Il vangelo di Luca

Il nuovo leader del partito degli Unti dal Signore, Luca Cordero di Montezemolo, ha lanciato il suo anatema politico. Il riassunto è questo: il governo ha come mestiere quello di creare problemi alle imprese, l’opposizione non fa un tubo, la ripresa c’è stata solo per merito degli imprenditori, in pensione bisogna andarci dopo morti.
Insomma se il nuovo soggetto politico guidato dal presidente di Confindustria dovrà trovarsi uno slogan, gli suggeriamo il celebre “colpa tua, merito nostro”.
Tra le nubi di incenso e i cori angelici che, come sempre, accompagnano le omelie programmatiche di Montezemolo è filtrato però un ammonimento di gran peso: “Il sindacato difende anche i fannulloni”.
E’ vero. Il leader degli Unti ha centrato un problema notissimo e ignoratissimo. In molte frange del sindacato vigono leggi di ricatto e vengono protette intere cosche di nullafacenti. Ovviamente non si deve generalizzare. Non lo fa Montezemolo, figuriamoci…
E’ però cosa buona e giusta avviare una riflessione su molte associazioni di categoria e sul florido moltiplicarsi dei carrierifici. Fateci caso, che fine hanno fatto gli ex caporioni del vostro sindacato? Se fate una ricerca scoprirete che nella stragrande maggioranza dei casi sono stati promossi in azienda o addirittura hanno avviato attività imprenditoriali in proprio.
Senza generalizzare, secondo il vangelo di Luca.

Lavori in corso


A causa di ripetuti danni ai file del computer e quelli del mio cervello, sono stato costretto ad abbandonare il Pc per approdare al Mac. Da una quarantina di ore consecutive cerco di domare la mia compulsiva ricerca di un tasto destro del mouse e, al tempo stesso, di capire dove finiscono i documenti che produco. Mai mi sarei aspettato, alla mia età, di trovarmi a parlare nel cuore della notte con uno schermo di venti pollici. Non voglio tediarvi con mille altre manie che mi colgono anche adesso, mentre ticchetto su questa tastiera di magico (e anche un po’ irritante) design. Spero solo di riuscire a imbastire, entro fine estate, un rapporto di buona convivenza con il mio nuovo compagno di lavoro. Spero soprattutto di riuscire a pubblicare questo post.

Il Gay Pride è contro i gay

Il Gay Pride è un evento utile? Conviene cioè a qualcuno? Sostenta un causa? Se l’intento degli organizzatori è quello di portare alla luce un fenomeno da analizzare, certamente sì. Se invece si tratta di una mera provocazione, travestita (è il caso di dire) da voglia di stupire, certamente no.
L’importante questione dei diritti degli omosessuali vive, in questi ultimi anni, di ampie ribalte. Il dibattito politico è fitto, gli spunti di cronaca non mancano.
C’è, in un’ampia fascia di moderati, la sensazione che questo genere di manifestazioni siano tristemente desuete. Un po’ come pretendere di rifare oggi i festival del pop coi nudisti, le canne e altro al vento. Per fortuna i tempi cambiano e ci si adegua anche con le proteste. Il che non significa fare incetta di sedativi: Pannella faceva lo sciopero della fame, poi si è cimentato anche in quello della sete; probabilmente dovrà inventarsi presto qualcos’altro, penso a uno sciopero dei bisogni fisiologici.
Il Gay Pride è vecchio, stantio. E si è trasformato in un triste rito, quello che cerca di lavare vecchie frustrazioni con l’acqua che non bagna. C’è una riflessione in atto, nel Paese, sulle coppie di fatto e su diritti stratosferici come quelli della genitorialità. Perché intorbidire le acque con le sfilate di bancari sadomaso, di segretarie dalla lingua prensile, di uomini travestiti da brutte donne e di donne che sembrano brutti ceffi? Amici gay, rifletteteci, queste manifestazioni fanno di voi caricature, pupazzi su carri allegorici di cui sghignazzare. Gli omosessuali che conosco, e di cui mi fido, non vivono per un giorno da checche liberate. Vivono, più semplicemente, per una vita in cui non li si guardi come diversi. Il Gay Pride rende ridicoli e irraggiungibili.

La bomba gay

Becco negli archivi del Tgcom una notizia riempipista, come alcuni brani da discoteca. Una notizia, cioè, di immensa popolarità e di peso specifico prossimo allo zero. La dico d’un fiato tra una risata e l’altra: neglianniNovantailPentagonostudiòunabombagay. Non è una novità, se ne parlo già qualche anno addietro. Però adesso c’è la conferma del governo Usa.
C’era un progetto per far diventare omosessuali i nemici in guerra, il tutto con una mistura chimica. Mi chiedo: era un gas da diffondere coi missili? Una pomata da spacciare come antiemorroidario? Una polvere da sciogliere negli acquedotti? Una fiala da iniettare grazie a fucili di precisione?
L’aspetto più grottesco, e meno divertente, della notizia sta nella strategia: grazie alla bomba gay i soldati della parte avversa sarebbero diventati meno aggressivi perché attratti dai commilitoni.
A parte l’inverosimiglianza dell’argomentazione. Con che criterio si può stabilire che un gay (anche se improvvisato) cede alle tentazioni sessuali e non fa il suo dovere di soldato? Se un milite al fronte si scopre omosessuale, chi può credere che appenda il fucile al chiodo per inseguire un pisello 24 ore su 24? Mi sembra che la logica di questa presunta strategia alberghi nel fetido pregiudizio secondo il quale il “diverso” è inferiore. Quindi, molti “diversi”, molti sconfitti.
Se fossi gay andrei da questi scienziati e gli farei un culo così.

L’appello di Camilleri

L’appello di Andrea Camilleri per salvare la Val di Noto dalle trivelle di una compagnia petrolifera texana fa rumore. Ed è inaudito che le trombe della politica, i tamburi delle panze assessoriali, le schitarrate degli ambientalisti non siano riuscite, tutte insieme, a raggiungere un livello di protesta appena udibile fuori dai loro condomini.
Ci hanno tentato, a dire il vero, con la carta bollata e con i decreti. Hanno tentato di contrastare l’avanzata del gigante oleoso al quale, per follia o per tangente, avevano dapprima aperto la porta di casa. Diciamo che si sono pentiti in extremis, quando avevano il nemico già nel lettone della moglie.
Questi signori, presidente della Regione e assessori vari, sono veri esperti della protesta: organizzano marce, dichiarano a mitragliate, si muovono insomma senza scrupoli sul fronte della comunicazione. Eppure contro i texani della Panther si sono sentiti improvvisamente vulnerabili. Sarà che non parlano l’inglese…

E allora? Allora sono ricorsi al Maestro. Al verbo di una personalità che, fuori dalle orchestre della politica, ha un’ inimmaginabile potenza solistica. Quella dell’arte.
Se ne ricordino.

I killer e le vittime

Più di trecento ergastolani hanno scritto al presidente Napolitano per protestare contro l’ergastolo e per chiedere, provocatoriamente, la pena di morte. Tra loro ci sono assassini di magistrati, di ragazzini, di giornalisti, di persone comuni che hanno scelto il giorno sbagliato per uscire fare la spesa. I firmatari sono anche camorristi, mafiosi, supertrafficanti di droga. Il mondo politico, Presidente in testa, ha risposto manifestando interesse per l’iniziativa. Si pensa – e da tempo – di sostituire il “fine pena mai” con un periodo di detenzione non inferiore ai trent’anni.
Sono una persona per certi versi scontata: mi piacerebbe sapere che ne pensano le vedove, gli orfani, gli amici e i compagni di lavoro delle vittime. La civiltà di un Paese sta nel saper affrontare con coraggio e senza equilibrismi questioni sostanziali con felice fermezza. Se si fa qualcosa per ridare speranza ai colpevoli si può fare altrettanto per i sopravvissuti alle loro violenze? Lo so, ogni volta in cui in Italia si dibatte sul basilare rapporto tra causa ed effetto ci si impantana nella banalità, nella rissa o, peggio, in tutt’e due.
La certezza della pena nel nostro Paese è un modo di riempirsi la bocca quando ci si trova davanti a crimini reiterati, orrendi, prevedibili. Se si ottenesse un certificato collettivo con un elenco di chi deve stare dentro e di chi invece non ci sta sarebbe tutto più semplice. Non si perderebbe tempo con la demagogia e si darebbero certezze a quelli che le esigono. Che, ricordiamolo sempre, sono le vittime.

P.S.
La foto è del grande Franco Zecchin.

Il cinema deprimente

Secondo Quentin Tarantino il cinema italiano degli ultimi anni è deprimente. Saltatemi addosso, ma non posso che dargli ragione.
Tarantino è un regista incostante e discusso (anche se a me piace, tranne che per Le Iene) . Molti film italiani hanno più pretese che plot, campeggiano su uno schermo più per contributi riscossi che per sceneggiatura. Non sono un esperto e giudico a gusto. Se voglio svuotarmi il cervello scelgo un film americano, se ho voglia di sentimento vado verso una commedia inglese, se mi voglio far male oso aprire gli occhi su un retrospettiva orientale, se cerco l’impegno posso trovarlo in certe pellicole spagnole o del centro Europa. Non è un problema di geografia, ma di fabbrica delle idee. Noi italiani siamo diventati un popolo di fiction così come l’Olanda è diventata una catema di montaggio di format televisivi. Ognuno trova i suoi ritmi (televisivi e/o cinematografici) nella cultura che impera. Se il nostro modello, salvato dallo stesso Tarantino, è Moretti non siamo messi bene. A me Moretti dopo un po’ annoia a morte. Perché il cinema, l’arte, nasce per divertire e arricchire, non solo per compiangersi e contestare a bocca piena. Quando si parla di pesantezza fatta celluloide si cita spesso a sproposito Eisenstein con la sua Corazzata Potemkin dimenticando che le sue Lezioni di regia sono un trattato illuminante sui volumi scenici e le inquadrature (scritto quasi un secolo fa). Dal sacro al profano, qualche giorno fa Wilbur Smith ha dichiarato alla tv italiana che c’è solo un ingenuo segreto per raccontare buone storie: scriverle bene. Partiamo da qui.

Aggettivi per Cuccia

Quando se ne andò, Enrico Cuccia lasciò dietro di sé alcune leggende. Era facile, del resto, favoleggiare su quest’uomo piccolo e potente, dalle ferree abitudini e dai rarissimi sorrisi. Ora il Corriere della Sera ci fa sapere che il conto lasciato ai figli ammonta a 150 mila euro e che non esiste neanche un testamento.
C’è una sensazione che prende il sopravvento quando penso a uomini come Cuccia. E’una sensazione di imbarazzo. Mi piace, ci piace giudicare i grandi uomini perché è per proprio questo che sono diventati grandi, per essere additati, criticati, invidiati, emulati, denigrati e glorificati.
Cuccia appartiene a una categoria di cui è e sarà unico membro, solista fino dentro la tomba. Burattinaio, spietato tra gli spietati, banchiere dei banchieri, non ritirò neanche l’assegno come presidente onorario di Mediobanca (163 milioni di lire).
E’ di certo una figura d’altri tempi per la quale non è mai stato coniato un aggettivo giusto ed equilibrato.

La leggenda continua.

Scelte e consigli

Ho sempre attribuito una certa sacralità alle scelte e ai consigli. Li ho frequentati senza disinvoltura e li ho catalogati nel reparto nobile dei ricordi. Questo mio atteggiamento è però puntualmente contraddetto dall’esperienza del giorno per giorno. Cioè: nonostante mi ostini a caricare di importanza (etica, sociale, religiosa, strategica) scelte e consigli, mi rendo conto che le conseguenze sono sempre sgonfie di questo plusvalore, sono insomma semplici conseguenze. Una scelta complicata comporta spesso reazioni elementari e viceversa. Insomma “le scelte sono scommesse”, e le mie valgono come quelle di chiunque altro. I consigli sono una forma di nostalgia. “Dispensarli è un modo di ripescare il passato dal dimenticatoio, ripulirlo, passare la vernice sulle parti più brutte e riciclarlo per più di quel che valga”.
A questo pensavo mentre finivo di scrivere una storia complicata. Avrò fatto le scelte giuste? Dovrò far abbondante ricorso a consigli?

Poi sono andato a comprare un Gratta e vinci.

Al mancato sindaco di Palermo

Gentile professore Leoluca Orlando, sono uno dei suoi elettori e non posso che scriverle. Ho appena finito di visitare il suo sito e alla voce “ultime notizie” proprio nella home page si rimanda ai risultati dello spoglio in tempo reale che in realtà non ci sono e a una sua dichiarazione su Prodi e Cuffaro datata 6 maggio. Sa com’è, volevo aggiornarmi prima di metterla al corrente delle mie perplessità. Pazienza, la rete (minuscola) non è il suo forte.
Le indagini sulle sue denunce faranno il loro corso. Lei parla di brogli, i giornali testimoniano un clima pesante persino nei quartieri che dovevano essere le sue roccaforti, i vincitori gioiscono per gli esiti del loro “ottimo gioco di squadra”. La verità è sabbia tra le dita, un po’ scorre, un po’ dà fastidio.
La distanza di punti percentuali tra lei e Cammarata è notevole. Lei non ha perso sul filo di lana, ha perso e basta. Servivano più voti, più partecipazione.
Lei, gentile professore, ha creduto troppo in se stesso, troppo poco in un supporto politico di largo consenso. Traduco: ha fatto da solo ciò che doveva fare in gruppo. E’ sempre andata così da quando la conosco (e la voto). Lei è un solista, non ha delfini, non vuole eredi, brucia idee in varie lingue, è un tritasassi delle parole, un erogatore di programmi ambiziosi, un pessimo tattico.
Della Rete (maiuscola), che da semplice movimento era diventato imponente soggetto politico, non è rimasto un solo nodo utile, solo pesci morti. Eppure noi c’eravamo, gentile professore, noi eravamo quella marea silenziosa che inondava le strade per seguirla nei cortei antimafia. Noi la sorreggevamo nel duello cruento con una parte dell’estabilishment cittadino (imprenditori, giornalisti, magistrati) che brandiva un garantismo peloso quantomeno sospetto (per non parlare d’altro). Noi facevamo il tifo per lei come se fosse un campione sportivo, l’ascoltavamo come un mahatma.
Lei ha creduto di poter continuare a correre da solo. E ha sbagliato per nobiltà d’animo e triste presunzione. Adesso non so quali siano i suoi progetti, immagino che voglia giocare un ruolo da protagonista nel Partito democratico. Le do il mio modesto consiglio: si faccia moltitudine, deleghi, distribuisca fiducia, mandi qualcuno in giro a parlare per suo conto. S’inventi gli orlandiani e dimentichi l’orlandismo.
Buon lavoro