Giudica chi legge

Caro Gery, da operatrice del settore editoriale, ti scrivo per ringraziarti del dibattito sulla bastonatissima narrativa palermitana che stai ospitando. Come “allevatrice” di scrittori, sento di dover rendere giustizia, in questo blog, a tutti i talenti freschi che la nostra città ha prodotto in questi ultimi anni, che non liquiderei – come certi soloni fanno – gettandoli nel pentolone degli “scialbi imitatori” di questo o di quell’altro maestro della letteratura o come insulsi produttori di una “narrativucola” che non ha, né avrà mai, nulla da dire. E mi preme anche parlare di chi, con i suoi romanzi, ha contribuito alla crescita della casa editrice per la quale lavoro, Dario Flaccovio. Casa editrice che è spesso oggetto degli strali di chi vive con la puzza sotto il naso. Non mi va che all’editore e ai suoi autori si dia stagionalmente un pubblico calcio nel sedere, spesso senza possibilità di replica né motivazioni espresse con chiarezza. E’ accaduto anche pochi giorni fa, su Repubblica. Cosa che mi ha costretta a scrivere una lettera di precisazione al giornale (di contro molto attento ai nostri saggi su Palermo e sulla Sicilia, ma spesso snob nei confronti della narrativa e dei giovani scrittori che proponiamo). Né sono io l’unica a ritenere ingiusto bollare i nostri scrittori esordienti ed emergenti come robaccia. C’è tanta stampa qualificata che ne parla bene, e in certi casi anche in termini entusiastici. Ci sono premi letterari nazionali che ne hanno riconosciuto il valore. Ci sono paesi europei ed extraeuropei che li hanno amati e voluti in libreria, e adesso si godono i frutti di una scelta lungimirante. Ci sono colossi dell’editoria che li hanno notati e arruolati nella loro squadra. C’è stata la Presidenza del Consiglio dei Ministri che nel 2005 ha assegnato a Dario Flaccovio il premio della Cultura. E tutto questo grazie a te, Gery, a Salvo Toscano, a Valentina Gebbia, a Giacomo Cacciatore e a tutti gli altri.
Con la casa editrice abbiamo lanciato scrittori che sono cresciuti, che ora hanno anche cinque o sei traduzioni all’estero, e contribuiscono a portare oltre confine la nostra narrativa offrendo un’interpretazione nuova e soprattutto attuale di questa terra. Questi esordienti o emergenti hanno regalato a Dario Flaccovio, e anche a me che li seleziono, la soddisfazione di finire ogni anno, spesso con più di un autore e con libri di diverso genere (dal giallo, al noir, dal romanzo ironico alla letteratura di viaggio), nelle semifinali, in finale o sul podio di vari premi. Di poter sfoggiare sulle nostre copertine “strilli” importanti, tratti dalle recensioni del Corriere della Sera o de La Stampa, solo per citare due testate. Mi sembra, quindi, che sia la storia recente a parlare per loro. Questi giovani autori – che non saranno i nuovi Sciascia e Pirandello, né forse vogliono esserlo, ma hanno comunque talento e personalità – non meritano il coro di detrattori che ormai si leva a scadenze fisse, ma non hanno nemmeno bisogno di difensori. Si difendono da sé, con quello che scrivono, con la passione che ci mettono, con i sacrifici che fanno, con i risultati che ottengono. A chi li vuol far passare tutti per merce di scarto chiedo solo di conoscerli, di leggerli. E magari, dopo averli letti, di avere l’umiltà di ammettere che almeno in qualche caso si è sbagliato a dirne male.

Colpevoli di noir

Quando si esprimono opinioni in forza di un ragionamento o di proprie intime convinzioni, si è soliti usare toni pacati non avendo altri scopi verso i propri interlocutori, se non quello di dire ciò che si pensa. I toni trasudanti livore e disprezzo utilizzati dallo scrittore Vincenzo Consolo suggeriscono invece altre chiavi di lettura. Bisognerebbe chiedersi: da cosa nasce l’accanimento di Consolo emigrato a Milano da quarant’anni verso i suoi colleghi siciliani contemporanei? Ad ognuno la propria risposta.
Per quanto mi riguarda, l’avevo già ascoltato quattro anni fa alla Fiera del libro di Torino ed anche allora aveva tirato fuori la solita solfa e un’idea me la sono fatta. Io credo che uno scrittore dovrebbe parlare attraverso i suoi libri, altrimenti diventa qualcos’altro. Personalmente ho letto Consolo, ma lui cosa ha letto di chi critica?
In Sicilia oggi esistono fior di scrittori e di scrittrici, ognuno si esprime col genere che gli è più congeniale. Il noir come ogni altra forma di letteratura ha una sua specificità, e pazienza se a Consolo non piace. Ce ne faremo una ragione, come autori e come lettori di noir. Voglio comunque sottolineare che se anche una sua pupilla come Silvana La Spina ha pubblicato “Uno sbirro femmina” (Mondadori, semifinalista al Premio Scerbanenco, il più importante del genere in Italia), ci saranno delle ragioni. E non credo siano unicamente quelle sbandierate con tanta sicumera e tanto astio da Consolo. Uno scrittore deve avere una visione ampia del mondo che lo circonda. Molti lo hanno capito e i lettori li seguono sia in Italia che all’estero.

Il maestro americano

Ho sempre pensato che scrivere sia un atto di libertà. Un’impellenza che, miracolosamente, coinvolge la sfera dell’intimo e ha ripercussioni su quella del sociale; una pratica adulta che mette in moto l’istinto bambino e il pensiero maturo, che chiama a raccolta le stratificazioni dell’esperienza eppure cede alle lusinghe dell’ignoto, mescolando azzardo e controllo, incoscienza e presa di coscienza. Antinomie che convergono e cooperano nel medesimo atto: la creazione di una storia. Attribuisco quindi all’azione di scrivere la levità del gioco tra fanciulli: senza pretese e tuttavia denso di significati, spesso incurante di scelte preconcette o di regole che non siano quelle interne al gioco stesso, necessarie alla condivisione con quanti più vogliono parteciparvi. Non sono del tutto in buona fede, dicendo questo, lo ammetto. A oggi, mi reputo un discreto ignorante, orfano della lettura di numerosissimi classici in una scuola che ha fatto del proprio meglio per sottrarmi allo studio appassionato della storia, della filosofia, della poesia. Quello che so, spesso l’ho catturato per caso, con lo stesso spirito del gioco: da onnivoro, in strada, nelle sale cinematografiche, dal solco di un disco, da un fraseggio di musica, sui giornali e sui saggi, pescando qua e là, aprendo la Divina Commedia o l’Iliade con gli occhi chiusi e il dito puntato a casaccio, gustando una strofa, una suggestione, sempre con il tremore del contadino che si affida ai segni, ai solchi, al volo delle rondini. Non sto facendo dell’ignoranza un alibi e del disimpegno una bandiera, ma solo una difesa a braccia aperte. Scrivo con quello che ho e, se la giornata gira, quello che ho mi basta a movimentare il gioco. Ho cominciato a pubblicare nel 1994, ed ero più povero e meno cauto di oggi. Avevo finito l’università, e cercavo di esorcizzare un fantasma. Anzi tre. Primo: volevo diventare uno scrittore vero. Secondo: nei dintorni non vedevo il luogo adatto e canonico per l’impresa, ovvero mitici caffè, circoli letterari, un Baudelaire affamato di novità che decidesse di darmi la sospirata patente di “Scrittorevero”. Terzo: speravo di scrivere qui. Qui, in Sicilia. La terra di Pirandello, Lampedusa, Sciascia. Tremavo.
Mi venne in aiuto un americano. Un personaggio che si era più o meno ritrovato ad affrontare fantasmi simili ai miei e forse di tanti altri miei coetanei. L’americano, da ex studente e anonimo insegnante, voleva diventare uno scrittore vero (cioè pubblicato). Ma nei dintorni non vedeva altro che bar, fattorie e scuole metodiste e, peggio ancora, pretendeva di scrivere lì. Lì, in America. La terra di Poe, Faulkner, Hemingway. Lo scenario era: paralisi o tracotanza, insomma. Lo scrittore americano aveva scelto la tracotanza. Scrivere era molto più facile che convincersi se davvero ne valesse la pena, se fosse “lecito” provarci. Era una questione di coraggio, di incoscienza e di motivazione. Era un gioco libero e serio, che non doveva rendere conto a padri fondatori. Questo a qualsiasi latitudine della terra.
Lo scrittore di cui parlo si chiama Stephen King e, al di là di quello che si possa pensare dei suoi libri, della sua “americanitudine” e dei suoi milioni, mi tese una mano invisibile ma concreta. Mi mise in mano le chiavi del regno e i trucchi di un gioco universale. La battuta giusta davanti alle porte chiuse e ai sofisti. Mi svezzò nella lettura di altri autori, più complessi, più vicini all’Europa e persino alla Sicilia. Mi diede un esempio che non è mai arrivato da qui, dalla mia città.
Eppure non ho fatto altro che scrivere di lei, da allora, grazie alla spinta di un maestro lontano, che non conoscerò mai.

Scrittori traditori

C’è un tema che va e viene, con ciclicità ormai quasi stagionale, nel dibattito letterario siciliano e non solo: non esistono più gli scrittori di una volta. Detta così, ricorda una tipica discussione da ascensore: lo stesso rammarico può essere infatti esteso al pane, alle auto, ai programmi televisivi, ai film, alle verdure, agli idraulici e via discorrendo. Di fatto, una certa insoddisfazione permanente in chi è avanti con gli anni è perfettamente in linea con la logica del rimpianto. Anche mio nonno si lamentava dei bei tempi andati e presumo che così facessero suo padre, suo nonno…
Il corto circuito avviene però quando si tende a far legge di opinioni illustri, che pur sempre opinioni sono. Lo scrittore Vincenzo Consolo, nei giorni scorsi, ha sollevato su Repubblica un allarme (che non ha ammesso voci discordi) contro il buio della scena letteraria siciliana. Perché Sciascia e Bufalino sono morti, perché non ci sono più il Romanzo impegnato e la Ricerca della parola, perché i giovani sono troppo giovani, perché l’impegno non è più Impegno. Sotto accusa c’è una generazione eterogenea di narratori che hanno in comune soltanto il luogo di nascita e che per il resto sono – come ha scritto recentemente Santo Piazzese – isole senza traghetto. Questi scrittori sono tra i 30 e i 50 anni, quindi neanche troppo giovani, e percorrono perlopiù le strade del noir o del giallo. Il romanzo “di genere” viene indicato come aggravante: copre la vacuità dei temi, maschera la scrittura storpia, travisa la Storia. Eppure questi scrittori vendono, sono tradotti all’estero e, per paradosso, sono molto più apprezzati quando varcano lo Stretto. A Milano o a Torino vengono infatti trattati meglio che a casa loro. Raccontano storie nient’affatto banali, sperimentano linguaggi, divertono anche. Sono onesti lavoratori, hanno fatto la gavetta, ma devono tenere la testa bassa nella loro terra. Perché gli anziani saggi – che probabilmente non li hanno mai letti – hanno deciso così.
Una domanda: se il figlio è degenere, siamo sicuri che il padre non c’entri nulla?

Aggiornamento, ore 15.40. Data la sorprendente popolarità dell’argomento, mi sembra il caso di aprire un dibattito. Autori, editori e lettori che vogliono esprimere un’opinione con un intervento che non sia un semplice post possono inviare testo (massimo 30 righe) e foto all’indirizzo e-mail: gerypa@alice.it .

Il conto dei Savoia

Tre frasi di Vittorio Emanuele Alberto Carlo Teodoro Umberto Bonifacio Amedeo Damiano Bernardino Gennaro Maria di Savoia (se avesse tanti neuroni quanto i nomi che porta risulterebbe un genio a casa sua).
Nel 1994, quando gli fu chiesto se fosse disposto a giurare fedeltà alla Costituzione repubblicana per tornare in Italia, lui rispose: “No. Non voglio rispondere a questa domanda. È una cazzata!”.
Nel 1997 rifiutò di scusarsi per la firma di un Savoia alle leggi razziali, precisando: “Non mi scuso perché non ero neanche nato. E poi, non sono così terribili (le leggi razziali, ndr)”.
Nel 2006, appena scarcerato, durante una telefonata a un conoscente disse: “Questi giudici sono dei poveretti, degli invidiosi, degli stronzi. Pensa a quei coglioni che ci stanno ascoltando: sono dei morti di fame, non hanno un soldo. Devono stare tutto il giorno ad ascoltare, mentre probabilmente la moglie gli fa le corna”.
Ora Vittorio Emanuele di Savoia, pensionato P2, e suo figlio Emanuele Filiberto, killer grammaticale e sospettato col genitore di attentato alla pubblica intelligenza, chiedono 170 milioni di euro allo Stato italiano per danni morali dovuti alla violazione dei diritti fondamentali dell’uomo stabiliti dalla Convenzione Europea per i 54 anni di esilio.
Segue il messaggio che mi ha spedito ieri la mia amica Mela insieme con la segnalazione di questa notizia: “Accanisciti, ti prego! Sbranali a parole, masticali e, se sono indigesti, vomitali pure! E rutta!”.

Burp!

Troppo vero per essere vero

Fini dà il benservito a Berlusconi o, a seconda dei punti di vista, ricambia. La teatrale separazione tra An e Forza Italia si è consumata ovviamente in diretta tv, come se fossero necessari una specie di bollo catodico, una legittimazione Pal, una colata di ceralacca mediatica. I mass media non raccontano più ciò che accade – questa è la mia sensazione -, ma creano l’evento stesso. Sospetto che a riflettori spenti quei due – come tutti gli altri – si parlino, confabulino, pianifichino, tramino, recitino un copione. Perché altrimenti tutto ciò non avrebbe senso. Berlusconi si inventa un nuovo partito frammentato per far concorrenza al neo partito della frammentazione assoluta che è il Pd. Non concorda nulla con i suoi alleati. Fini e Casini apprendono tutto a cose fatte e parlano di colpo di teatro. Veltroni apre. Berlusconi spalanca. Bossi boccheggia. Troppo vero per essere vero.
Vorrei essere il cellulare di Silvio Berlusconi per sapere, oltre a come si abborda l’ultima starlet di Canale 5, di cosa caspita parlano il cavaliere e i suoi commilitoni politici a telecamere lontane.

Stipendi non stupendi

Una ricerca dice che negli ultimi cinque anni gli stipendi di lavoratori dipendenti e operai sono diminuiti, per effetto di un complesso gioco di inflazione, mancata restituzione del fiscal drag e altri elementi economici da mal di testa. Sono un lavoratore dipendente, anche se da febbraio scorso sto provando la libera professione, e mi rendo conto che, pur da privilegiato, con l’avvento dell’euro mi sono ritrovato più povero. Non ci vogliono studi da premio nobel per capire che 2.500 euro non valgono quanto i cinque milioni di lire di una volta, ci vuole solo coraggio politico per affrontare al più presto la questione. Ci vogliono leggi per controllare i prezzi: un chilo di arance in Sicilia non può costare tre euro, perché fino a qualche anno fa costava mille-millecinquecento lire (prezzo massimo). Quando avevo casa in affitto pagavo un milione al mese, col tempo sono arrivato a pagare oltre mille euro. E vi assicuro che se, negli anni Novanta, mi avessero detto che sarei arrivato a pagare due milioni e passa per una casa mi sarei fatto ricoverare d’urgenza, per prevenzione. Quando si parla di soldi il qualunquismo è sempre in agguato. Ma se non se ne parla c’è la Sezione Fallimentare che incombe. Morale qualunquista: meglio qualunquisti che alla fame.

Consigli per gli amplessi

Scrivo queste righe in clandestinità, nel covo di alcuni miei favoreggiatori che, coraggiosi, cercano di restituirmi ciò che la Telecom mi ha tolto tre giorni fa: la libertà di comunicare.
Riflessione per il fine settimana: data la recrudescenza di delitti maniacali, di accoltellamenti durante atti sessuali, di emulazioni criminali, di amplessi tragici, di prelievi di Ris, Sco, Cip e Ciop, è consigliabile adottare alcune precauzioni di carattere generale.
Niente incontri erotici in luoghi in cui ci sono coltelli nel raggio di 1,5 chilometri. Il partner, anche se trentennale, va sempre perquisito prima.
L’amplesso si deve svolgere in una stanza completamente vuota, nella quale i due (o tre, o quattro, eccetera…) protagonisti entrano completamente nudi.
E’ prevista un’ispezione corporale prima dell’ingresso nella stanza di cui sopra.
Terminato il rapporto, i due (o tre, o quattro, eccetera…) amanti vanno in piazza a fermare i passanti per farsi un alibi nel caso in zona si verifichi un omicidio. La caccia agli inconsapevoli testimoni prosegue per tutta la giornata tra scontrini fiscali, biglietti del cinema, code alle Poste, risse coi posteggiatori, volantinaggi davanti alle scuole e flash mob di fronte al municipio.
Alla fine i due amanti (o tre, o quattro, eccetera…) vanno a letto, ognuno a casa sua, assicurandosi che i telefonini siano serviti da “celle” diverse: solo così avranno la certezza di non aver sbagliato casa.

Sesso sesso sesso

Ho letto ieri di recenti studi, con annessi libri in vendita, su come migliorare la vita sessuale. Quando mi trovo di fronte ad argomenti di questo genere divento preda di una curiosità scimmiesca a tal punto da provare quasi vergogna. E – vi assicuro – non per il motivo che perfidamente potreste immaginare.
Insomma, dopo anni di studi, ricerche, esperimenti su uomini animali e cose, gli esperti hanno fatto le seguenti inaudite scoperte: al sesso (inteso come attività) fa bene l’esercizio fisico e fa male il fumo; l’eccesso di alcolici è vietato; è fondamentale che la coppia trovi nuove fantasie; se le cose non funzionano è bene rivolgersi a uno di loro (uno degli esperti); e, soprattutto, lo stress è veleno.
Fatta salva la buona fede di questi ricercatori, c’è da chiedersi con chi hanno avuto a che fare (personalmente e professionalmente) sino a prima di iniziare questi studi.
La mattina vedo correre, in calzoncini e maglietta, centinaia di padri di famiglia e, dalle loro facce, dubito che stiano pensando a una serata focosa. Le sigarette (o i sigari di clintoniana memoria) possono essere utili in un rapporto solo se stanno ben lontane dalla bocca e soprattutto spente. Quelli della Vecchia Romagna ci hanno fregato per decenni, spacciando un superalcolico per “il brandy che crea un’atmosfera”. Le fantasie nella coppia sono fondamentali, anche se ormai sembra che la più popolare sia quella su come occultare il cadavere del coniuge. Andare dal medico per dirgli “dottore, sa una cosa? Non mi si drizza dal 1983” è la cosa più semplice del mondo, suvvia. Ci sono vari modi per combattere lo stress: uno di questi è lavorare di meno. Ma chi non lavora non fa l’amore. Azz, ci ha fregato anche Celentano.

Amici

Ho rivisto amici che non incontravo da trent’anni. E’ un bel sollievo confrontare le proprie rughe con quelle degli ex ragazzini con i quali hai condiviso la tua gioventù. Ed è una meravigliosa sorpresa scoprire che, in fondo, tu per loro non sei cambiato.
Quanti amici di infanzia abbiamo abbandonato per inerzia, costrizione, o per necessità geografica? Vi siete mai fermati a pensare quante persone, che hanno segnato il vostro cammino negli anni fondamentali della vostra felice incoscienza, vorreste rivedere?
Il tempo – ho capito con colpevole ritardo – è un giudice sommo: diffidate di chi cerca di azzerarlo o di renderlo invisibile. Allontanate immediatamente tutti quelli che si pongono come misura assoluta, con la protervia – ben nascosta – di rendere il presente omnicomprensivo. Siamo, anche, ciò che siamo stati. E nessuno può toglierci le corse in Vespa, le risate in spiaggia, le prime ubriacature, le mezze parole che ci fanno riconnettere con un mondo distante anni luce. Diamoci tempo per i ricordi, ci aiutano per il futuro, senza rimpianti se ben collocati.
Questo – lo so – non è un post popolare. Ma sono felice di aver rivisto i miei amici, che sanno poco di ciò che faccio. Per loro vado bene come andavo. E per questo li ringrazio.