Il balconcino del nevrotico

Ci sono periodi in cui sento il bisogno di staccare i fili. Mettere fuori posto il telefono che mi collega con il mondo e sedermi per un bel viaggio nella mia personale macchina del tempo. Nello specifico, la macchina si compone di un divanetto piazzato di fronte al balcone dello studio dove ho arrangiato una mini-foresta che, in materia di innesti, farebbe la gioia del dottor Frankenstein. Vi si contemplano nell’ordine: un gelsomino cinese costretto a difendersi dalle spine di tre varietà di cactus; un ficus avvolto dalle spire pellicciose di un abete nano (ho deciso di chiamarlo così: su internet non vi è traccia di qualcosa che gli somigli); una lantana che appassisce e resuscita ogni due giorni; un alberello di ulivo ipertrofico e un oleandro convalescente che, reduce da un assalto di pidocchietti verdi, ha preso slancio e, come per ripicca, minaccia di invadere l’appartamento del piano di sopra. Vedendomi armeggiare ogni due giorni con flaconi di concime liquido, sangue di bue e innaffiatoio (ho l’ansia di accelerare il rigoglio della mia piccola Amazzonia), mia moglie ha parlato di “balconcino del nevrotico”.
Non ha tutti i torti. Le piante, oltre che bellezza, mi regalano un senso di protezione. Formano una barriera non invadente tra me e la città oltre la ringhiera. Dalla mia postazione sul divanetto, mi offrono una versione della realtà ormai passata di moda. Rami invece di antenne. Cortecce e steli sugosi al posto di cavi schermati. Cupole di fogliame contro antenne paraboliche. Fruscio di boschetto in sostituzione di trilli di cellulare. Di tanto in tanto, arriva persino un pettirosso maleducato: ha deciso che la terra dei miei vasi è la più saporita del circondario e, becchettando in cerca di Dio sa che cosa, ne semina una buona metà sulle mattonelle. Lo lascio fare. In un viaggio nel tempo come si deve, un volatile in piume e ossa – non di quelli a batteria che gli ambulanti cinesi ti fanno cinguettare sotto il naso al ristorante – ci sta benissimo.
La mia crociera proustiana da fermo contempla anche il silenzio – fra le due e le tre del pomeriggio se ne trova ancora – e, più spesso, la musica. Metto su Morricone (il Morricone meno frequentato, quello à la Cage dei primi tre film di Dario Argento, e i Goblin, o qualcosa di Robert Wyatt, oppure di Emerson Lake & Palmer). A basso volume: deve essere un bisbiglio. Mia moglie, facendo capolino, mi dice che le sembra di entrare in una cinquecento degli anni ’70 con lo stereo otto a pieni giri.
Non ha tutti i torti nemmeno in questo caso. La mia macchina del tempo fa spesso sosta da quelle parti, nell’ultima zona della memoria in cui ritrovo un pallido ricordo di cose che non ci sono più. Il libero esercizio della solitudine, senza l’assillo di un telefono indispensabile anche quando non serve a nulla. La televisione che va a letto presto. Nicoletta Orsomando era in bianco e nero, la realtà a colori. Youtube? Un accessorio idraulico di marca inglese.
Oggi, sul Corriere online, leggo almeno tre notizie di denunce che hanno a che fare con la violazione della vita privata di persone più o meno famose, e più o meno dello stesso tenore. La più indigesta è quella che riguarda una potenziale miss Italia, rovinata dagli scatti di un fidanzato vendicativo che ha diffuso su internet istantanee della poverina seminuda, ignara, nell’atto di farsi la doccia. Insomma, un po’ come alzare a sorpresa la serranda e offrire pelle e vergogna di una persona in pasto a un vicinato abnorme, composto da qualche milione di dirimpettai arrapati.
Con un paio di lantane e un gelsomino cinese di mezzo, avrebbero semplicemente litigato.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

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