Molti anni fa proprio in questi giorni di gennaio – lo ricordo perché ero in zona compleanno e purtroppo i compleanni sono ineluttabili (a forza di compleanni si muore) – lasciavo la casa dei miei genitori e andavo a vivere da solo. Credo che andare a vivere da solo, mollare gli ormeggi e navigare in mare aperto, sia uno dei passaggi cruciali nella vita di una persona. Più di altri, tipo il primo giorno di lavoro o, date certe urgenze anagrafiche, l’ultimo. Ricordo bene proprio il momento in cui svuotai l’ultimo cassetto della mia cameretta e buttai l’ultima cartaccia con un appunto scritto a mano (ho sempre avuto l’abitudine di scrivere dappertutto, su ogni supporto fisico e non).
Ricordo anche che nello stesso periodo mio fratello fece la stessa scelta e che un giorno mia madre rientrò a casa, si rese conto che i suoi ragazzi avevano imboccato un bivio cruciale della vita, e stimò opportuno piangere com’è giusto che una madre pianga in questi frangenti: discretamente e senza clamori. Me lo raccontò per telefono. E, come accade in certi frangenti in cui i sentimenti si abbracciano per complicate e meravigliose alchimie, finimmo per riderci su mischiando lacrime e ironia.
Immagino che molti di voi – azzardo, tutti – ricordino il momento in cui hanno spiccato il volo, quel volo. E immagino anche lo spiazzamento quando vi siete trovati a essere voi nido cioè a essere voi quelli che rimangono, mentre qualcun’altro se ne va.
È un argomento che approfondirò nel podcast “Astenersi perditempo”, che sarà online venerdì: mi piacerebbe aggiungere la frase “come di consueto”, ma siamo ancora alla seconda puntata e la prima è stata pubblicata con un giorno di anticipo, di giovedì, quindi azzardare convenevoli è quantomeno incauto.
In realtà qui la mia riflessione è legata a un ambito molto più ampio. Che è quello dell’improvviso desiderio di fare da soli.
Da solista indefesso (cosa ben diversa dall’essere solitario) ho sperimentato varie forme di autonomia: lavoro, sentimento (l’amore più solido è quello che regala autonomia), sport, interessi vari.
Me lo ricordo quando ho capito che era questa la mia strada. Ero felice e in compagnia, però ebbi finalmente chiara la teoria dell’uscita di sicurezza (una fulminazione tipo quella del “flusso canalizzatore” di Doc Brown).
Fare da soli non esclude il farlo con altri, però ti libera dalla tara di partenza per cui senza la compagnia non saresti dove sei, come sei, eccetera. È la noiosissima tiritera del “dietro un grande uomo ci sta una grande donna”, del “senza di me saresti nulla” e via citando. A proposito, andatevi a leggere un po’ di citazioni sulla vita di coppia, vedrete che la maggior parte di quelle più dolciastre sono di persone che hanno distrutto il loro matrimonio.
Insomma quando decine di anni fa andai a vivere da solo non fuggivo da nulla, non inseguivo nessuno. Semplicemente pensavo che la realizzazione passa attraverso scelte non sempre comode. Una vita sempre in discesa oltre che noiosa sarebbe anche pericolosa. È stato così che, prendendo spunto dai miei sport preferiti, ho cominciato a sviluppare il senso di equilibrio più che i muscoli, la solidità di un pensiero ramingo più che il mainstream, lo sguardo nel buio più che nello scintillio. E strada facendo ho cambiato case e mi sono tirato fuori da qualche casino che ormai non ricordo più: il bello di fare da soli è che sei libero di dimenticare quanto vuoi.