In fuga dai rompiscatole

È un problema di percezione. Ma anche di sostanza. Ci pensavo l’altro giorno quando un amico mi ha invitato a fare quattro passi (a debita distanza) per parlarmi della sua ipertrofia prostatica benigna. Ma ci avevo riflettuto anche prima quando, una mattina, il mio portinaio, persona di estrema gentilezza e premurosità quindi gran professionista (perché cosa si chiede di più a un portinaio se non di essere gentile e premuroso?), mi aveva trattenuto per due chiacchiere sul tempo “così, tanto per scambiare qualche parola di presenza tra esseri umani”.

Abbiamo smarrito il senso di cosa è realmente interessante.

Il deterioramento delle nostre competenze sociali ha raffreddato il nostro spirito critico o, peggio, lo ha drogato. Siamo irascibili per cazzate e attratti irresistibilmente dal superfluo. Mi è capitato di trascorrere ore per scegliere online una crema al tartufo bianco con cui condire le uova strapazzate. Ore.

E poi il lavoro. A molti star lontano dall’ufficio piace e sognano magari di non tornarci più. Ad altri invece l’ufficio manca come evasione, come diversivo dal tran tran cucina-stanza da letto-soggiorno. Personalmente questo è l’aspetto che meno mi pesa. Sono doppiamente fortunato poiché lavoro a casa o da casa (dipende dai punti di vista) dal 2007, da quando questa pratica si chiamava telelavoro ed era una scommessa senza reti di protezione: quindi sin dal primo lockdown ho immodestamente sfoggiato l’esperienza acquisita per mostrare agilità nelle cose da sbrigare online. E sono fortunato anche perché le mie competenze professionali sono – per convergenza astrale – molto richieste in questi periodi bui (e faccio in modo di condividere questi vantaggi con chi magari è in posizione di difficoltà).

In questa oscillazione di consapevolezza tra ciò che è realmente interessante e ciò che non lo è, c’è però un incontestabile punto di forza. Ci siamo liberati di molte rotture di scatole universalmente riconosciute: recite scolastiche, matrimoni, battesimi, assalti di questuanti, colazioni di lavoro e via indugiando. Il telefono e il computer hanno un pregio, si possono spegnere, possono essere messi KO da un’assenza di campo o da un crollo della linea, certi rompicoglioni di presenza invece avrebbero resistito persino al Napalm.

Ecco, forse in questo modo abbiamo salvato, e magari tesaurizzato, un po’ del nostro tempo.          

Si fa presto a dire smart

Si parla molto oggi di smart working, ma in realtà la pratica non è nuova almeno tra chi, negli ultimi dieci anni, ha provato a mettersi in gioco (confidando nella buona sorte).
Pur senza aver contezza della definizione di smart working ho iniziato a lavorare in questo modo nel 2008. Mi ero appena dimesso dal Giornale di Sicilia ed ero a stipendio zero: insomma ero a un passo dal menù fisso “pane e cipolle” (che a me piacciono moltissimo, ma dal gusto allo stile di vita ce ne passa). Per le giuste convergenze astrali trovai un contratto con Rcs periodici e, a seguire, con Radio Montecarlo e con altri committenti come ghostwriter: insomma scrivevo come un forsennato per chiunque, per qualunque supporto, per ogni destinazione. Fu un bel periodo perché imparai, sulla mia pelle, che il posto fisso non era la sorte scritta per uno come me, scavezzacollo ma borghese, libero ma non dissennato, con una famiglia amorevolmente presente ma non onnipotente (di questo vi dirò un’altra volta perché ci sono risvolti divertenti anche nei momenti più complicati, temo che la mia psicologa sia disposta a pagarmi pur di sentirmeli raccontare). Ho un motivo di orgoglio: nel momento in cui ho fatto il salto più pericoloso della mia vita sono atterrato sui miei piedi. I miei, solo i miei. Ho avuto fortuna.

Volevo l’indipendenza e me la dovevo guadagnare. E c’era un solo modo per fare viaggiare sullo stesso binario libertà, lavoro e sopravvivenza: era lo smart working (che allora non si chiamava così, anzi non si chiamava affatto).
Scelsi contratti agili, leggeri anche dal punto di vista economico. Capii prima di ogni moda e qualche emergenza che esisteva un altro modo di lavorare. Forse mi aiutò una sana incoscienza, i miei più cari amici sanno di cosa parlo: sono loro che mi hanno sopportato nelle lunghe sedute di autocoscienza disperata, sono loro che mi hanno invitato a cena persino oltralpe quando nella mia terra in pochi mi calcolavano, sono loro che mi hanno letto e corretto, sono loro che hanno saputo distrarmi in serate complicate.
Lo smart working ante litteram, figuratevi quello di adesso, aveva tre grandi incognite: responsabilità, libertà, capacità di rinuncia.
Responsabilità. Chi sceglie di lavorare da casa deve accettare di produrre senza controlli intermedi (vallo a raccontare ai sindacati che ancora sono al paleolitico della concertazione). Quello che conta è il risultato (e le garanzie che sia raggiunto senza violare alcuna legge, of course).
Libertà. Essere liberi è la cosa più difficile. Tra il non fare un cazzo e lavorare quel che basta, coi ritmi anche serrati che servono, c’è una differenza che si misura col grado di maturità (purtroppo non previsto da nessun articolo di contratto di assunzione). E soprattutto c’è da superare la più atroce delle prove, quella della competenza e dell’abilità.
Capacità di rinuncia. Se si sceglie di lavorare da remoto si costa meno. Per quanto è scritto sopra e soprattutto per quanto è scritto sotto.
Se la tua presenza fisica si può sottrarre, sei fortunato. Se sei in grado di sopportare una tale deresponsabilizzazione non sei completamente pazzo. Se qualcosa è gratis, rassegnati: la merce sei tu.