La cera di Icaro

Giacomo Cacciatore conclude la serie di interventi sull’eroismo moderno, innescata da un post sull’assassinio di Benazir Bhutto. Le vostre riflessioni, acute, controcorrente e soprattutto mai dolciastre, mi sono sembrate ottime per accompagnare la fine di quest’anno. Vi ringrazio di cuore. Buon 2008!

A fronte della “fenomenologia dell’eroe” discussa in queste pagine, ho l’impressione che si sia dimenticato un aspetto curioso. Quello degli effetti collaterali dell’esistenza dell’eroe. Effetti che coinvolgono chi guarda Icaro dal basso. Coloro che ammirano il suo volo ma, rabbrividendo all’idea di sfiorare il sole, si accontentano di raccogliere le gocce della cera sciolta che piove dalle sue ali. Non entro nel merito della vocazione al martirio degli eroi. Sono convinto che siano rari i casi in cui un uomo – pure se dotato di qualità eccezionali – possa anche lontanamente accettare (o addirittura concepire) l’idea della propria morte con sguardo ispirato, sorriso luminoso e mani salde sul timone del proprio destino. Gente molto più eroica di me – sul piano del pensiero – ha ipotizzato che un individuo del genere pagherebbe con la nevrosi, o addirittura con la psicosi. Se è vero che gli eroi (quelli metaforici, creati ed elaborati dal mito, e quelli che, incolpevoli, da uomini realmente esistiti sono diventati materia di mito) carezzano in qualche misura l’inconscio collettivo, le corde di uno strumento invisibile che, come per magia, risuona nelle menti e nei cuori della gente, superando persino i limiti geografici e temporali, è altrettanto vero che corrono un rischio notevole. Duplice. Da un lato, quello di identificarsi – in vita – con lo stesso strumento immane che hanno involontariamente toccato (da qui i profeti, i maestri di pensiero e, nell’accezione più inquietante, i dittatori). Dall’altro – spesso in morte – quello di ritrovarsi defraudati del genuino significato delle loro gesta, proprio da parte di chi degli eroi ha necessità per dare un senso alla propria vita. Sono questi gli individui che, raccogliendo quelle quattro gocce della cera di Icaro, le pasticciano a loro immagine e somiglianza, spacciandole per carne propria, dilatandole perché appaiano protuberanze verosimili, ali posticce che però mai serviranno al volo. Nascono così gli esegeti per mestiere. I biografi con lo sguardo fiammeggiante. I compositori di peana circensi. I raccontatori senza racconti. Gli agiografi che reclamano a gran voce e difendono a unghiate la loro vicinanza al mito, il giorno o l’istante in cui, soli tra mille altri, gli hanno stretto la mano e, ignorati dal mito stesso, ne hanno doppiato i passi. I professionisti dell’arti-mafia (qui il refuso è voluto) che spettacolarizzano il sussurro e la lacrima solo per dar spettacolo di se stessi. Insomma, gli pseudo-icaro che si appropriano di luminose vite altrui per plasmare ali gigantesche. Con delle gocce di cera che non basterebbero a sigillare la confessione della loro pochezza.

Falcone e Borsellino, per esempio…

E’ noto che chi si espone, rendendo la sua immagine pubblica, vada incontro come ad una suddivisione della sua vita in piccoli pezzi, che andranno ognuno ad una persona diversa, inesorabilmente. Nella condivisione di quella persona, ognuno si costruisce il suo personaggio personale (e scusate il gioco di parole) a partire da quel piccolo pezzetto, e molto spesso il risultato finale non è molto fedele all’originale.
Quando il personaggio pubblico sfida un gigante, da novello Davide, allora l’aura che lo circonda, che riusciamo a percepire anche solo nominandolo, diventa qualcosa di magnifico, di incredibile.
La fama può dare sicuramente alla testa, e questo non è un mistero, ma non dimentichiamoci che parliamo di gente come Martin Luther King, John Kennedy e Bob Kennedy, Abrham Lincoln, e tanti altri… persino John Lennon. La loro consapevolezza, quella di possedere una vita più breve degli altri a causa del loro destino, è chiara. Forse alcuni di loro hanno deciso di perseverare nonostante il pericolo della fine, perchè lasciati trascinare dalla marea, o forse lo hanno fatto perchè ci si aspettava questo da loro. E’ difficile affrontare un tema simile, ma sono profondamente convinto che la verità non sta nell’egocentrismo, quanto nello spirito di sacrificio supremo.
Quando si è consci di essere gli artefici di qualcosa di grandioso, di essere il fulcro di un grande cambiamento sociale e culturale, oppure di rappresentare il liberatore dell’oppressione della gente, è facile lasciarsi trascinare. Ci si rende conto che si è raggiunto un punto di non ritorno, oltre il quale lasciar perdere non può più avere senso. Il passo da uomo a icona è più breve del pensiero stesso dell’esitazione, e porta inevitabilmente ad un punto in cui ormai il ripensamento non è più contemplabile.
Molti hanno scelto quella via, non ultima la Bhutto, e altre donne coraggiose come lei, e molti ne hanno patito con sofferenze e con la morte. Essi sono tuttavia consapevoli di due cose: si stanno sacrificando per un bene superiore, per quanto ingiusto sia, e il sacrificio non ammette riconsiderazioni, pena la perdita profonda del suo significato e della potenza del suo messaggio per i popoli; essi ormai sono segnati nel loro destino, non resta altro che lavorare finchè qualcuno, da qualche parte, non avrà deciso che non potranno più farlo.
Per me, per le mie origini, così come dovrebbe essere per ogni italiano che si rispetti, il sacrificio ha il volto di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, due uomini incommensurabilmente grandi, che certamente pensarono spesso alla fine, alla morte, ma che furono guidati da uno spirito troppo grande per essere compreso. Il nemico invisibile che combattevano, infido e spietato, li ha fermati mentre ancora si muovevano, instancabili, consci di non avere scampo forse, ma di dover comunque continuare, di dover “fare in fretta”, come disse Borsellino dopo la morte dell’amico Falcone.
Proprio di Borsellino sono le parole che più mi fecero capire ciò che significa spirito di sacrificio. Esse racchiudono tutta l’essenza di ciò che voglio comunicare:”è bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola.”

Il semidio moderno

Secondo Stef, “eroe, nell’accezione classica, è un semidio dotato di eccezionali virtù e gesta prodigiose. Con tutto il rispetto per la memoria della signora Bhutto, non mi pare sia questo l’ambito. Eroi moderni allora. Ma siamo certi che le gesta prodigiose siano necessariamente positive?”.
Il succo del pensiero di Giovanni (da?) Verona è questo: “Il sistema moderno ha bisogno di figure forti che catalizzino azioni. E’ una necessità in epoca globalizzata: senza condottieri che in qualche modo vedono legittimata la loro forza nella ricerca di una morte violenta non c’è storia per un pianeta di pecore”.
M.Tr è lapidario: “Avete letto la storia della famiglia Bhutto? Non sono proprio tutte rose”.
Infine Puf73 si richiama a un’affermazione di Tere: “Come lei a me piace studiare le persone. E il suo metodo è anche il mio. Ma mi pare che la provocazione qui non sia perfettamente calzante”

L’eroismo e l’onnipotenza

Ieri, a commento del post sulla morte di Benazir Bhutto e sulla sorte delle “dinastie politiche”, Tere ha proposto la seguente riflessione:
“E se queste persone così esposte, vuoi per ambizioni, vuoi per ideali, cercassero la loro morte violenta per vincere le loro paure più intime? Forse semplicemente per smania di eroismo, o di onnipotenza: preferibile morire in maniera eclatante piuttosto che attendere la morte su un dondolo, mezzi sordi, devastati dai segni del tempo e dell’età. Non lo so, ma forse c’è un subdolo autocompiacimento nel perseverare andando incontro al pericolo in questi personaggi dall’intelligenza e dal carisma superiore a noi mortali”.
Vi ho chiesto qualche riflessione in merito. Il tema non era facile e sono rimasto sorpreso nel ricevere parecchi contributi. Cercherò di proporli quasi tutti, in versione integrale o riassunta. Qui sotto i primi due capitoli.
Grazie e buona lettura.

Filosofia dell’eroe arrogante

Prima di essere travolto dalla pazzia, prima di chiudere la sua vita pubblica e, soprattutto, prima che i lettori finissero per affibbiargli verità che non aveva mai neppure pensato, Nietzsche decise di scrivere “Ecce homo”.
Vi ricordate il sottotitolo? “Come si diviene ciò che si è”.
Anche un eroe prima di essere riconosciuto davvero come tale, prima “di divenire ciò che è” deve pagare il pegno. Deve cioè morire, tragicamente, e per mano altrui.
E’ valso per gli eroi del mito e vale per quelli ben più vicini ai nostri tempi.
C’è un codice dell’eroe (occidentale) uguale per ogni era. Un codice che prevede fatiche enormi, pulsioni di riscatto, lotte contro nemici invisibili, battaglie all’ultimo sangue, sino ad arrivare all’immolazione finale. Inevitabile e catartica, per sé e per il prossimo.
C’è un momento, nella sua vita, dove l’eroe non si riconosce in un modello, ma intuisce che è lui stesso l’archetipo. A quel punto non può sottrarsi alla “chiamata”: l’eroe DEVE oltrepassare la soglia. Anche a costo di non riuscire ad annientare il nemico. Anche a costo di annientare se stesso.
Ora, il bel quesito di Tere ne sottace un altro.
La chiamata dell’ “eroe”, il suo dire di sì alla morte tragica e inevitabile, è un destino triste e virile, o è “hybris”, arroganza?
Nietzsche, ad esempio, sarebbe per la seconda ipotesi.
E offre pure una soluzione: l’uomo nuovo dovrebbe imparare a riconoscere in sé l’eroe, certo. Ma anche il giullare, il pazzo, l’uomo che sa vivere “in leggerezza”, “al di là del bene e del male”.
Visto che siamo a fine anno e ci stanno già travolgendo con previsioni e oroscopi, concediamoci di spiare la simbologia esoterica.
Nei tarocchi c’è una bellissima carta, quella del matto, l’arcano numero zero.
Pensate che rappresenti solo l’irrazionalità, il gioco, il buffone inaffidabile?
Errore. Il giullare/matto ci ricorda che è possibile rinunciare all’ambizione in vista di un’evoluzione esclusivamente interiore. Non a caso la carta successiva, l’arcano numero uno, il “bagatto”, altro non è che lui stesso, evoluto, e trasformatosi in un meraviglioso mago e conoscitore della vita, i cui occhi brillano finalmente di riconosciuta intelligenza.

I grandi cercano una morte grande?

Ultraman si pone delle domande e dà delle risposte. “I grandi cercano una morte grande? E la morte è ancora più grande se è violenta? Alla prima domanda non so rispondere, penso di non avere sufficiente coraggio per entrare in quest’ottica. Alla seconda domanda rispondo decisamente di sì”.
Tere allarga il raggio della sua provocazione. “Trovo che tale atteggiamento sia comparabile alla scelta di partner con le medesime caratteristiche caratteriali che ognuno di noi fa: chi incappa nei tossici o alcoolizzati, chi nei depressi o, viceversa, chi finisce col prediligere i leader, le figure carismatiche. E’ la concretizzazione del vecchio detto secondo cui ognuno è artefice del proprio destino. Lì dove la fortuna o la sfiga hanno poco gioco, ci ritagliamo dei ruoli: vittime o carnefici, vincitori o vinti. E’ una teoria che sto sperimentando personalmente ribaltando i miei atteggiamenti abituali e, udite udite: FUNZIONA DAVVERO COSI’!!! Io mi sto divertendo (ma, confesso, ci sto anche marciando) a studiare le reazioni altrui come fossero topi in un laboratorio ed è semplicemente spaventoso verificare come, anche le persone più intelligenti, siano facilmente manovrabili, praticamente prevedibili in maniera vergognosamente elementare”.
Secondo Mela 68 “la morte è la fine per tutti. Persino di un’intelligenza superiore. Non c’è modo di sopravvivere alla fama che si è inseguita per una vita se si cerca, in modo più o meno cosciente, la fine della sopravvivenza stessa”.

I dubbi e l’orrore

Saprete già tutto sull’attentato nel quale è stata uccisa, in Pakistan, Benazir Bhutto. Poche righe per le mie impressioni.
La violenza e il sangue mi sconvolgono sempre più (sarà l’approssimarsi ai 45). Stavolta un pensiero parallelo ha amplificato le mie emozioni. Ho pensato ai Kennedy, ai Ghandi, alle grandi dinastie politiche che nella ricerca del potere assoluto hanno perso quel piacere relativo che è il vivere delle proprie cose. Persone (e personaggi) dai grandi ideali, ma dal baricentro troppo alto. Forti pubblicamente, fragili dentro o intorno. Indiscusse nel carisma, discutibili nelle scelte politiche.
Pensateci, queste persone se ne vanno sempre per mano di altri. Lasciandoci perlopiù in una brodaglia di orrore senza un’alba di certezza.

AGGIORNAMENTO ORE 14.45.
Tra i commenti troverete le istruzioni per un nuovo gioco nato da una delle vostre riflessioni.

Il dilemma Contrada

C’è una certa confusione attorno agli ultimi sviluppi del caso Contrada. L’iniziativa del difensore che ha chiesto la grazia e l’istanza di scarcerazione girata dal Quirinale al tribunale di sorveglianza sono due momenti molto diversi tra loro. La prima ha come destinatario reale il ministero di Grazia e giustizia, la seconda appunto la magistratura ordinaria. Per questo Napolitano ha troncato con una breve nota le proteste del fronte del no: ci sono leggi, pronunciamenti della Corte costituzionale, magistrati che scioglieranno i nodi, “il Quirinale conosce bene le procedure” quindi non interferisce. E’ utile tenere a mente questi passaggi per evitare di trapiantare forzosamente – con immani pericoli di rigetto – la vicenda in un ambito politico.
Restano i convincimenti personali: chiunque ha il suo. Personalmente, credo che Contrada sia vittima di un ragionamento molto difficile da decostruire, perché – cerco di essere chiaro – basato su un meccanismo logico-giuridico decontestualizzato. Si è giudicato un poliziotto secondo un’ottica molto diversa da quella che si sarebbe adottata all’epoca in cui i reati sarebbero stati commessi. Fare lo sbirro a Palermo negli anni Settanta significava anche sporcarsi le mani, marciare sul filo del rasoio, frequentare e spiare, spiare e lasciarsi frequentare. Ci sono molti soloni in calzoncini corti che, attualmente, sparano pareri sulla legalità senza sapere che questa è sempre figlia del tempo. Ci sono reati che si sono trasformati, leggi che cambiano, mestieri che si evolvono, agoni politici mutevoli, c’è l’emergenza e c’è il sentire comune.
Contrada va comunque trattato con dignità, la stessa che lui ha mostrato durante questi anni di battaglie giudiziarie.

Il sommo Magris

Oggi un post de relato. Per chi avesse perso l’articolo di Claudio Magris sul Corsera di qualche giorno fa, ecco il link (segnalatomi da una blogger acuta).
Magris è un grande intellettuale perché ha il dono della semplicità e non è mai saccente. Fossi premier lo farei ministro della cultura e gli vieterei di frequentare il parlamento.

Buon natale

E lasciatelo in pace quel pover’uomo. Auguri a tutti voi.