Non trovo scandalo nell’addio di Fabio Fazio alla Rai perché sta nelle regole del gioco di tutti i precari (seppure di lusso) scegliere di sbagliare da soli o lasciarsi tentare da offerte vantaggiose. Provo fastidio invece per una pervicace sottovalutazione della qualità da parte della classe dominante (politica, economica, sociale) di questo Paese. La logica, molto diffusa sui social, del “tanto non mi piaceva se ne vada a quel paese” è abbastanza pericolosa se estesa a un modello. Il governo di un’azienda pubblica, e persino di quello – azzardo -di un’azienda privata, non si deve basare sul sentimento personale. Per un motivo semplice: perché è tipico delle dittature. La prima cosa che fa un tiranno, è mettere i propri gusti, le proprie manie, le proprie inclinazioni, soddisfazioni, aspirazioni in cima alla lista delle cose da fare.
Quindi una cosa è giudicare, un’altra è amministrare. Ad esempio, io odio la carne rossa e metterei al rogo – tipo sulla carbonella domenicale – tutti quelli che azzannano costate, cotolette e fiorentine. Ma siccome sono solo io che ne scrivo qui tutti vi fate una risata, ma se fossi chessò Kim Jong-un e voi foste i miei sudditi nordcoreani avreste ben poco da scherzare.
Il problema, che molti filosofi contemporanei come Daniel DeNicola stanno affrontando seriamente, è che molto probabilmente non abbiamo il diritto di credere in ciò che vogliamo (ne parlerò domani in un podcast proprio da queste parti).
Scrive DeNicola: “Credere in qualcosa significa ritenerlo vero ma questo non implica in modo automatico che quella convinzione lo sia realmente. Le credenze, per la maggior parte, non sono atti volontari, ma piuttosto idee e atteggiamenti. Il problema è rifiutare questo genere di ‘eredità’ quando si tratta di una credenza eticamente sbagliata – come considerare la pulizia etnica una soluzione politica accettabile. Se una convinzione è immorale è anche falsa. Sostenere, per esempio, che una razza sia inferiore a un’altra, non solo è moralmente ripugnante, ma è anche sostanzialmente falso. Le credenze inoltre hanno uno stretto rapporto con la realtà e con la sua conoscenza: attribuire a un’autorità il fatto che dobbiamo credere in una cosa, oppure negare un avvenimento certo o ancora ignorare evidenti incoerenze è un atto di irresponsabilità, somiglia piuttosto a voler abbracciare un desiderio. Per questo la libertà di credere deve avere dei limiti”.
Questo discorso è strettamente collegato alla questione Fazio perché può contribuire a inquadrare la vicenda in un ambito più ampio e per questo meno piccolo, parziale, angusto.
Siccome Fazio costa, una parte populistica della politica – che non è solo di destra anzi – ci ha indotto a pensare che è bene che se ne vada così si risparmia.
Siccome Fazio è legato a una storia di sinistra, tutti quelli che di sinistra non sono, tirano un sospiro di sollievo come se la qualità fosse appesa all’arco costituzionale.
La qualità, ecco.
Il nodo è la qualità.
Ma non nella televisione italiana, non negli inquilini delle stanze del potere, non nell’esercito dei polpastrelli del web. La qualità è un’emergenza di questo Paese di voltagabbana, di cognati miracolati, di twittatori ministeriali, di analfabeti al comando, di panzane etniche, di disuguaglianze esibite come un trofeo, di refusi imbarazzanti in ogni dove.
Fabio Fazio è uno che sa fare il suo mestiere e che fa un prodotto di qualità (che piaccia o meno non conta una cippa, vedi le prime righe di questo post). Una tv pubblica che lo lascia andare altrove dovrà trovare un prodotto di altrettanta qualità per sostituirlo. Ed è allarmante che alla Rai si mostrino sereni e quasi soddisfatti: perché è delle cose che pericolosamente si ignorano che solitamente si ha un’opinione migliore.
Questa destra, parlo di FdI e LEGA, non è di qualità, come non è di qualità nessuno dei suoi esponenti. Chi non ha valore e per valore intendo intelligenza e cultura teme chi dispone di questo valori. A destra vedo solo slogan, propaganda e tanta mediocrità
Fabio Fazio fa un prodotto di qualità? Parliamone.
Più che descriverlo come un prodotto di qualità, lo descriverei come un prodotto pensato, cesellato per fidelizzare e compiacere ripetutamente uno specifico segmento di pubblico (vogliamo dire i radical-chic di impronta moderata), rassicurandolo e fornendo identità e appartenenza. Del tutto speculare a quanto fa, ad esempio, La7 con Propaganda Live verso il pubblico più a sinistra ma ugualmente autocompiaciuto e radical-chic.
Ogni cosa in CTCF è studiata a tavolino: dalle domande che mai mettono veramente in questione l’interlocutore, al finto “timido imbarazzo” del presentatore, a questi che si dipinge sistematicamente fan sfegatato di qualunque attore/cantante/artista si sieda accanto.
Che intorno a questo giri un indotto di milioni di euro è lecito anche se, a mio personale avviso, deprecabile. Chiedo solo una cosa: che non lo si chiami nè “giornalismo”, nè più in generale “fare cultura”.