli di cronaca. Per quanto mi riguarda è l’occasione di catapultarmi nel ring, eternamente affollato, della questione delle droghe leggere. Sono della generazione di quelli che hanno visto troppe persone attaccarsi alla bottiglia di Vecchia Romagna pur di “crearsi un’atmosfera”. Qualcuno invece si faceva una canna. L’unica differenza tra gli uni e gli altri è che i primi andavano al bar (o al supermercato), pagavano e si stonavano beatamente. Gli altri facevano lo slalom tra brutti ceffi, pagavano col rischio di essere rapinati e si stonavano col terrore della polizia. Ieri ed oggi la politica del rigore stabilisce di fatto il primato della bottiglia sul fumo. Sono tutt’e due pessime (ripeto pessime) abitudini, da scoraggiare. Ma trattare da criminale un ragazzo con qualche spinello addosso e non fare lo stesso con chi si aggrappa alla bottiglia è da ubriachi. O da fumati.

Qualità della vita

La Sicilia si riconferma agli ultimi posti della classifica sulla qualità della vita in Italia. Il bombardamento mediatico vi avrà di certo raggiunto: Siena prima, Catania ultima e via elencando. Ricerche e sondaggi di questo genere mi lasciano sempre perplesso per un’irrazionale diffidenza nei confronti delle statistiche, alle quali darei pieno credito solo se mi venissero fornite le generalità complete degli intervistati e gli stenografici delle loro risposte. Per il resto non dubito che a Siena si circoli meglio che a Palermo, ma sono certo che la vitalità dei catanesi e la conseguente arte di saperne godere non temono confronti.
La qualità della vita ha mille sfaccettature, dipende dalle giornate. Se mi sveglio storto mi può dar fastidio il sole d’inverno, viceversa posso trovare piacevole un acquazzone estivo. Un’azienda che fa tre assunzioni è una buona notizia dalle nostre parti, a meno che io non sia tra i disoccupati esclusi. Un sindaco che apre un museo anche di notte me lo bacerei, a patto che l’ingresso non sia sotto la finestra della mia camera da letto.
Come uscirne?
Troviamo elementi di discussione meno soggettivi. E’ giusto che un carciofo costi un euro? O che le pesche in estate siano a 3,5 euro al chilo?
Misurando le risposte avremo un’altra idea di qualità della vita e di quanto gli italiani, da Siena a Catania, da Torino a Canicattì, ne abbiano le tasche piene. O vuote.

Democrazia

«Sei tu» la Persona dell’Anno 2006 secondo la rivista Time. Il settimanale, pubblicando in copertina un computer con uno specchio al posto dello schermo, ha scelto così di premiare tutti quelli “che hanno partecipato all’esplosione della democrazia digitale” usando Internet per diffondere parole, immagini e video.
Sarà che la parola democrazia mi emoziona ancora, sarà che l’idea di un premio cumulativo agli anonimi internauti è vernice coprente sull’ingiusta fama di segaioli sfigati, ma vi confesso che questa del Time mi sembra proprio una bella notizia.
E’ vero che su YouTube o su MySpace non c’è sempre roba da Nobel, ma è pur vero che lì tirannia e libertà non si spacciano l’una per l’altra.