Da Almendralejo a Merida
Da Merida a Aljucén

Sono stati due giorni faticosi. A parte le temperature oltre i 40 gradi ci si è messo pure lo stato dei sentieri, non troppo curati in questi primi duecento chilometri della Via de la Plata. Più volte in questi giorni mi è capitato di ritrovarmi immerso nelle sterpaglie o perduto in vie morenti contro un muretto a secco. Ieri in una tappa che era classificata come facile – mai dire facile fin quando non hai tastato con mano (o con piede) – mi è capitato di dover scegliere tra un improvviso fiumiciattolo fangoso e la deviazione attraverso il corridoio di rovi che mi aveva gentilmente accompagnato sin lì. Ho scelto le spine guardando il cielo e cercando l’incoraggiamento di uno che con le spine ebbe a che fare ben prima di me ma che non mi cagò di striscio, com’è giusto che sia (e così sia, amen). Non apro il dibattito sui motivi della mia scelta giacché prima di intervenire dovreste aver provato l’effetto del fango imperituro dentro le scarpe: roba che al confronto i graffi sulle gambe sono carezze.

Oggi invece ho sperimentato l’effetto forno statico: 40 gradi, zero umidità, i peli del tuo corpo che vibrano a ogni refolo di aria, la protezione mille della tua crema antisolare che si dà malata, le mosche che piluccano le tue carni a cottura media ma alla fine non disdegnano l’avambraccio ben cotto tipo zampone di Capodanno. 

Dopo molti cammini, dopo migliaia di chilometri macinati in questi anni tra Spagna, Francia, Italia e Portogallo, oggi ho riscritto la mia tabella dell’acqua. Generalmente a pieno carico, cioè con uno zaino di dieci chili, riesco a farmi bastare un litro per dieci chilometri. Parliamo ovviamente di condizioni atmosferiche umane e di percorsi non estremi (non certo tipo la salita di 22 chilometri nella prima tappa del Cammino Francese, indimenticabili Pirenei). Con 40 gradi oggi ho capito che la soglia di sicurezza non deve scendere sotto il litro ogni cinque chilometri. Non vi voglio amminchiare con questi calcoli – anche perché ho qualcosa di più divertente che vi avevo annunciato – però a certe temperature e con questi livelli di impegno fisico (alla mia età) il segreto è bere prima di aver realmente sete. Per dire: oggi avete sofferto per recuperare l’auto nel parcheggio sotto il sole cocente, immaginate se quel parcheggio fosse stato distante venti chilometri e se sulle spalle vi foste portati brandina e ombrellone.

E ora andiamo alle questioni di urente e cruda attualità. 
Cosa cazzo mangio.

Nel corso di tutti questi anni ho cercato di spiegarvi le mie paturnie alimentari. Riassumendo, ma proprio riassumendo. Non mangio carne e pesce per ragioni che hanno a che fare col gusto, niente rimandi ecologisti e/o animalisti. Ripeto: questione di gusto, da sempre. Ci sono tutta una serie di eccezioni che da tempo immemore mi procurano discussioni estenuanti col rompicoglioni di turno – “allora non sei vegetarianooo!” dice con lo sguardo di quello che finalmente ti ha inchiodato al muro delle sue minchiate – e che riguardano il pesce non a forma di pesce, alcuni salumi, uova, formaggio e via distinguendo.
La maggior parte delle volte non è un problema. Ma capita che, com’è accaduto qualche sera fa, la comunicazione si faccia difficile.

Cercavo di spiegare al cameriere che nell’insalata ci volevo dentro solo vegetali con le eccezioni di cui sopra – gli spagnoli sono famosi per insalate ricchissime di altro – e, sarà stato il mio dire perentorio o la calura sovrastante, questa cosa lo ha destabilizzato. Nel trasmettere la comanda in cucina è tornato una prima volta. Uova? Sì. Un’altra. Formaggio? Sì. Un’altra. Tonno? No, e che cazzo. Un’altra. Pollo? No, lo mangio solo se è petto stracotto, duro come il cuoio e con le patate (ma non gliel’ho detto per timore che mi profilasse come serial killer). Un’altra ancora. Prosciutto iberico? Certo! 
A questo punto si è materializzato il cuoco in carne (tanta e non edibile) e coltello (da prosciutto, almeno così speravo). Ha poggiato polsi e lama sul mio tavolo e mi ha detto pressapoco: senti, hai deciso di farmi impazzire stasera?

È finita con un paio di battute in spagnolo italianizzato in cui il tizio armato correggeva gentilmente la mia classificazione da vegetariano in rompicoglioni internazionale (in ciò riscuotendo una ola immaginaria da parte dei miei amici che mi sopportano da secoli). Da segnalare mancia abbondante al cameriere che ha riso tanto da lasciar cadere un piatto dalle sue mani.

8 – continua

Di Gery Palazzotto

Uno che scrive. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

4 commenti a “Fango, spine e coltelli: che scegliere?”
  1. Caro Gery, mi sono chiesto più volte, in questo periodo torrido e sapendoti sulla graticola , come si gestisce il capitolo acqua. Ti carichi di acqua? Vi sono abbeveratoi segnati sul percorso? Ma non era meglio un trekking sul col de l’iseran? Capisco che vi sono molti modi per avvicinarsi al proprio limite! Comunque, sono con te.
    Saverio P

    PS (è da un po’ che mi diletto leggendo i tuoi reports). Ti abbraccio

  2. Saverio caro, dici bene: ci sono molti modi di avvicinarsi, divertendosi, al proprio limite. stavolta ho scelto questo, non certo per il clima bensì per completare il ciclo dei grandi canmmini di queste lande. Dopo il Francese, il Cammino del Nord e il Portoghese, la Via de la Plata era quel che mi mancava. L’acqua, come puoi leggere, è il grande problema di questo itinerario di mille chilometri (ma io non arriverò a Santiago perché ci sono stato molte volte ed è un bazar turistico molto affollato). Mi carico dei litri che servono di tappa in tappa e non faccio affidamento sulle fonti, che non esistono qui.
    Tu, che sei stato compagno di molte avventure in gioventù, puoi capire bene cosa mi spinge. Sono felice che tu mi legga. E ti abbraccio.

  3. […] Ho spezzato una tappa impossibile (con questo clima) che doveva portarmi a Càceres , quasi 38 chilometri, e ho scelto di fermarmi a Valdesalor, un paesino il cui fresco fa perno sulla piscina comunale. Due euro di ingresso e sei nel paradiso di un inferno di mosche e terra arsa. La piscina comunale è soprattutto l’unico posto in cui, nel raggio di una decina di chilometri, trovi da bere e mangiare. E qui va detto che gli spagnoli, soprattutto quelli dell’Estremadura, hanno orari ferrei. La cucina apre alle 14 per il pranzo e alle 21 per la cena, prima non hai dove andare, ti rimbalzano anche se ti vedono stecchito. Insomma ceno dopo un’attesa di cerveza, gelata e abbondante. Poi in qualche modo mi adatto all’imperturbablità degli abitanti di queste lande che, anche con 40 gradi, mangiano serenamente un plato combinado di lomo (maiale), uova e patate fritte (come solo gli spagnoli sanno cucinarle, patate e uova). Il maiale lo evito, ma questo è argomento che abbiamo già affrontato. […]

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