E nascondici nel male, amen

Ora che il famoso documentario sui preti pedofili è stato tolto dal monopolio di quel solito manipolo di pippaioli internettiani ed è stato trasmesso in tv (ad Anno Zero) si può capire meglio l’imbarazzo della Chiesa.
L’istituzione che alberga in Vaticano rifiuta la democrazia della notizia, ulula al complotto se le si sposta una virgola dalle sue pergamene, difende – ed è francamente orribile – i suoi orchi.
Il decreto che impone una linea di sommersione (e di corruzione) per tutti quei casi in cui preti hanno abusato di bambini/e appare come una delle vergogne più vergognose di cui si debba avere vergogna. Qui non si tratta di giudicare il caso singolo, ma di censurare un sistema che, a buon diritto, il giornalista della Bbc ha definito mafioso.
La Chiesa, nei suoi imperscrutabili apparati centrali, sapeva tutto in tempo reale. Tollerava, nascondeva e guardava dall’altra parte. Ci sono casi registrati in ogni parte del pianeta. C’è un parroco malvivente che ha abusato, da solo, di 134 bambini! Traduco la cifra in lettere, forse vi fa più effetto: centotrentaquattro, parola dolorosamente lunga.
La regola scritta prevedeva che il pedofilo fosse, al limite, trasferito. Non deferito. Mai denunciato.
Che sistema è quello in cui i crimini si nascondono? E’ un sistema malato e crudele, sfido chiunque a provare il contrario.
Ci siamo indignati, in Italia, a sentirci raccontare i misfatti di esponenti politici che rubavano dalle nostre tasche. Abbiamo tirato un sospiro di sollievo alla fine della Prima Repubblica. Siamo scesi in piazza per chiedere giustizia civile, economica e sociale, per la tutela dei diritti umani, per il poco lavoro e per le troppe tasse, per i Dico, i Pacs, gli Lsu, i Co.co.co, per bimbi rapiti o uccisi, per stragi senza colpevoli e per morti senza nome. Siamo esperti di ingiustizie e ci vantiamo di esser sempre professionisti di qualcosa che non dà fama favorevole: dell’antimafia, della protesta orchestrata, della raccolta di firme.
Siamo maestri in materia di Relativismo del reato. Possiamo evitare questa volta di perderci nei meandri di una fede che non c’entra niente e mostrarci intransigenti verso chi pretende di raccontarci l’aldilà credendo già di viverci?

I killer e le vittime

Più di trecento ergastolani hanno scritto al presidente Napolitano per protestare contro l’ergastolo e per chiedere, provocatoriamente, la pena di morte. Tra loro ci sono assassini di magistrati, di ragazzini, di giornalisti, di persone comuni che hanno scelto il giorno sbagliato per uscire fare la spesa. I firmatari sono anche camorristi, mafiosi, supertrafficanti di droga. Il mondo politico, Presidente in testa, ha risposto manifestando interesse per l’iniziativa. Si pensa – e da tempo – di sostituire il “fine pena mai” con un periodo di detenzione non inferiore ai trent’anni.
Sono una persona per certi versi scontata: mi piacerebbe sapere che ne pensano le vedove, gli orfani, gli amici e i compagni di lavoro delle vittime. La civiltà di un Paese sta nel saper affrontare con coraggio e senza equilibrismi questioni sostanziali con felice fermezza. Se si fa qualcosa per ridare speranza ai colpevoli si può fare altrettanto per i sopravvissuti alle loro violenze? Lo so, ogni volta in cui in Italia si dibatte sul basilare rapporto tra causa ed effetto ci si impantana nella banalità, nella rissa o, peggio, in tutt’e due.
La certezza della pena nel nostro Paese è un modo di riempirsi la bocca quando ci si trova davanti a crimini reiterati, orrendi, prevedibili. Se si ottenesse un certificato collettivo con un elenco di chi deve stare dentro e di chi invece non ci sta sarebbe tutto più semplice. Non si perderebbe tempo con la demagogia e si darebbero certezze a quelli che le esigono. Che, ricordiamolo sempre, sono le vittime.

P.S.
La foto è del grande Franco Zecchin.

Il cinema deprimente

Secondo Quentin Tarantino il cinema italiano degli ultimi anni è deprimente. Saltatemi addosso, ma non posso che dargli ragione.
Tarantino è un regista incostante e discusso (anche se a me piace, tranne che per Le Iene) . Molti film italiani hanno più pretese che plot, campeggiano su uno schermo più per contributi riscossi che per sceneggiatura. Non sono un esperto e giudico a gusto. Se voglio svuotarmi il cervello scelgo un film americano, se ho voglia di sentimento vado verso una commedia inglese, se mi voglio far male oso aprire gli occhi su un retrospettiva orientale, se cerco l’impegno posso trovarlo in certe pellicole spagnole o del centro Europa. Non è un problema di geografia, ma di fabbrica delle idee. Noi italiani siamo diventati un popolo di fiction così come l’Olanda è diventata una catema di montaggio di format televisivi. Ognuno trova i suoi ritmi (televisivi e/o cinematografici) nella cultura che impera. Se il nostro modello, salvato dallo stesso Tarantino, è Moretti non siamo messi bene. A me Moretti dopo un po’ annoia a morte. Perché il cinema, l’arte, nasce per divertire e arricchire, non solo per compiangersi e contestare a bocca piena. Quando si parla di pesantezza fatta celluloide si cita spesso a sproposito Eisenstein con la sua Corazzata Potemkin dimenticando che le sue Lezioni di regia sono un trattato illuminante sui volumi scenici e le inquadrature (scritto quasi un secolo fa). Dal sacro al profano, qualche giorno fa Wilbur Smith ha dichiarato alla tv italiana che c’è solo un ingenuo segreto per raccontare buone storie: scriverle bene. Partiamo da qui.

La noia elettorale

Ineluttabile come il battesimo del figlio di un lontano cugino, il commento all’ennesima tornata elettorale si porta appresso una sfilza di luoghi comuni e qualche sbadiglio. I risultati restano sullo sfondo perché sappiamo quanto pesano i sussulti delle Amministrative nella storia politica italiana. Vince uno che non sta al governo e grida al governo: “Dimettetevi!” Vince chi sta già al governo e grida a quello che ci stava prima: “Perché non ti dimettevi l’anno scorso?”. In ogni caso nessuno si è mai ritirato, ha solo esercitato l’ugola per far ritirare l’altro.
Per fare qualche nome, Berlusconi che adesso ulula vittoria e conseguente vendetta per i risultati ottenuti ieri al Nord, non si è sognato di alzarsi dal trono quando lo occupava lui nemmeno per andare a far pipì nelle occasioni in cui le Amministrative gli erano state sfavorevoli.
Lo so di essere noioso. Mentre batto queste parole sul mio computer di fortuna (soffocato da una connessione asfittica) mi rendo conto della quota di “già detto, già sentito”…
Lasciatemi scrivere solo qualche riga di analisi. Per esperienza sappiamo che il cosiddetto voto di protesta è un fenomeno ricorrente: pensate alla Lega al Nord, e all’Mpa al Sud. Le politiche fiscali, nel dettaglio, hanno un peso, i comizi non ne hanno nessuno. Un sistema elettorale che sguinzaglia, come accade in Calabria, un candidato ogni 150 abitanti non lo accetterebbero neanche nel Monopoli.
Finito. Da domani parliamo d’altro.

Aggettivi per Cuccia

Quando se ne andò, Enrico Cuccia lasciò dietro di sé alcune leggende. Era facile, del resto, favoleggiare su quest’uomo piccolo e potente, dalle ferree abitudini e dai rarissimi sorrisi. Ora il Corriere della Sera ci fa sapere che il conto lasciato ai figli ammonta a 150 mila euro e che non esiste neanche un testamento.
C’è una sensazione che prende il sopravvento quando penso a uomini come Cuccia. E’una sensazione di imbarazzo. Mi piace, ci piace giudicare i grandi uomini perché è per proprio questo che sono diventati grandi, per essere additati, criticati, invidiati, emulati, denigrati e glorificati.
Cuccia appartiene a una categoria di cui è e sarà unico membro, solista fino dentro la tomba. Burattinaio, spietato tra gli spietati, banchiere dei banchieri, non ritirò neanche l’assegno come presidente onorario di Mediobanca (163 milioni di lire).
E’ di certo una figura d’altri tempi per la quale non è mai stato coniato un aggettivo giusto ed equilibrato.

La leggenda continua.

Per i pensionati

Paul Newman, il grande Paul Newman ha annunciato il suo ritiro dal cinema perché, a 82 anni, si considera vecchio. Il suo ragionamento non è tanto legato all’anzianità in sé quanto al fatto che Newman non si sente più in grado di lavorare come attore al livello che vorrebbe. La qualità innanzitutto. La nostra società tritapensioni (e, se solo potesse, tritapensionati) ha fatto dell’età un mero requisito fisico, sorvolando sul rendimento. Ci sono leggi che sembrano essere fatte per popolare il Paese di zombie del Tfr, di giovani che lavorano per forza e vecchi che vorrebbero lavorare. Unici parametri, i contributi, gli anni “versati” quelli “riscattati”. Mai che ci fosse uno che parla dell’opera prestata. Ci vorrebbe una legge di un solo articolo che annulla tutti i precedenti: “Tu lavorerai fin quando potrai, fin quando ne avrai voglia, fin quando sarai soddisfatto del tuo operato. Vaffanculo al resto”.

Inquinamento

Un’anticipazione de L’Espresso annuncia qualcosa di dirompente: “In Italia la crescita dei casi di tumore è a livelli da epidemia”. Il direttore del settimanale avrà ben torchiato i suoi cronisti prima di avallare una simile frase quindi prendiamo per fondato l’allarme.
Cosa ci dicono questi dati?
Innanzitutto che il nostro stile di vita va modificato radicalmente, non domani né dopodomani: oggi, ora.
Secondo, che l’emergenza ambientale deve finire nella copertina e, a seguire ,nelle prime pagine della agenda del governo. Questi signori ogni volta che si riuniscono per un qualsiasi motivo devono, prima di tutto, affrontare il problema di una discarica, di un petrolchimico che spurga, di un’orata al mercurio, di una malformazione fetale, dello scappamento delle auto… dopo, solo dopo, possono discettare d’altro. Come potete ben capire avranno un bel da fare se adotteranno questo metodo. Solo che non lo faranno. E sapete perché?
Perché in Italia le politiche ambientali non pagano né in termini economici né politici. Tira più una sigaretta che una carota. E questo vale ancor di più per le amministrazioni locali. In molte città italiane, Palermo è tra queste, sono stati messi in discussione i dati delle centraline che rilevano il livello dello smog. Quando avevamo un clima normale noi terroni ci ritenevamo esenti da questi problemi: viviamo in zone ventose, avevamo il mare, i mandolini, i promontori su cui Goethe s’incantava. Poi l’onda lunga del disfacimento del pianeta è arrivata pure da noi e ci siamo accorti che l’inverno era un prolungamento dell’estate e viceversa. Il clima c’entra col cancro, fatevelo spiegare da un oncologo. Perché se l’alta pressione incide su una città per dodici mesi all’anno vuol dire che lo smog non si muoverà da lì per dodici mesi all’anno.
Insomma la realtà e drammatica e complessa. Però ha rimedi univoci e semplici, i più difficili da prendere.

I cittadini dell’antimafia

Due parole sulla lotta alla mafia, il giorno dopo le manifestazioni per commemorare le vittime della strage di Capaci. Senza alcuna cautela dico che bisogna fermare questo pendolo che oscilla tra il disfattismo e il trionfalismo. Bene i giovani, bene i grandi tra i giovani, benissimo i festeggiamenti. Male la retorica dei lenzuoli, male le interviste a magistrati e poliziotti, malissimo gli slogan politici.
La strategia contro Cosa nostra va tarata sull’obiettivo, che sono i boss, e non sul consenso popolare. Perché la lotta contro il crimine in genere non va giustificata come se lo Stato avvertisse un malcelato disagio, va attuata e basta nel silenzio delle regole. Mi piacerebbe che in questo Paese ognuno facesse il suo mestiere. Non godo nel leggere l’ennesimo pippone di un magistrato su Micromega: se proprio avverte il bisogno di scrivere si dedichi ad altre carte che – sono certo – affollano la sua scrivania da troppo tempo. C’è troppa gente che scrive, poca gente che indaga, pochissima gente che legge.
Non gradisco nemmeno sentire esponenti politici che illustrano futuribili strade giudiziarie con tanto di autocompiacimento per “il lavoro che questo governo sta facendo”: se proprio avvertono il bisogno di dichiarare, frequentino di più le aule del parlamento, facciano girare i motori dell’attività legislativa (alla paralisi, Prodi dixit) e incassino risultati.
I giovani infine. Tirati per la maglietta da una parte e dall’altra rischiano di non maturare una coscienza reale del problema. Sacrosanti i cortei e buona l’idea dei concerti per commemorare, però ci vuole qualcosa affinché, esaurita l’euforia della gita scolastica, le parole non restino sulle lapidi.
Ecco il punto. C’è un luogo in cui ci si gioca il tutto per tutto nella lotta alla mafia e quel luogo è la scuola. Educare alla legalità non vuol dire annoiare i ragazzi con conferenze e deportazioni di massa sui luoghi “caldi”, vuol dire insegnar loro il culto del bello, lasciarli cadere tra le braccia dell’arte, farli entrare nella Storia da cavalieri e non da pedine. I giovani con un talento, con una passione sono l’arma mortale per i malefici boss di Cosa Nostra.
Oltre ai fiori mettete libri e cd nei vostri cannoni.

La memoria

Un anno fa, in occasione delle celebrazioni per le stragi di Capaci e via d’Amelio, mi fu chiesto di scrivere un brevissimo monologo. La rappresentazione finì nel calderone di decine di manifestazioni e passò del tutto inosservata.
Oggi, nell’anniversario della morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo, degli agenti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani ho l’ardire di proporvi quel testo (praticamente inedito) che parla di memoria.

PS.
La celebre foto che vedete sopra è del mio amico Tony Gentile, complimentatevi con lui se non lo avete mai fatto.

Il biglietto nel pugno.

Tutti noi abbiamo momenti difficili. Ma la vita non è democratica, non dà e toglie allo stesso modo, non divide le responsabilità per ogni testa, i dolori arrivano con tempi spiazzanti e ognuno con un treno proprio. Alla grande stazione della Vita ci presentiamo con destinazioni comuni, ma nessuno ha lo stesso biglietto dell’altro.
Allora stringiamolo, questo biglietto.
Avanti, serriamo tutti il pugno, così… e teniamolo ben stretto per un po’.
Se ci concentriamo sulla nostra mano, la sentiamo calda, avvertiamo il sudore che cerca di farsi largo, forse riusciamo anche a percepire il battito del cuore nei polpastrelli.
E’ una sensazione che ci unisce, al di là della razione di pensieri nella quale ognuno di noi si trova a scartabellare.
Ricordate: biglietti diversi, tutti, ma destinazioni comuni. Com’è possibile?
Ognuno ha il suo passo, fa il suo cammino.
C’è chi calcola, progetta. Un itinerario ben studiato per raggiungere, superare, tornare indietro (perché tornare indietro è anche un modo per andare avanti), muoversi comunque, tagliare il traguardo o mettersi in salvo.
C’è invece chi sogna, fantastica. Un itinerario immaginato per essere già lì dove gli altri devono ancora arrivare: è la forza dell’arte, il primato di quel minuscolo chip etereo posizionato tra il nostro cervello e la nostra anima.

Tutti noi abbiamo momenti difficili. E alla stazione della Vita possiamo arrivare anche in ritardo. C’è un numero infinito di treni da prendere… o da perdere.
Il biglietto lo abbiamo sempre nel pugno.
Ora apriamo la mano e guardiamola.
E’ rossa e chiazzata. E’ la sua maniera di mantenere una memoria.
E la nostra memoria?
La nostra è scritta in quel biglietto immaginario che abbiamo tenuto stretto.
Ognuno ha la sua memoria, ma senza biglietto non si parte e soprattutto non si arriva.
La memoria non è una cicatrice, ma l’unguento che la accarezza.
La memoria non ingombra, ma libera.
La memoria è un biglietto che non ha prezzo e che non teme rincari dell’ultima ora.
La memoria è un dovere e trasgredirlo non è sanzionabile.

Un treno è arrivato: “In carrozza, si parte!”, urlavano un tempo i capistazione.
Io ho il mio biglietto.

Giornalisti minacciati

Ci sono notizie che si nascondono, come si dice, nelle pieghe della cronaca. Quella di un giornalista minacciato da Cosa Nostra e costretto a vivere sotto tutela è una notizia nella notizia. Perché riguarda l’ambito in cui nascono le notizie, uno dei punti nodali di una democrazia. La libertà di stampa, garanzia costituzionale che purtroppo si è fatta stereotipo in Italia, non è una regola condominiale. In tutto il mondo c’è chi ha fatto della penna una spada e chi per la penna ci ha rimesso le penne. Dal Medio Oriente alla Russia, dalle lande africane al continente americano c’è sempre un reporter più bravo degli altri, che dà fastidio più degli altri. Se il mestiere di raccontare ha un difetto è proprio quello di doverlo fare senza se e senza ma, costi quel che costi. Altrimenti, come ho avuto modo di provare nella mia ventennale esperienza, uno finisce per fare un altro lavoro: il velinaro, lo sciacquino del direttore, il portatore di verità ben piegate, l’intervistatore da divano, il corsivista su dettatura.
In Sicilia c’è un elenco di giornalisti che non hanno potuto ultimare il proprio compito perché qualcun’altro ha deciso che non andava bene e basta. Conosco Lirio Abbate, oggi cronista dell’Ansa, da un bel po’ di tempo e so che per lui quest’esperienza non è un debutto. Sono certo che continuerà a fare il suo mestiere con l’impegno e la serena dedizione di sempre. Voglio credere che gli sarà restituita presto la libertà di movimento che appartiene ai cittadini del mondo. E che ad altri questa libertà venga negata in modo esemplare.