L’articolo publicato su Repubblica Palermo.
C’è un incrocio di insopportabili luoghi comuni alla base del grande scandalo degli esami istologici a Trapani. Le frasi sono: “Il cane non è mio” e “dove arriviamo mettiamo punto”. Da un lato l’inaudita deresponsabilizzazione dinanzi a un problema che, lo scopriamo giorno dopo giorno nelle sue più tremende ramificazioni, aveva assunto un carattere endemico. Dall’altro l’irritante sospetto che alcuni medici, con la scusa di essere pochi, avessero deciso di lavorare meno: e qui il detto potrebbe prevedere una variazione tipo “dove arriviamo mettiamo punto, magari un po’ prima”.
Ciò che rende davvero grave questa vicenda, tecnicismi amministrativi a parte, è la lettura in filigrana di un concentrato delle più malsane abitudini della burocrazia siciliana. Dietro questa sanità negata infatti c’è tutto un sistema di insofferenza al controllo, di minimizzazione, di lasciar correre. Gli esami arretrati che il manager avrebbe sottostimato a 300, quando in realtà sarebbero stati 3.300, cioè un numero undici volte superiore mica bruscolini, e la continua fuga dei medici che appena assunti se la danno a gambe sono solo due indizi di un malfunzionamento e di una inadeguatezza gestionale per i quali non servirebbero gli ispettori del ministero, ma basterebbero occhi che vogliono vedere e teste che vogliono decidere. E non c’è neanche da imbastire polemiche politiche – è facile mostrare i muscoli per intestarsi una crociata quando il campo di conquista è stato distrutto dall’imperizia e dal menefreghismo dei tuoi stessi soldati – c’è solo da guardarsi intorno, raccattare l’ultimo grammo di buona creanza, mandare tutti a casa. E metterlo, finalmente, ‘sto benedetto punto.