Questa storia ha a che fare un po’ con la mia biografia, ma non vi scoraggiate. I rimandi alla mia vita personale – ridotti per quanto possibile – servono per illustrare un contesto che riguarda l’evento più popolare della televisione italiana, il Festival di Sanremo. E soprattutto sono indispensabili per dare un senso meno assoluto al titolo di questo post.
Prendo un respiro e comincio (occhio perché ci sono molti link che vi consiglio di non perdere).
Quando il primo febbraio 1988 fui assunto al “Giornale di Sicilia” ero critico musicale da quattro anni (venivo da una meravigliosa esperienza a Radio Rai). Infatti mi presero per andare al lavorare alla redazione Spettacoli, con due persone preziose: Arturo Grassi e Totò Rizzo (c’era anche Bent Parodi, ma mi snobbava soprattutto perché avevo l’orecchino, i capelli lunghi e pantaloni color arancione). Esco dalla parentesi solo per ammettere che l’arancione era giustificato dal mio estemporaneo infatuamento per una fanciulla biondo-dotata che aderiva alla setta di Bhagwan Shree Rajneesh e che più che un pegno di amore era un passepartout per la felicità in una stanzetta vista mare in provincia di Trapani.
Insomma ero critico musicale. Avevo girato l’Italia recensendo il meglio di quella musica: Bruce Springsteen, Peter Gabriel, Eurythmics, Prince, Pat Metheny, Miles Davis e via suonando. Avevo anche fatto un po’ di casino alla conferenza stampa del primo tour italiano dei Duran Duran. Ma la verità era una sola, incontrovertibile: mi meravigliavo che mi pagassero per fare quello che amavo, ascoltare musica e scriverne (ho un passato di chitarrista rock, un po’ ve l’ho raccontata questa una storia).
Mi assunsero per andare nella redazione Spettacoli. E non ci inciampai manco un’ora dato che, per le imperscrutabili vie del destino, al mio primo giorno di lavoro (ufficiale, da praticante) ci fu un’emergenza alle Cronache Siciliane. Dove incredibilmente rimasi, diventandone poi capo, per vent’anni. Ciò però non mi impedì di continuare a coltivare la mia passione per la musica, scrivendo di concerti e (oserei dire naturalmente) del Festival di Sanremo.
Insomma lavoravo venti ore al giorno: mattina, pomeriggio e sera per le Cronache Siciliane (ancora prima delle grandi stragi di Palermo si sparava da Gela a Trapani senza lesinare sulle pallottole) e la notte, quando non c’era un eccidio a Catania, nei teatri e nelle sale da concerto di mezza Sicilia. In certi casi col mio amico Maurilio Prestia recensivamo anche due concerti a sera e poi via di notte a Mondello a impastare chiacchiere, birra, panini al cartoccio e sigarette.
Comunque, anno dopo anno, c’era sempre un Sanremo da seguire in tv, dal giornale o da casa, solo o in compagnia, e c’era da scrivere il pezzo per la ribattuta notturna, un esercizio di acrobazia giornalistica in cui il tempo si contraeva più dello spazio in funzione della notizia: mica c’era la canea dei social, allora c’era il rispetto per la realtà delle cose affidato a chi aveva studiato per saperlo gestire. Piombo di rotativa e fegato di ferro, bastava poco.
Così mi feci una decina di Sanremo, tra l’abolizione del playback e il ritorno dell’orchestra, tra un Baudo e l’altro, tra cavalli pazzi che minacciavano il suicidio e il voto col Totip. Poi Totò Rizzo ebbe la fortuna di essere inviato sul posto e io, mangiandomi le mani, tornai ai miei morti sparati senza manco un do di petto (loro, non io, il do intendo).
A questo punto ci va un: ecco perché.
Ecco perché da qualche anno non mi interessa più guardare il Festival di Sanremo. Non perché ravveda uno scadimento di qualità o chissà quale altra nota triste e nostalgica, ma solo perché non mi diverte più. Il fatto che possa giudicare come di merda il 70 per cento abbondante della proposta musicale italiana contemporanea non influisce sul mio interesse per lo spettacolo del Teatro Ariston. Perché è proprio lo spettacolo che vola lontano da ogni mio residuo di curiosità. L’attenzione spalmata sulle timeline, l’analisi dei testi con l’intelligenza artificiale, gli aggiornamenti live su ogni strapuntino social non fanno per me. Ci ho provato in passato, per anni, ma non mi sono divertito: è il difetto delle sveltine, quando la consolazione diventa unico elemento di sollievo c’è un problema di unità di misura.
È un po’ come quando l’amore finisce (e siamo in zona San Valentino quindi sto sul pezzo): non ti importa cosa fa l’altro, l’importante è che lo faccia lontano da te.