Sarà capitato anche a voi…/2

San Carlo. San Luca. San Francesco. Guardando il culo di Giusy mi sento in paradiso, mi vengono in mente i santi. Li metto in ordine alfabetico per non zomparle addosso. E’ qui accanto a me.
Giusy, non insistere, Giusy, basta… Giusy non voglio che tocchi il mio pc. Giusyyyy finiscila! Gioca, la ragazza. La ragazza è una profumiera come poche. Le profumiere si dividono in due categorie: quelle che poi la danno e quelle che te la danno prima di poi. Nel suo caso ha seriamente inciso l’educazione familiare.
Suo padre è il direttore di un ufficio postale con due soli dipendenti, ma a sentirlo parlare gestisce un ministero e se ti becca ti fa due palle così con le differenze tra il Banco posta e le altre banche. E’ una di quelle persone che ha una soluzione per tutto. Non c’è niente che non abbia capito. Gli uomini si dividono in due categorie: quelli che quando si rompe la tavolozza del bagno la buttano e quelli che sanno sostituirla. Lui è capace di sostituire anche le piastrelle.
La madre di Giusy è una Porcona senior. Al microscopio i suoi neuroni sono in costume da bagno che prendono il sole. In palestra la chiamano la bona del tapis roulant. Non fa mai lo shampoo a casa perché “questo crespo non si leva”. Vive dal parrucchiere.
Lavora in ospedale, settore amministrativo. Ha avuto un amante per anni. Del resto un amante o è “per anni” o è una trombata. La signora in questione è una di quelle belle quarantacinquenni sempre in ordine, truccate, ben vestite, con i tacchi, sempre profumatissime anche il 10 agosto.
Sto uscendo. E’ domenica. Mando un sms a Giulio, il mio amico. Gli amici si dividono in due categorie: quelli a cui bisogna spiegare tutto e quelli con cui non c’è bisogno di parlare. Giulio appartiene alla seconda categoria.
Mi arriva un sms, ma non è di Giulio.
“Mi sono messa il tuo profumo. Adesso anche i miei pensieri hanno il tuo odore. G.”
Penso: siamo a posto. Questa ragazza sta diventando pericolosa.
Immagino una scena. Lei corre nuda per casa mentre io, leggiadro come solo con la fantasia posso essere, la inseguo per poi prenderla e profanare reiteratamente la sua giovinezza. Sul più bello arriva mia moglie che in un sol colpo mi agguanta, mi riempie di botte, mi caccia da casa, mi fa causa e riscuote l’assegno mensile.
Io Giusy non me la farò mai. Ne sono certo. E questo si chiama amore. Per se stessi.
Giulio mi aspetta al bar. Siamo vestiti allo stesso modo: Lacoste azzurra e maglioncino di cotone Lacoste sulle spalle. Ho i miei pantaloni di lino, le Hogan d’ordinanza e lo sguardo perso da uomo malinconico. E’ l’effetto del chiodo fisso piantato nel mio cervello: il culo di Giusy.
Giulio non è solo. E’ con una bruna che non finisce mai, capelli lunghi e zigomi alti. Ha un paio di jeans che le disegnano due gambe ben tornite. La prima cosa che noto è l’accento. Milanese.
Ti presento Andrea, mi dice Giulio. E mentre le stringo la mano sento qualcosa che mi prende all’altezza l’ombelico e fa roteare ogni mio organo interno. Riesco solo a dire “piacere” e le vedo: Giusy e mia moglie sono arrivate a tradimento. Pure loro in questo bar. In questa domenica di giugno.
Andrea, Giusy e mia moglie. Cerco di dare un ordine ai pensieri. Un ordine alfabetico. A, come Andarsene.

2. continua

I terroristi dei generi

Chi ha avuto abbastanza tempo da perdere per leggiucchiare i miei interventi in questa ospitale magione (nella rubrica e nei commentini, dove mi firmo con un soprannome che lascia pochissimo all’immaginazione) sa già che idea ho della televisione italiana. Per i tantissimi altri che non hanno esplorato – comprensibilmente – “l’universo cacciatorino”, riassumo qui la mia idea: la tv nostrana fa schifo al novantanove virgola nove periodico per cento. E il discorso potrebbe chiudersi qui. Però, stamattina, una riflessione piena di ottimismo ha sfiorato la mia mente caffeinomane ( il caffè a oltranza ti apre due strade possibili: il filosofare o l’esaurimento nervoso).
Ho pensato, ecco: che forma avrebbe il bello se non emergesse dal brutto? Che impatto avrebbe il guizzo di ingegno se non scattasse dallo stantio, dal volgare, dal grigio? Insomma, avremmo modo di accorgerci del differente e dell’imprevedibile se a fargli da sfondo non ci fosse l’uguale e lo squallido? Così, per dirla con Morandi – il cantante, non il pittore – sui monti di pietra può nascere un fior. Io ve ne propongo due. Uno sbocciato anni fa, mirabile dictu, dalla tv . Italiana. Sì: essa. E un altro che, nella tv italiana, ci è precipitato un mese fa, con la veemenza di un disertore rotto di palle e armato di bomba a mano. Il primo fiore denuncia la propria natura di bocciolo nato sui monti di pietra eccetera fin dall’onomastica: si chiama Fiorello. Il secondo è più un fiore del male, anche per questioni di amori letterari dichiarati, e di nome fa Morgan (al secolo, Marco Castoldi). La storia di Fiorello la conosciamo tutti: ex animatore di villaggi turistici, ex uomo karaoke, attuale one-man-show senza pari nel nostro paese (in Sicilia si tradurrebbe: dove lo tocchi suona), che oggi spopola in radio con un delizioso programma sul secondo canale Rai. La storia di Morgan è nota a chi, entrando in un negozio di dischi, non si sognerebbe mai di chiedere l’ultimo della coppia D’Alessio-Tatangelo: leader e bassista del gruppo dei Bluvertigo, solista di genio (consiglio a tutti il suo Canzoni dell’appartamento), si è travasato in tv come componente della giuria del programma musicale “X factor”. Fiorello. Morgan. Due personaggi diversissimi tra loro, ma con un punto di contatto non trascurabile. Entrambi si sono infiltrati nella fabbrica delle idee di seconda mano della Rai tv con dei ruoli che non destavano sospetti. Fiorello alla sua ultima spiaggia come conduttore dopo l’insuccesso di Non dimenticate lo spazzolino da denti. Morgan come controfigura alternativa di, che so, uno Steve La Chance di Amici. Questo sulla carta. Il resto è storia.
Fiorello, messo nella scarpiera il suo enorme successo televisivo ancora scalpitante (Stasera pago io e altro), si è dedicato alle trasmissioni via etere (questo si chiama coraggio, azzardo, freschezza) stravincendo. In poco tempo è riuscito nell’impresa titanica di ridurre la tv al ruolo che merita: una specie di serva brutta della radio. Morgan, in un programma nel quale una delle eminenze grigie in fatto di musica era Simona Ventura, si è messo a parlare di Baudelaire e Pink Floyd in prima serata, ha buttato sul palco gente che cantava Lou Reed e gli Who (sempre in prima serata) e se l’è presa col popolo bue o, più che altro, con la relativa capopolo (la Ventura).
Uno dei gruppi che Morgan aveva il compito di “allevare” per il programma, gli Aram Quartet, ha vinto l’edizione 2008 di “X factor”. Eletti dal televoto, dalla gente, mentre ancora avevano nell’ugola un pout-pourri dei Velvet Underground.
Fiorello e Morgan sono due fiori nati sui monti di pietra. Due terroristi armati solo di talento e scivolati nella stanza delle regole per sovvertirle. Quindi, signori, qualcosa si può fare.

Sarà capitato anche a voi…/1

La bambina ha i baffi. E’ una peluria che assomiglia a quella che nasce sul labbro superiore dei quattordicenni. Invece questa bimba, raggiante per la sua prima comunione, ha i baffi e 8 anni. Si chiama Giulia ed è la figlia della cugina di mia moglie. L’ho vista tre volte in tutta la mia vita ma sono qui, (nella buona e nella cattiva sorte) alla sua prima comunione davanti a una signora che ha un sedere che parla e con cui vorrei intavolare una discussione. Ho accanto mia moglie. Bella e semplice, profumata e deliziosa come sempre. E’ lei che mi ha costretto a venire ad Altavilla Milicia, nel giorno più caldo che maggio ricordi. Nel posto dal nome più brutto che la Sicilia ricordi.
Cosa c’è di più atroce di una prima comunione in una calda domenica di maggio? Perché le comunioni e le cresime non si fanno in inverno?
Ho appena baciato la zia Maria. Zoppica. Ha le vene varicose che stanno per esplodere. E’ vestita di nero e sta aggrappata a Giusy che ha 20 anni, un seno prosperoso, una pelle meravigliosa e, sono certo da come mi guarda, una intensa carriera di porcona alle spalle. Mi bacia e mi profuma i pensieri. E’ la figlia di un’altra cugina di mia moglie. Non siamo parenti. Sono certo: non sarebbe peccato.
Arriva mia suocera vestita di seta. Pesa 98 chili perché ha smesso di fumare. Ha 78 anni e una salute di ferro, come testimoniano i 100 dottori al mese che consulta. A casa mia l’argomento “accompagno mia madre in ospedale” è quello più in voga.
Guardo la bambina: è orribile. Non solo per i baffi. Ha anche le sopracciglia unite “a visiera”. Lo zio Paolo, invecchiatissimo, la bacia e tossisce, forse un pelo gli è andato di traverso.
Finita la cerimonia, andiamo al ristorante. In riva al mare. Perizoma a go go. Ovunque mi giri vedo perizoma. Il mondo è un perizoma teso tra la natica occidentale e quella orientale.
La bambina è a capotavola. Ho la zia Carla accanto che puzza di vecchia e di eredità. Speriamo. Guardo Silvana, la sorellina porcona junior di Giusy che di anni ne ha 19. Guardo anche l’altra cugina di mia moglie, 34 anni, alta, bionda e una quarta misura. Che bella famiglia che ho!
Pranzo finito. Mia moglie, tiene per mano Giusy. “Roberto – mi dice – sai che Giusy deve prepararsi per un corso all’Università e viene a stare per una quindicina di giorni a casa nostra?”.
Giusy mi guarda. Io la guardo.

1 continua

Se l’hai scritto, va stampato?

Per qualche anno ho fatto l’editor. Tradotto per chi non mastica gli inglesismi: ho valutato, rifiutato, accettato e sgrossato romanzi altrui, oltre che scervellarmi con la miriade di piccole e grandi cure che questo lavoro comporta. È un’attività che svolgo ancora, da libero professionista, anche oggi che ho abbandonato la casa editrice con la quale collaboravo.
Mi piace. L’editing ti riconcilia con la parte meno fumosa del processo letterario. Da scrittori, si filosofeggia e ci si tuffa nella sala d’attesa di uno psicoterapeuta. Da editor, si diventa massaie del foglio scritto, ci si butta nell’economia domestica delle parole e si taglia via il superfluo. Ci si sporca d’olio e di grasso.
Vi suona prosaico? Fa parte della professione. E non finisce qui.
Immaginate che il romanzo sia un’auto d’occasione o – nel migliore dei casi – da collezione. Sperate di venderla. L’editor è l’omino armato di cacciavite cerca-fase che verifica lo stato della carburazione e i falsi contatti. Vi dà o vi nega il tagliando per entrare in casa editrice e uscirne pronti per lo scaffale della libreria. Davanti a freni difettosi o carrozzeria malconcia ma a fronte di un buon motore, l’editor si rimbocca le maniche, prende la cassetta dei ferri e s’impegna a fargli passare la revisione. Ha dovere e diritto di giudizio, poco tempo per le carezze, ancora meno per gli impacchi all’ego ferito dell’aspirante autore e, in questa veste di missionario crudele, può essere la figura più amata o più odiata del mondo letterario. Per un motivo principale: rappresenta l’unità di misura delle mille difficoltà che un romanziere deve affrontare prima di definirsi tale e che un romanzo deve superare prima di meritarsi un codice isbn. Storie ingolfate, dialoghi ingenui, situazioni “telefonate”. Sempre più prosaico? Devo esserlo.
Decidere di scrivere un libro è nobile. Riuscire a metterlo nero su bianco è ammirevole. Farlo bene è quasi sovrumano. Rendersi conto che, nel novanta per cento dei casi, non funziona comunque e che bisogna riscriverlo, è divino. Il peggio che possa capitare a un editor nell’onesto svolgimento delle sue funzioni è un autore che non accetta l’idea della revisione, che si sente violentato nella sua integrità artistica da quella preziosa, fondamentale pratica di alto artigianato che è l’intervento di editing. Una persona così vive fuori dal mondo. Non sa che cosa è una casa editrice – gente che produce libri per venderli – non si rende conto che nessuno è disposto a comprare e consigliare un cavallo zoppo solo in virtù di un presunto blasone artistico, e commette il peccato mortale degli scrittori: la rinuncia a imparare dall’esperienza e, soprattutto, dagli errori. Da stamattina, sulla homepage di Repubblica si pubblicizza una novità vecchissima. Lo slogan dell’iniziativa è: “Se l’hai scritto va stampato”. Le case editrici a pagamento esistono da sempre, ma di questo si tace, anche se il meccanismo è lo stesso: sborsi una somma, invii la tua opera, e dopo qualche giorno ti torna a casa in volume. Non si fa cenno, nella pubblicità, né a editor che revisionino il testo in questione né alle possibilità – nulle, in questo caso – di distribuzione del libro. Ecco scavalcati, in nome del “fai da te” e dell’inflazione dell’io velleitario, due passaggi cruciali dell’editoria degna di tale nome, quella che gli scrittori li pettina, li paga e li fa circolare. Proponetelo agli editori veri, il vostro libro. Se c’è del buono, qualcosa prima o poi accadrà, ve lo giuro. E in caso contrario, loro saranno i primi a dirvi una verità inconfutabile: se l’hai scritto, non è per niente detto che meriti di essere stampato.

Una volta si chiamavano ebrei

È apparsa da qualche anno sui vocabolari una brutta parola: “tempistica”. I manager la usano in senso positivo: chi rispetta una tempistica prestabilita vince l’eterna lotta fra produttività e lancette dell’orologio. I poliziotti, invece, ne fanno largo uso per descrivere la concatenazione di atti criminosi in un arco temporale delimitato, che si conclude con il reato “principe”. In entrambi i casi, l’analisi della tempistica che regola o ha regolato un determinato evento permette anche di formarsi un giudizio sullo stato d’animo, l’intelligenza, l’efficienza, la chiarezza di idee e la competenza dei soggetti che lo hanno posto in essere. La tempistica esula persino dal tempo, volendo: è anche successione di luoghi, di scenari, elementi costitutivi del corso dell’azione e del pensiero che la sorregge. È logica.
Provo anch’io – malissimo, ne sono cosciente – il mio calcolo della tempistica, prendendo spunto da una notizia apparsa ieri sull’edizione online del Corriere della Sera. Siamo a Torino. C’è il festeggiamento per il primo maggio 2008 a piazza San Carlo. Tra qualche giorno si aprirà la Fiera del libro, sempre edizione 2008. Quest’anno la fiera ha scelto – non ora, mesi fa – Israele come paese ospite (o meglio: ha scelto di ospitare gli scrittori israeliani). Al corteo del primo maggio ci sono alcuni giovani dei centri sociali e – riporta il Corriere – dell’associazione Free Palestine. I ragazzi bruciano due bandiere: una americana, l’altra israeliana. Le ragioni sono quelle di cui abbiamo già discusso qui in casa Palazzotto. Siccome i militari israeliani bombardano la Palestina, ne consegue che Torino non deve ospitare gli scrittori d’Israele. Ne consegue? Un attimo: ma la tempistica dell’evento? Ripetiamo: primo maggio, festa dei lavoratori. Diritti, rispetto dei. Corteo. Fiera del libro tra poco. Torino. Israele. Bombardamenti in Palestina. Aguzzini israeliani. Scrittori israeliani. Libri. Bombe. Proiettili. Parole. Bandiere bruciate. Diritti dei lavoratori. Oh, cavolo…
Un minuto. Ripetiamo. Dunque: logica, tempistica. Primo maggio. Diritti dei lavoratori. Libertà. Romanzi. Parole. Scrittori. Libertà, ancora. Espressione. No. Militari scrittori. No. Scrittori militari. No, scrittori aguzzini. No, scrittori sono i palestinesi. Gli israeliani sono militari. No, ci sono scrittori israeliani. Militari romanzieri. Bombardamento sulla Palestina. Di libri. No, di bombe. Vabbè, fa lo stesso. Centri sociali torinesi. Bruciamo le bandiere. Fiera del libro di Torino arsenale dei libri – ooops – delle bombe degli scrittori israeliani. Militari. Aguzzini. Israeliani. Ma non erano anche ebrei? No, ormai sono israeliani. Sì, ma sempre ebrei. Boh, che ne so, fa lo stesso. Anzi no. Gli israeliani sono cattivi, gli ebrei erano buoni. Cioè, praticamente è così. Che facciamo? Abbasso Bertinotti. Anche. Bruciamo ‘ste due bandiere, va’. Prima quella americana o quella ebr… israeliana? Boh, che ne so. È uguale. No alle morti sul lavoro! Abbasso Israele. Abbasso la Palestina! Cretino, la Palestina sono i buoni! Vero-vero-vero… Scusa, compa’.
Prendi lo zippo, cioè. Che giorno è? Il primo maggio. La festa dei lavoratori? No, l’ante ante vigilia della fiera del libro. E pure la festa dei lavoratori. Abbasso gli Stati Uniti!
Inutile. Non ci riesco. Non capisco. E quasi mi importa poco di capire. La tempistica va a farsi fottere. La logica peggio.
Non mi resta che leggere un libro di qualche israeliano, che una volta era da tutti conosciuto come ebreo.

Un Raskolnikov senza palle

“Ma come ebbe mosso quello straccio, improvvisamente da sotto il pellicciotto scivolò fuori un orologio d’oro. Rovesciò subito tutto quanto. Effettivamente agli stracci erano mescolati degli oggetti d’oro (…) braccialetti, catenine, orecchini, spille e simili. Alcuni erano contenuti in astucci, altri semplicemente avvolti in carta da giornale (…) in fogli doppi, legati con cordoncini. Senza perdere tempo se ne riempì le tasche dei pantaloni e del soprabito (…) a un tratto sentì che nella stanza dell’anziana qualcuno stava camminando (…) scattò in piedi, afferrò la scure e corse fuori dalla camera da letto”.
Stacco.
“Nascondeva circa 100mila euro in un vano della stufa l’anziana strangolata in casa in via della Moschea a Roma e trovata morta sabato pomeriggio. I carabinieri durante un sopralluogo hanno trovato nell’abitazione popolare di Emilia Stoppioni denaro contante (circa 10mila euro), buoni postali e libretti di risparmio. È quindi probabile che chi l’ha uccisa sapesse dell’esistenza di questi soldi”.
Il primo brano l’ho preso dal romanzo forse più noto di Fëdor Dostoevskij, Delitto e Castigo. Dell’anno 1866.
Il secondo da un articolo del Corriere della Sera online.
Di ieri.
Ho una madre anziana che vive da sola – senza stufa né contanti in casa, sia chiaro – e ogni volta che leggo una notizia così faccio un elenco mentale dei buoni motivi per conservare amore verso il prossimo, e scriverne. Non lesino sui punti interrogativi.
Notizie del genere mi ricordano che anche il più pessimista degli scrittori ha un animo generoso, così largo e ricco di doni che potrebbe pranzarci dentro tutta l’umanità. Dostoevskij aveva pietà dello studente assassino Raskolnikov. Gli attribuiva pensiero e tormento, ne metteva a nudo grovigli di contraddizioni, ne rivendicava la disperata ricerca di un perché.
Io ho un animo più asfittico.
Al vigliacco che ha ucciso la signora Emilia Stoppioni, ottantuno anni – l’ultima delle vittime facili di un’Italia che si preannuncia sempre più difficile – non attribuisco nulla, nemmeno il pregio dell’originalità. Ha ammazzato e frugato in un piccolo mondo senza difese ignorando che Raskolnikov era stato lì prima di lui, molto tempo prima. Quanto mi piacerebbe dirglielo. Me lo immagino il senza palle: Che? Raskolni-chi?
Quando si sostiene che in Italia si legge poco, e male, e se anche fosse il contrario non servirebbe a un cavolo di niente. Dopotutto.

"Cumenda" e cadaveri: la tv dei morti viventi

In America è uscito un film che si intitola Diary of the dead, diretto da un regista che amo moltissimo, George Romero. Ho visto il film in anteprima attraverso uno dei mille rivoli del desiderio che internet ti offre, perché tarda ad arrivare in Italia, e forse mai ci arriverà.
Il “diario dei morti viventi” è un’opera strana, troppo intelligente per essere un horror per ragazzini, troppo violenta per non esserlo, troppo cupa per piacere a chi al cinema “ama rilassarsi”, con troppa poca storia per coinvolgere il grande pubblico, con troppi spunti di riflessione per liquidarla in modo spensierato. E sono limiti voluti. Masochisticamente e coraggiosamente predeterminati. Romero è uno dei pochi registi del cinema “indipendente” americano degli anni ‘60-‘70 a essere rimasto fedele alla propria indole: mettere su pellicola una visione spietata della società, al passo con i tempi, sacrificando la spettacolarità e persino le regole auree hollywoodiane dell’intrattenimento di successo. È il peggiore nemico di se stesso sul piano commerciale e il migliore amico di chi, come me, da un film si aspetta una zampata che mi risvegli e mi ricordi che anno è. Dice: che c’entra con il “cumenda” del Grande Fratello? C’entra. E c’entra anche con Meredith. E con Cogne. E con Erba.
Romero, l’inventore dei morti viventi cannibali, mostra nel suo nuovo film l’epidemia degli zombi – larve umane affamate, prive di coscienza, dal morso che contamina – solo attraverso la telecamera traballante di un giovane aspirante regista. E attraverso i tg, youtube, videocellulari, montaggi con il final cut pro. Schermi, schermi, schermi. Il reportage scivola da una telecamera all’altra, la telecamera da un personaggio all’altro, in una stratificazione di stimoli che liofilizza la realtà in delirio, ed è questo il vero contagio. Vedere, conservare l’orrore, nutrirsene, mostrarlo, inocularlo al prossimo, ma non sentirlo. A un certo punto la voce narrante del film, la giovane Debra, dice pressappoco: “Compulsione. Siamo spinti a vedere, a trasmettere. Che cosa succede nella nostra testa quando ci fermiamo per osservare qualcosa di orribile, un incidente in autostrada? Qualcosa ci costringe a frenare. Ma non lo facciamo per aiutare. Lo facciamo per guardare”.
Meredith. Erba. Cogne. Il “cumenda” del Grande Fratello: la sua faccia.
Il diario dei morti viventi.

Un panettone nell’uovo di pasqua


Ecco stralci dell’intervista di Vittorio Zincone a Roberto Torta che sarà pubblicata giovedì prossimo sul magazine del “Corriere della sera”.

Finisce di mangiare il suo panino con le panelle e sospira. “Lo vede questo mare? Io so che posso renderlo più azzurro”. E mentre lo dice, Roberto Torta ha gli occhi ancora più languidi.
Poco più in là, i manifesti elettorali disegnano slogan: serenità, serietà, armonia, parole che inneggiano all’ottimismo. Sul suo, invece, Roberto Torta, ha fatto scrivere semplicemente: “Vota Roberto Torta. Ce n’è per tutti”. Quest’uomo, così etereo e così pragmatico, è candidato alla Presidenza della Regione Siciliana. Il settimo. Ed è al settimo cielo perché fra pochi giorni volerà in America per appoggiare la candidatura di Obama. “Sa, me l’ha chiesto come favore personale – dice quasi sottovoce – e non ho saputo dirgli di no”.
Torta, come ha iniziato la sua attività politica?
“Con il condominio. Ho amministrato un condominio di 12 piani. Tre famiglie per piano. Faccia un po’ lei i conti. Chi la voleva cotta, chi cruda, chi a bagnomaria. Chi innaffiava i gerani e bagnava la biancheria della signora del piano di sotto. Chi metteva lo stereo ad alto volume. Lì ho capito l’arte della mediazione e della condivisione”.
Come immagina la sua Sicilia?
“Come un Triangolo a quattro lati. Tre è il numero perfetto, lo so, e quest’Isola ha avuto sempre tre lati. Ebbene, aggiungerne un altro, è un sogno possibile”.
Si parla molto del suo elettorato femminile. E’ vero che come vicepresidente ha scelto una donna denominata “la suocera”?
“Sì, l’ho voluta fortemente. E’ l’unica in grado di far capire il profondo senso delle parole. L’elettorato femminile è una forza”.
Facciamo il gioco di Proust. Se fosse un albero, Roberto Torta, cosa sarebbe?
“Un fico. Con tante foglie in affitto”.
Se fosse un libro?
“Aperto. Alla pagina dei ringraziamenti”.
La canzone che fischietta sotto la doccia?
“Tutte quelle della Tatangelo. Le dico un segreto.. me le ha insegnate Cacciatorino. Ed anche per far felice lui la inviterò alla chiusura della campagna elettorale”.
Il giorno più triste?
“Deve ancora venire”.
Il giorno più felice?
“Quando viene”.
Quanto costa un litro di latte?
“Il giusto”.
Quali sono i confini di Israele?
Non c’è il tempo per questa risposta. Camminare per Mondello con Roberto Torta significa fermarsi in tutti i bar, stringere mani, fotografare e farsi fotografare coi cellulari. Lui ha sempre una parola per tutti e mentre ci salutiamo mi guarda con quegli occhi azzurro – mare pulito sottoscritto da Goletta Verde e mi dice: “Sa cosa vorrebbero trovare i siciliani nell’uovo di Pasqua? Il panettone!”.
Tutto si può dire di Roberto Torta. Ma le minchiate le dice meglio di qualsiasi altro politico.

Diamoci del tu

Sospettate pure che io ce l’abbia un poco con i miei conterranei: non mi affaticherò più di tanto per smentirvi, né vi chiederò di perdonarmi. Ce l’ho anche con i nostri connazionali, quindi pari e patta. Oggi mi infervoro così: in Sicilia i vezzi sociali, linguistici e di costume ci arrivano in ritardo. E male. Il postino che fa le consegne dei modi di fare e di dire pubblicizzati in tv e impacchettati a Roma o a Milano, non è mai in orario – questioni di distanza, difficoltà logistiche, ah, il ponte di Messina, Silvio! – e a volte può metterci mesi e anni prima di sbalordirci con articoli dei quali spesso sarebbe meglio fare a meno. Così la consegna ci coglie impreparati. Diffidenti. Poi desiderosi di spacchettare l’involucro, appropriarci del contenuto e usarlo di più e meglio dei nostri predecessori che ce l’hanno inviato. Riscaldiamo la derrata scaduta, ne facciamo scorpacciata, la storpiamo con ricette di fantasia. Esageriamo. È nelle nostre corde, d’altronde. Prendete il boom dell’uso della cocaina, la droga dei manager. I primi rampantini palermitani con la narice arrossata e il piatto di Sushi per inappetenti si sono visti quando ormai le acque del Po e del Naviglio erano infestate da urine tossiche di caratura doc, ventennali. Bisognava recuperare. Farci valere. Peccato non avere nell’Oreto acqua sufficiente a riempire una provetta. Suppongo che il nostro fiumiciattolo, oggi, riserverebbe sorprese da far impallidire un Veronesi. Passando a fatti più frivoli: più di venti anni fa mi regalai un viaggio a Roma, ad agosto, da solo. Ero un ragazzino, rimasi estasiato dai ponti, dalle fontane dell’acqua Marcia, dai riflessi del pulpito dorato in San Pietro, dalle atmosfere Argentiane dei sotterranei della metro e delle geometrie cespugliate di Casalpalocco. Ma una cosa più di ogni altra mi sconvolse. A Roma si davano del “tu”. Tutti. Vecchi e giovani. Per strada, nei negozi, con tono rilassato, quasi giocoso. Eccitato e un po’ scandalizzato, lessi la mia scoperta come una dimostrazione di disinvoltura capitolina. Era per me una specie di rivoluzione linguistica, eredità di un sessantotto che da noi era solo passato senza salutare; un provvido colpo di piumino alle convenzioni stantie che in Sicilia, invece, resistevano. Avevo meno di vent’anni, appunto. Pregai che il fenomeno contagiasse anche Palermo. Tu. Senti. Prendi. Tieni. Dammi. È successo ora, che di anni ne ho quaranta. Mi prendo ogni giorno un “tu” dalla cassiera diciottenne del supermercato. E confesso che mi dà fastidio. È più forte di me: il “tu per tutti” palermitano non mi suona disinvolto. Ha un che di forzato e, invariabilmente, aggressivo. Di rado è accompagnato da un sorriso. Più spesso ha il rumore di un inceppo linguistico, di una convenzione con la quale non si è ancora scesi a patti. Ti arriva quasi sottovoce, oppure smozzicato a sguardo basso, come se chi lo pronuncia stesse compiendo un furto o un atto di rivalsa pretestuoso. Fateci caso, sappiatemi dire. Il “tu” senza amicizia, in fondo, torna a essere quello che è: un’appropriazione indebita di intimità, una rivendicazione infantile di superiorità. Sarà la solita esagerazione palermitana. Sarà che sono invecchiato. O sarà che devo cambiare supermercato, commessa e organizzarmi un altro viaggio a Roma. Dove magari, nel frattempo, è tornato di moda il “lei”.

Obama chiama Torta

Dear Roberto, solo now ho trovato il time per write you. This campagna elettorale, con isterica di Clinton, che un colpo cry, un colpo smile, mi fa girare the balls. Volevo only dirti che sono very happy di tua candidatura. So che we can farcela. Force and courage.
Tuo sincerely Obama


Caro Gery, cari tutti
ho ritenuto opportuno riportare la lettera che ho testè ricevuto da Obama. L’eco della mia candidatura ha varcato montagne ed attraversato oceani. Come da rassegna stampa che allego, tutto il mondo parla di Roberto Torta. Tutto il mondo tranne che i giornali locali: ma questo, per certi versi, me l’aspettavo. In questi giornali si dà spazio alla zia peppina che segnala il marciapiede rotto. So per certo che un gruppo di collaboratori è stato assoldato per rompere tubature, spostare cassonetti. Dalle discariche ogni notte vengono prelevate carcasse di auto e di elettrodomestici. Posizionate nei posti giusti della città permettono a chi ha denunciato il fatto, di avere la foto sul giornale. Diffidate.. si tratta di un gruppo di azione ben organizzato. Se non fosse per questi malfattori Palermo non avrebbe una sola buca, nelle vie non ci sarebbe una sola montagna di spazzatura. Bisogna dirle le cose.
Ritengo altresì opportuno annunciare l’inizio del mio tour elettorale. Ho pensato a lungo quale potesse essere il mezzo adeguato. Le primarie hanno dato un esito che non lascia dubbi: i pattini.
Qualche rotella in più a un candidato non guasta mai.
Raggiungerò ogni anfratto della Sicilia. Partirò domenica a mezzogiorno da piazza Politeama con un gruppo di “sondine” , elettrici che ho selezionato personalmente affinchè i sondaggi siano veritieri ed immediati. Due le novità da segnalare: la Torta Card che sarà offerta agli elettori e la Tortino Card per l’iscrizione gratuita ai circoli. La prima darà diritto ad una candidatura nella mia lista, ma solo ai primi 100 che si dimetteranno dalle loro cariche attuali, in modo da riprodurre il sistema elettorale in vigore. L’altra darà l’iscrizione gratuita con un sorteggio finale. Non anticipo nulla perché mi copierebbero subito.
Amici, come direbbe Rocco, è dura. Ma chi l’ha dura la vince.