Il traghetto

Il traghetto che mi riporta a casa è un pentolone in cui ribollono brandelli di famiglie, turisti malinconici e forzati della comitiva domenicale.
Tra le famiglie, in liquefazione, ci sono quelle senza figli: lui alterna la Gazzetta dello sport al cellulare orfano di linea, lei è compressa in un prendisole chiazzato di sudore ed è sfregiata dalla salsedine. E quelle coi figli: bambini che frignano per tutte le tre ore e passa del tragitto nel più colpevole menefreghismo dei genitori troppo impegnati a smarrirsi nel vuoto di pensieri infelici.
I turisti malinconici sono concentrati a poppa. Guardano indietro, oltre la scia del traghetto e non mollano l’isola che si allontana neanche quando sparisce, diluita nelle miglia lattiginose di una rovente domenica pomeriggio.
I forzati della comitiva domenicale cantano e scandiscono slogan di gruppo. E’ la loro maniera, la più rumorosa e molesta, di prolungare la fine del fine settimana. Ridono, si slogano l’ugola per le frasi più insulse, a patto che siano urlate.
Gli appunti che avevo preso si fermano qui. Una belva feroce, dall’apparente età di quattro anni, ha deciso di rovesciare la sua Coca Cola (3, 20 euro una bottiglietta) sul mio block-notes. Accanto, la madre boccheggia nella calma piatta del suo elettroencefalogramma.

Pausa

Una settimana per rinfrescarmi le idee. Ci rivediamo lunedì 14.

Stava con una ballerina

Una donna parla della ex di un suo ex. Oppure della ex di un suo amico caro. Oppure della ex di un suo parente stretto. Insomma parla della vecchia fiamma di un uomo per il quale ha stima\affetto\interesse.
“Lei era una ballerina”.
“Ah”.
“Sì, ma ora lei pesa cento chili”.
“Ah”.
“E ha un fidanzato che ne pesa venti”.
Voi non conoscete il soggetto maschio in questione, ex fidanzato, amico caro o parente che sia. Ma istintivamente siete portati a stimarlo per vari motivi.
1) Stava con una ballerina, mentre voi al massimo siete stati con una che vi faceva ballare e senza musica per giunta.
2) Non vi sarà mai concesso di conoscere la famosa ballerina per il punto che segue.
3) Sul cedimento della ex avete solo una testimonianza de relato e gravemente minata nell’attendibilità.
4) La ex ingrassa sempre (o si imbruttisce comunque), nell’immaginario collettivo femminile, quando perde la titolarità.
5) L’uomo che la recupera, nonostante pesi solo venti chili, se la gode alla grande.

Ambiente e dementi


Le notizie ecologiche sono tali solo se sono foriere di disastri incommensurabili o se hanno termini di paragone assoluti. Coi mezzi d’informazione funziona così: o c’è una sciagura imminente perché qualcuno ha turato lo scarico di una diga oppure l’estate torrida (sempre quella che si avvicina) è “la più calda del secolo”. Eppure gli scienziati ci hanno insegnato che il tempo, persino nell’universo limitato che ci ospita, va misurato in secoli, millenni. E il tempo è puntuale.
Fateci caso. C’è un’esplosione di emergenze rifiuti, dopo Napoli, in tutta Italia. Ma per riempire (e colmare) una discarica ci vogliono anni. Gli anni, dal momento che fanno squadra col tempo, sono puntuali anch’essi. Non è successo quindi nulla di incredibile alle nostre discariche, non sono impazzite in sincrono con quelle campane: semplicemente, dopo anni, si sono saturate. Tutte insieme, sì. Perché sono figlie di una comune, scellerata, politica ambientale. E peggio andrà nei prossimi anni, se non ci decidiamo a cambiare registro. Ieri sentivo, in un telegiornale, la dichiarazione di un sindaco del Trapanese che, tutto orgoglioso, comunicava alla popolazione l’identificazione di una nuova area in cui depositare i rifiuti. Diceva: “Per almeno otto anni siamo tranquilli”. “E poi?”, qualcuno avrebbe dovuto chiedergli.
C’è il rischio che quest’estate, per la prima volta dall’alba dell’homo sapiens, il Polo Nord si ritrovi a corto di ghiaccio, con conseguenze più che spaventose per la sopravvivenza sulla Terra. Qualche giornale ne darà conto oggi e, ci potete giurare, ci sarà sempre un sindaco, un presidente, un consigliere di qualcuno/qualcosa che tranquillizzerà: “Per almeno otto anni siamo tranquilli”.

Saviano, la camorra e miti inutili


La dura sentenza d’appello contro il clan camorrista dei Casalesi, letta sotto gli occhi dello scrittore Saviano, ci dice molte cose.
Primo. Lo Stato può essere forte senza necessariamente mostrare i muscoli. L’applicazione della legge e il rigore di pene certe non rientra in nessun “pacchetto emergenza”: deve essere una regola senza eccezioni.
Secondo. Il clamore di un romanzo di successo è utile per accendere qualche riflettore su fenomeni dimenticati o, peggio, ignorati. E’ una spinta a mano, ma non può costituire motore. La letteratura accende rivoluzioni, le coscienze le alimentano.
Terzo. La personalizzazione spietata operata dai mezzi di informazione nella lotta del bene contro il male ha la grave controindicazione di costruire miti falsi. Falsi perché calati in ruoli estremi e ostili alla pubblica credibilità. Saviano è uno scrittore, non un Masaniello. Il delinquente Sandokan non ha la caratura di un boss onnipotente.
Quarto. A questo punto, se un romanzo collettivo deve essere scritto, è bene dare la parola alle decine e decine di vittime dei Casalesi: figli senza padri, genitori che piangono figli, commercianti senza più negozio, giornalisti con la scorta armata. Un romanzo di denunce, accuse circostanziate, resoconti precisi che porti al gran finale: l’identificazione di tutti i complici e favoreggiatori del clan.
Quinto. L’attenzione sul fenomeno criminale non è frutto di un’elargizione dello Stato, veicolata in questo caso dalla risonanza di un’opera letteraria e cinematografica. E’ piuttosto un dovere: ci sono occhi pagati per guardare, bocche per riferire, cervelli per pensare e mani per ammanettare. Un Paese che aspetta uno scrittore per muovere le sue pedine è un Paese senza capo e con molte code.

Emilio F. Forever

Ieri pomeriggio, dopo una lunga giornata di lavoro, avevo voglia di distrarmi un po’. Ho acceso il televisore e mi sono ricoverato nel Tg4. Non sono rimasto deluso.
Il tg di cui – come scrisse Michele Serra – è tenutario Emilio Fede è sempre uno spettacolo di intrattenimento quasi pirotecnico.
Quando lavoravo al giornale, nei momenti in cui mi sentivo stanco, stressato o vessato c’era sempre il tasto 4 del telecomando a risollevarmi. Così è stato anche ieri.
Il tempo, per fortuna, fa un buon servizio oltre che al vino e all’arte… anche a Emilio Fede. Il direttore-intrattenitore ieri si è esibito in un numero difficilmente eguagliabile.
Per spiegare al suo pubblico il giro di vite del governo Berlusconi sulle intercettazioni telefoniche ha imbastito una serie di interviste, sagacemente studiate: per completezza di informazione.
Quattro pareri: uno pro (quello del senatore Udc Francesco Pionati), uno pro (quello del sostituto procuratore di Venezia Carlo Nordio), uno pro (quello del direttore del Mattino Mario Orfeo), e uno pro (quello del direttore de Il Tempo Giuseppe Sanzotta).
Un maestro della risata, Emilio Fede, che ovviamente si è riservato la geniale battuta finale pronunciando, a proposito della correttezza dell’informazione, la parola “deontologia”.
Se fossero ancora vivi, Franco e Ciccio profanerebbero con gioia la collaudata formula del duo. Franco e Ciccio? No, molto meglio: Franco, Emilio e Ciccio.

Quelli contro

Esiste una categoria di persone particolarmente fastidiosa. Sono quelli contro, a ogni costo.
Si ostinano a navigare controvento, o meglio a ostentare la loro navigazione controvento, anche quando l’aria è ferma. Li trovate a ogni angolo di discussione, ovunque ci sia la possibilità di imbucare un parere. E – fateci caso – raramente il loro è un parere richiesto. Criticano senza argomentare, minano alle fondamenta il rigore della logica, si esibiscono a orecchie tappate perché ascoltare gli altri è per loro una grave forma di inquinamento cerebrale.
Ne conosco di due tipi: gli snob e i rissosi.
Il ragionamento dei primi è semplicissimo. Criticano qualcosa che non hanno visto, che non hanno sentito, di cui non hanno neanche una prova epidermica. Sono i migliori sostenitori del Partito Preso e i peggiori promulgatori delle ragioni dello stesso.
I secondi sono un po’ più sofisticati e – diciamolo – anche un po’ più intelligenti. Generalmente, proprio per alimentare la fiamma dell’ira che li fa (così credono) personaggi, hanno studiato l’argomento di cui blaterano. Ma si sentono biologicamente costretti a ricostruirlo in modo speculare rispetto alla comune opinione. Sta in questa costrizione masochistica il segreto della loro orgogliosa vacuità. Le opinioni controcorrente sono terreno fertile per la cultura e la civiltà (e anche per un sano cazzeggio), a patto che siano libere. Le loro sono incatenate all’ombelico. Sono battute mal recitate di un copione che nessuna persona sana di mente si sognerebbe di scrivere.

Nostalgia canaglia

Questo discorso, mia suocera avrebbe voluto pronunciarlo dal balcone di Palazzo Venezia. Gliel’ho letto negli occhi quel desiderio nostalgico. Invece domenica eravamo a un qualsiasi tavolo di ristorante. Rogna del giorno: le sue badanti. Una, di mezza età, la mattina le riordina la casa e le prepara da mangiare. Cinque giorni a settimana. Un’altra, non molto più giovane d’età ma acerba nell’abbigliamento, due pomeriggi su sette la porta in giro per una passeggiata su ruote (di macchina). La bestia nera di mia suocera è la seconda.
“Manco mi ricordo come si chiama, quella là”. Sguardo pensoso. Occhi che roteano. Poi la soluzione: “Ah, sì, Frencesca!”. E dire che si chiama Francesca/Frencesca anche lei. Mia suocera, intendo.
Frencesca, e stavolta mi riferisco alla badante, la sto proponendo per la beatificazione. Porta in giro l’arzillissima vecchietta anche tre ore oltre il dovuto, e il pagato. Spesso la fa cenare a casa sua. Le ha comprato una decina di borse, un paio d’occhiali, due o tre maglioni. A spese proprie.
“Tutte ruffianerie”, tuona mia suocera se le ricordo questo affetto gratis. “A quella la devo redimere. Per la servitù ci vogliono metodi duri”.
La servitù? Siamo a Buckingham Palace?
“Sì. Mio marito in vita mia non mi ha mai fatto mancare la serva”.
No, no. Forse parliamo di colonie libiche di mussoliniana memoria.
“Ogni giorno veniva a casa. E io la facevo ubbidire”.
Non risulta alle cronache che mia suocera abbia mai avuto una colf.
“Rigare dritto, devono. Sennò finisce come Frencesca, che mi mette i piedi in testa. Siccome lavora pure con gli anziani del Comune, a lei ci pare che io sono un’anziana del Comune… una vecchia comune… e quindi cerca di convincermi a fare quello che vuole. Invece lo deve capire chi è una vera signora e chi no”.
E siamo tornati a Buckingham Palace.
“Mi vuole portare al centro anziani, a ballare. In mezzo ai vecchi! A me? Ma la faccio ballare io, a questa qua!”.
Con la frusta? A suon di nerbate sui piedi?
“Rigore ci vuole. E, per favore, se ’sta Frencesca se ne va, non voglio assolutamente mericchini in casa (marocchini, nda). Io, nei mericchini, al massimo mi vado a comprare la bigiotteria”.
La vituperata badante Frencesca non ce la fa più. Vuole svoltare. E’ lei che, negli ultimi tempi, tenta di redimere mia suocera. Le vuole dare una svecchiata. Le ha comprato una felpa con cerniera che avvolge i suoi novanta chili per un metro e mezzo, gamba corta su piede minuscolo. Da una parte della chiusura lampo c’è scritto “base” e dall’altra “ball”. Baseball, già. Nero su bianco, letteralmente. E su polsi, collo e orlo, vistose strisce, sempre bianconere. Il tutto completato da fuseaux, calzini candidi e zoccoli neri con i buchi. La svecchiata di Frencesca parte dall’aspetto. Forse per arrivare alle idee.

L’annuncio degli annunci

E’ irritante il circo di dichiarazioni, mobilitazioni, annunci, e annunci di annunci che si sviluppa attorno ad Annamaria Franzoni. Fermo restando che i familiari hanno tutto il diritto di dannarsi e di stare vicino alla condannata come, quanto e quando possono, ciò che mi procura fastidio epidermico è la riflessione senza riflessioni che il caso di Cogne ha innescato. Se si crede in una giustizia terrena, umana quindi ontologicamente parziale, c’è un cancello dinanzi al quale ci si deve fermare. Quello del giudizio definitivo.
Per la misera legge degli umani questa donna è colpevole di infanticidio. Colpevole così così, d’accordo (16 anni sono una tipica condanna italiana per omicidio), ma colpevole. Il rispetto delle vittime, in certi casi, passa per il rispetto delle sentenze.
Ancora ieri i giornali trasudavano pensieri attribuiti alla Franzoni: “Mi mancano i miei figli”; “Potrei chiedere la grazia”. Come a voler insinuare nella pubblica opinione il tarlo del to be continued. No, a questo punto – con rispetto per la condannata – il gioco si ferma. Certi dolori ineluttabili si lasciano nell’alveo dal quale sono scaturiti. Certe iniziative non si annunciano, si prendono.

Sino alla fine

Qualche giorno fa, guardando un servizio del Tg1, sono rimasto colpito dalla brutta cera di un cronista. Era la prima volta che mi accadeva di essere incuriosito, quasi subliminalmente, dal fatto che il volto noto di un giornalista mi sembrava meno noto per via di un appesantimento dei lineamenti, di un colorito pallido. Ho accantonato quasi istantaneamente quel pensiero, con un pizzico di vergogna e di autocritica. “Ti stai rincoglionendo – potrei essermi detto, ma non lo ricordo – che cavolo te n’è fregato mai dell’aspetto dei giornalisti, maschi per giunta!”.
Ieri ho appreso che quel cronista è morto dopo una lunga malattia e che sino alla fine non ha voluto mollare quell’ultimo ormeggio con la vita che era il suo lavoro.
Lo conoscevo soltanto da spettatore, però posso affermare che Paolo Giuntella, quirinalista del Tg1, solo per il suo caparbio attaccamento alla missione di esserci per raccontare, è stato un bell’esempio. Se tutti, come scatole di pomodori pelati, abbiamo una scadenza, non c’è motivo di buttarci giù dallo scaffale della dispensa prima del tempo. E se anche il tempo non è quello che ci aspettavamo, c’è sempre qualcuno a cui quel tempo può essere dedicato nella maniera migliore. Facendo quello che abbiamo sempre fatto sino alla fine.