Non chiamiamoli scrittori

scritturadi Raffaella Catalano

Sono dell’idea che un romanzo ben scritto non possa prescindere da un editing professionale. E non perché faccio l’editor di mestiere, ma perché sono decisamente contraria alle varie iniziative promosse da siti e pseudo-editori che si limitano a stampare testi inediti senza nemmeno leggerli. Un caso clamoroso, ma non certo unico, è quello del sito ilmiolibro.it che fa spendere soldi a chiunque per “pubblicare” romanzi, racconti, saggi e poesie inqualificabili, si fa pagare un bel po’ di soldi dai clienti (non posso chiamarli autori, per rispetto degli autori veri) e soprattutto crea in chi si vede stampare un libro in quel modo selvaggio l’illusione di essere uno scrittore. Illusione che crolla – tranne casi rarissimi, che in quanto tali fanno notizia – quando il presunto Eco o Sciascia che ha pubblicato a suon di euro si trova al cospetto di una casa editrice vera, che legge, seleziona e corregge. Chi viene dall’esperienza prezzolata, la inserisce persino nel curriculum, quindi ci crede. E poi risulta sempre resistente, se e quando trova un editore serio disposto a prendere un suo inedito in considerazione, a qualsiasi intervento correttivo al suo testo. Perché ritiene che quel titolo in bibliografia – la dispendiosa opera prima con Pinco Palla Edizioni – gli dia la patente di autore che tutto sa, e che quindi non ha bisogno di nulla e di nessuno.
Per l’ennesima volta (l’ho fatto altrove, in interviste e articoli) mi permetto di sconsigliare a chicchessia di pagare per pubblicare, e di aspettare, invece, di essere pagato. E’ così che funziona. E’ così che si diventa scrittori. E vorrei suggerire anche di stare ad ascoltare chi lavora al servizio dei narratori, cioè editor ed editori, che con un po’ di esperienza e le dritte giuste magari non lanciano il nuovo genio della letteratura, ma almeno formano l’autore o lo affinano, e soprattutto non lo offrono scientemente al pubblico ludibrio. Io per prima confesso che sghignazzo quando leggo i pasticci letterari degli aspiranti scrittori su ilmiolibro.it, su siti analoghi o su alcune rivistine per esordienti. E di ridere non mi pento affatto. Anzi penso: peggio per loro. Mi dispiace solo che gettino via i soldi e con quelli anche i sogni di (vera) gloria. Ci vuole umiltà per crescere, ci vogliono indicazioni per trovare la strada. E’ nocivo farsi paracadutare a pagamento in mezzo a un traffico già sin troppo caotico. Infine, due parole anche per alcuni editori poco scrupolosi o con il portafoglio cucito: non affidate i vostri autori a editor improvvisati che si fanno pagare 50 euro per correggere un romanzo di 800 pagine. Se accettano cifre da saldo stagionale vuol dire che non sanno fare il loro mestiere e prendono in giro voi e i vostri autori. Un buon lavoro costa, in tutti i sensi. A chi lo fa e a chi lo paga.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

59 commenti su “Non chiamiamoli scrittori”

  1. Ma se uno ha una storia che ritiene scritta bene e che, per motivi a lui ignoti, nessuna casa editrice vuole pubblicare che cosa deve fare allora?

  2. @anonimo: probabilmente quella storia non è valida e l’autore non se ne rende conto. Gli editori non sono sprovveduti: se hanno per le mani un buon romanzo, difficilmente se lo lasciano scappare. Con qualche eccezione, ovviamente. Ma è molto più frequente, abbozzando una statistica, che siano gli autori a sopravvalutarsi e non gli editori a essere ciechi.

  3. Il problema è che a molti aspiranti scrittori sfugge un elemento fondamentale del salto dal dilettantismo al professionismo: un’opera non “esiste” finché non passa attraverso il confronto (approvazione, critica, rifiuto) di gente che ha esperienza sul campo. E’ una realtà che spaventa, che annichilisce l’ego, ma si tratta di un’esperienza necessaria. Ritenere che si sia scritto un capolavoro (sicuramente incompreso) e prepararsi a combattere contro il mondo che nega questa verità personale (dunque parziale), è il piede più sbagliato per partire. Scriviamo innanzitutto per noi stessi, è vero, ma c’è un passo successivo, in cui bisogna sempre tenere presente che quel “noi stessi” non significa “il mondo”. E che la destinazione naturale di un libro è proprio “il mondo”. I siti e gli editori che spacciano per pubblicazione la semplice messa “online” di un testo fanno un’operazione che non ha niente a che vedere con la vera editoria. I commenti al libro arrivano, 90 volte su cento, da amici, parenti dell’autore o da altri autori che si trovano nella stessa condizione: legati da una sorta di sotterranea solidarietà al collega di quello che definirei il “club degli illusi paganti”. Di fatto l’opera letteraria, in questa veste, non attraverserà mai le forche caudine dell’editor, che ha a cuore la qualità del proprio lavoro, dei critici, dei lettori sconosciuti e paganti (e quindi senza riserve nei giudizi). Questo non significa essere scrittori. Significa convincersi di esserlo.

  4. In generale dico agli aspiranti scrittori che hanno collezionato solo rifiuti: spesso desistere è molto più coraggioso che resistere.

  5. aggiungo: brava Raffaella. Sei molto onesta nella tua argomentazione, e per questo a molti risulterai crudele. Ma, in certi settori, meglio un onesto crudele che un fanfarone bonario.

  6. Un mio amico ha pubblicato con ilmiolibro.it. E’ proprio come dici tu. Ha speso un sacco di soldi e non ha concluso nulla. Gli ho mandato questo bel post così magari si chiarisce un po’ le idee.

  7. Sottoscrivo le ragioni di Raffaella e premetto che non affiderei un mio scritto, nè letterario, nè scientifico, ad un servizio di print on demand.
    Voglio però aggiungere che miolibro.it o lulu.com, o BookSurge (e ancora prima in Italia lampidistampa.it) sono fenomeni di self publishing che non sempre implicano il fenomeno nudo e crudo dell’ “editoria a pagamento”. Giuseppe Genna è un autore Mondadori molto apprezzato, eppure ha scelto lulu.com per pubblicare un suo romanzo: “Medium”. La scelta di Genna è complessa, e rimando al suo sito per comprenderne le ragioni: http://www.giugenna.com/medium.html
    E’ un’eccezione, è vero, ma trovo interessante tenere sott’occhio anche altri aspetti del fenomeno autopubblicazione – di mercato, di editoria digitale, di ideologia, persino- che non siano legati sempre e solo alla facile illusione di credersi “scrittori” scucendo il vile denaro.

  8. Che bel post, Raffaella!
    Trovo che l’idea di pagare per farsi pubblicare qualcosa sia espressione di puro narcisismo, egocentrismo e ottusa smania di protagonismo.
    Del resto, siamo nell’era della “fama senza fatica” (leggi Amici della De Filippi, Grande Fratello…), non mi stupisce che anche l’editoria si adegui alle esigenze di un mercato qualunquista proponendo siti come “Ilmiolibro”.
    A proposito, consiglio a tutti la lettura del giallo-noir “Boldoni indaga” di Fabrizio Pescara, costo 8,50. Lo trovate, appunto, su ilmiolibro.it. Basta l’anteprima per farsi un’idea precisa di cosa stiamo parlando. Sebbene anche “il gatto Arturo” di Terry Giannotta…

  9. @ gery e la contessa: grazie mille.
    @rosa maria: dietro la faccenda di Genna c’è un progetto, un’idea, e quindi è un’altra faccenda. Nella maggior parte dei casi, invece, su ilmiolibro.it e altrove c’è solo l’ostinazione a pubblicare qualcosa che non merita di vedere la luce. C’è gente che non conosce nemmeno l’ortografia. E’ questo atteggiamento che contesto. Non l’ha mica prescritto il medico che bisogna pubblicare. Si legga di più e si scriva di meno. Sarebbe salutare.

  10. Come giustamente segnala la contessa, leggete quei due pseudo romanzi su ilmiolibro.it e sarà facilissimo rendersi conto di cosa sto dicendo.

  11. Il tuo post è molto chiaro e condivisibile, Raffaella. E comprendo bene cosa intendi per “ostinazione”, purtroppo. Io adoro scovare aspetti meno scontati della cultura digitale e ti assicuro che, anche in ambito creativo, ce ne sono di molto interessanti. Sarebbe bello parlarne (scriverne) di più…

  12. Molti anni fa, un editore famoso e raffinato con cui stavo parlando bollò come “questuanti” la maggior parte di coloro che gli inviano romanzi inediti. Io pensai che fosse crudele (perché irrispettoso della fatica che sta dietro un’opera letteraria) e ingrato (perché ritenevo che gli aspiranti scrittori costituissero sempre e comunque una ricchezza per una casa editrice). Ma all’epoca non facevo questo mestiere. Col tempo e col lavoro ho cambiato idea: non sempre dietro un romanzo ci sono sudore, impegno e passione. Nel 90% dei casi ci sono solo autori fanfaroni e del tutto ignoranti che buttano giù quintali di pagine senza sforzarsi nemmeno di imparare le basi della grammatica. E non si arrendono neanche al decimo rifiuto, continuando a produrre e a proporre senza mai preoccuparsi di migliorare, gonfi di presunzione come sono. Chiunque voglia avere prova di quello che dico, venga a casa mia e spulci tra i dattiloscritti accatastati.

  13. Io vorrei dare un consiglio semplice semplice a tutti gli aspiranti scrittori. Se proprio dovete spendere dei soldi, compratevi dei libri che parlino di scrittura. Siamo nel 2009, molte cose pratiche dell’attività quotidiana dell’artista non sono più un segreto. Poe, duecento anni fa, parlava già di carrucole e cavi che stanno dietro le quinte di un racconto o di una poesia. Qualcuno lo accuserebbe mai di non essere un artista puro?
    Struttura, personaggi, tabelle di marcia dello scrittore. Ci sono libri che ne parlano. So che i manuali ispirano gran diffidenza, soprattutto quando sono legati alla creatività, ma mettere in atto la creatività significa anche (e soprattutto) avere coscienza del lato pratico della questione, che esiste. Sottolineo: avere coscienza, non credere che questi libri siano la bibbia. Ce ne sono di ottimi. “On writing” di Stephen King l’ho citato varie volte. “Story” di Robert McKee è a mio parere un caposaldo. Parla di sceneggiatura, ma fornisce competenze che funzionano ottimamente anche in narrativa. Merita un’occhiata anche “la sceneggiatura” di Syd Field. Superate le puzzette sotto il naso, il pregiudizio che gli americani sono commercianti, venditori di ricette e non artisti. E’ gente che, sulla scorta della propria esperienza, ha capito profondamente l’essenza del lavoro di narrazione e la trasmette senza intellettualismi né aria fritta. L’idealismo viene dopo i ferri del mestiere. Leggendo questi libri, se non altro, ci si renderà conto di quanto lavoro, quanto scrupolo, quante astuzie, quanta esperienza e umiltà da artigiano bisogna acquisire prima di dire: “ho scritto un romanzo”. Assorbite da questi testi quello che vi sembra utile e mettetelo da parte. Ripeto: il mestiere non è un fattore secondario. E’ tutto o quasi. La tanto mitizzata ispirazione fa parte di un millesimo del lavoro dello scrittore. Il più è lavoro di lima, scelta, coscienza, prima e dopo la stesura.
    Tornando al nostro argomento: in questi saggi ricorre una frase, che andrebbe scolpita nella pietra. Scrivere significa riscrivere (ed ecco a che serve l’editor). Non leggerete certo che scrivere significa apparire.

  14. @il cacciatorino: per alcuni sarebbe meglio prima iscriversi alle elementari.

  15. Una postilla d’obbligo: leggete sempre, leggete di tutto, fate l’orecchio al ritmo, al suono delle parole, al modo in cui i vari autori impostano le loro “sinfonie”. Scrivere è come fare musica. E avete mai sentito di un musicista bravo che si mette a comporre cose indimenticabili dopo aver sentito in vita sua solo i “Cugini di campagna”?:

  16. @raffaella: nel libro di Stephen King si contemplano anche casi disperati del tipo che citi tu. E si consiglia proprio un libro di grammatica elementare!

  17. questo post dice cose giuste, ma mi puzza tanto di snob…
    In tempi di autobiografie di Cassano, di derivati camilleriani, di figli abortiti di Stocker, secondo me me bisogna lasciare una speranza a chi si accosta con amore alla scrittura.
    L’editore famoso e raffinato deve mettere in conto di prendere qualche bufala, e magari qualche questuante da lui rifiutato sarà il prossimo caso letterario…
    Comunque sono in linea di massimo d’accordo con il senso del post, ma la forma non mi garba.
    Mi dispiace… troppo snob…

  18. @ Fabio: lo scrivi tu stesso: bisogna lasciare spazio a chi si accosta “con amore” alla scrittura. Non con ignoranza e presunzione.

  19. @fabio: credimi, e lo dico per esperienza: nessuno è più snob di un aspirante autore che rifiuta l’idea che il suo testo non possa essere pronto per la pubblicazione. E che non accetta il saggio consiglio di lavorare di più per ottenere un risultato decente. Cassano che “scrive” è un esempio eccezionale, esattamente come quello del “fenomeno letterario” incompreso che citi. Nel primo caso, si tratta di operazioni di marketing che esulano da qualsiasi criterio letterario (e le case editrici campano anche di operazioni marketing). Il secondo caso è così raro che non fa parte della “normalità” del lavoro editoriale. Qui si sta parlando di artigianato, dell’umiltà di rimboccarsi le maniche e imparare il mestiere prima di credersi (e pretendere che gli altri ci accettino come) artisti. Direi che è tutto fuorché un discorso snob. Se poi essere snob significa dire chiaro e tondo a qualcuno (e per il bene di tutti): non hai lavorato abbastanza, non sei pronto, allora viva gli snobismi. Voglio ribadire che, per quello che ne so, l’editore famoso è tale perché non si ostina a essere sempre e a tutti costi raffinato, ma l’opera raffinata (o efficace) raramente gli sfugge. E infine: non basta accostarsi con speranza e amore alla letteratura. Bisogna avere amore (quindi sforzarsi di mettersi alla prova mille volte e accettare le critiche) soprattutto quando la si fa. Un aspirante che dice: sono un genio e gli editori non mi capiscono, senza nemmeno chiedersi in cosa ha toppato e se si può correggere, non mostra rispetto né per la letteratura né per se stesso. I camilleriani, gli abortiti di Stoker etc. non li liquiderei così facilmente: spesso si tratta di autori che non saranno geni o fini intellettuali impegnati, ma padroneggiano il mestiere e hanno un’onestà che tanti autori con il blasone d’impegno della nostra letteratura se li sognano. Non sempre successo di pubblico, commercialità o sfruttamento di un filone vanno di pari passo con disonestà intellettuale o mancanza di amore per la scrittura. Io, sovente, a cento palloni gonfiati dalla critica preferisco un bravo mestierante.

  20. @Fabio: A proposito di stokeriani, suppongo che ti riferisci a Stephanie Meyer. Bene, io ho una cuginetta di 14 anni, molto intelligente e con un spirito critico precoce, molto spiccato, che si è innamorata della serie Twilight. Grazie alla Meyer ha cominciato a leggere romanzi, e passerà ad altro, prima o poi. Entrare nel mondo degli adolescenti con la forza della pagina scritta, attirarli in un mondo che li affascini è per me un’operazione difficilissima, che richiede sensibilità, grande fantasia e totale conoscenza dei “ferri del mestiere”. Ciò che sembra semplice e banale a un primo sguardo, funziona bene e ottiene dei risultati perché banale e semplice in realtà non è. C’è spessissimo un grande lavoro dell’autore dietro un’opera che ha successo globale. Il marketing da solo non sempre basta, e non fa miracoli. Il marketing spinge all’ennesima potenza ciò che, di base, funziona. Io, per esempio, non saprei scrivere un romanzo come quelli della Mayer, ma non me ne vanto. Anzi, ne faccio un punto d’onore per una scrittrice che padroneggia certa materia meglio di me e, non ho dubbi, con una buona dose di serietà e amore, a prescindere dal tema, dall’argomento o dal pubblico a cui si rivolge. Chi ha successo, spesso ci ha lavorato su sodo. Non considerare questo aspetto, perdonami, suona un po’… snob!

  21. Il mio commento investiva la forma e non il contenuto.
    mi dispiace , a me i mestieranti non sono mai piaciuti: I miei esempi riguardavano casi che da lettore – perchè è il lettore il giudice ultimo – mi hanno fatto rabbrividire.
    Ripeto, è giusto essere realisti, ma a volte bisogna mettersi in discussione e pensare che si può sbagliare.
    @Raffaella. L’amore per la scrittura, come ogni altra forma di amore, è spesso cieco.
    Presunzione e ignoranza lasciamola ad alcuni autori affermati…

  22. @Fabio: confessa: sei uno che ha il famoso romanzo nel cassetto. Lo sento. Se è così, mandalo e ne parliamo.

  23. @cacciatorino.
    no guarda, ti sbagli alla grande… rido. sono solo un lettore…

  24. Eppure Antonio Moresco ha raccontato spesso la storia del suo primo manoscritto rimandato indietro millanta volte e pubblicato, dopo anni e anni, quando non se lo aspettava più. Questo accade perché, spesso, gli editori ripubblicano. O pubblicano Ezio Greggio che fa tanta cassetta. Non sarei così fiducioso sulle sorti e sui comportamenti dell’editoria italiana. Altro esempio? In giro ci sono ottimi poeti. Ma se chiedete a qualunque editore, egli dirà: “La poesia non si vende”. Dunque non si pubblica. Eppure, tutti quelli che conosco io leggono e scrivono poesie. Bellissime poesie.

  25. Ogni volta che leggo dibattiti come questo le mie antenne ruotano in tutte le direzioni. Urge un aneddoto. Ieri sera: presentazione di un romanzo. L’avevo già letto, casa editrice piccola ma seria, mi è piaciuto. L’autrice una docente universitaria, insegna letteratura straniera, molto brava. Tutto come da copione, fino a quando dal pubblico le chiedono come mai ci avesse messo ben 15 anni a tirarlo fuori dal cassetto. Lei confessa con un filo di voce: “Ho aspettato di diventare ordinaria”. Mi è sembrata un’esagerazione, così ho chiesto conferma ai molti docenti (tutti di area letteraria) presenti in sala. Mi hanno confermato tutto. Scrivere ( e soprattutto) pubblicare romanzi o racconti fa male al curriculum di un accademico. Certo, ognuno è libero di fare quello che vuole, hanno aggiunto, ma in sostanza gli scritti letterari vengono percepiti come meno nobili, meno “sudati”, meno credibili, di un saggio di studio. Mi hanno citato la strisciante polemica che ci fu a “La Sapienza” di Roma quando Eco diede alle stampe “Il nome della rosa”.
    Per l’ennesima volta, ho avuto la conferma di quel che osservo da anni. La scrittura non è mai una, e non è mai vista allo stesso modo da tutte le categorie intellettuali. Un certo Walter Ong diceva che è una tecnologia, sebbene antichissima, e come tale va intesa. Ossia con tutte quelle trasformazioni, quei chiaroscuri, quelle passioni, e quelle pressioni sociali applicabili a tutti i mezzi di comunicazione.

  26. @roberto puglisi: non è una balla. La poesia non vende. I libri di poesia si accatastano negli scaffali delle librerie. Gli editori lo hanno constatato e, poiché l’editoria è un’impresa, non pubblica qualcosa che sa di non poter probabilmente vendere, nemmeno con tutta la buona volontà. Poi ci può essere il piccolo editore che si sobbarca il rischio, per amore. Ma i piccolissimi editori che pubblicano poesie finiscono spesso per chiudere. Io non ne farei una responsabilità o una colpa dell’editoria. E’ un fatto, e basta.

  27. @Verbena: sottoscrivo, Verbena. Arguta e illuminante come sempre.

  28. Aggiungo: non credo che l’atteggiamento di Raffaella sia snob. E’ invece la prova di un attaccamento molto serio al proprio lavoro, che si traduce in rigore. L’importante è saper vedere anche oltre, pur mantenendo sempre viva l’integrità delle proprie idee. Un po’ come dovrebbe avvenire in tutte le vere passioni.

  29. @roberto puglisi: io adoro la poesia, quindi pensa quanto mi dispiace che non si pubblichi. Ma chi fa l’imprenditore nel campo della cultura è pur sempre un imprenditore. Io non assolvo affatto tutta l’editoria italiana, anzi ci sono molte storture. Però bisogna pur capire che nessuno, editore o no, può lavorare in perdita.

    @verbena: hai colto esattamente l’essenza del mio post. Sono severa perché amo questo lavoro e soprattutto perché ho rispetto per chi scrive con altrettanto amore e con capacità, e quindi merita di essere pubblicato.

  30. Anche io apprezzo il tuo coraggio, Raffaella. Penso che il mondo dell’editoria abbia delle lobby incredibili. Basta vedere le recensioni. Un sacco di libri bellissimi non vengono venduti perchè nessuno ne parla e nessuno ne parla perchè non sono raccomandati. Io, per esempio, trovo nauseante alcuni “specialisti” del settore che recensiscono delle boiate infinite in giornali come il Magazine del Corriere. E poi impedirei per legge a tutta una serie di attori- comici di scrivere le boiate che scrivono. Credo che una selezione a monte sia necessaria così come è necessario un bell’esame di coscienza pensando che magari della storia che si vuole raccontare il mondo ne fa a meno volentieri.
    Poi ci sono quelli che scrivono con amore ed hanno modestia e perseveranza. Questi, secondo me, alla fine emergono sempre.

  31. Pur non pendendo dalle labbra di Vittorio Sgarbi, mi è tornata in mente una sua considerazione sulla poesia, forse discutibile ma di sicuro stimolante, durante uno degli “sgarbi quotidiani”. Ci sono fasi dell’umanità in cui si privilegia, su grande scala, una forma espressiva piuttosto che un’altra. Così la poesia, sempre più lontana dalla percezione dei lettori di oggi (non solo come forma, ma anche, diciamolo, per penuria di nuovi autori originali) si sarebbe estinta, ma solo nella forma, non nell’essenza: e solo per “travasarsi” nella canzone, popolare o meno. Credo che ci sia un fondo di verità in questa considerazione. E’ quello che in parte è successo, azzardo, con il romanzo rispetto al cinema. Per fortuna le due forme – diverse tra loro, ma non tanto da essere incompatibili e coesistenti – si nutrono ancora vicendevolmente, in una sorta di fraterna convivenza. La speranza è che entrambi – narrazione scritta e per immagini – non soccombano alla nuova forma di narrazione che tutto cannibalizza: il videogioco. Un processo che mi sembra già in atto, purtroppo.

  32. @cinzia: tocchi un tasto dolente: i critici-star. Prezzolati. Questi sì che sono il vero cancro della letteratura. Hai fatto benissimo a ricordarlo.

  33. @cacciatore
    per lavoro ogni settimana guardo una marea di siti e leggo molti giornali “di settore”. Sono tutti uguali tranne Giampaolo Serino e i suoi collaboratori che consiglio di seguire, così come D di Repubblica.
    Si scambiano favori, si mettono d’accordo, magari anche grazie ad un buon ufficio stampa. Per non parlare delle librerie e della posizione strategica dei libri.
    Il risultato è che per mesi la Iolanda furiosa è tra i primi posti in classifica e che D’orrico del Corriere ci tritura l’esistenza con Cappelli e Faletti.

  34. Raffaella, bellissimo post. Ti chiedo una cosa. Che sembra una proocazione ma che non lo è affatto. Ma secondo te, uno scrittore quando può dirsi legittimamente tale? In soldoni, da quante copie a libro in poi? Conosco un che è al sesto o settimo romanzo avrà venduto non più di duecentociquanta-trecento copie (e sono buono). Libri pubblicati per piccoli editori con partita iva. Lui però non credo abbia mai beccato un solo centesimo di diritti. E’ scrittore o tenta di esserlo? Qualche anno fa mi chiedevo qualcosa di simile con la pittura: si è pittori se si dipinge? cero che no. Ho capito, un po’ per volta, che si è ritenuti tali se mostri in gallerie, non paghi per farlo, e vendi addirittura.

  35. @cinzia: come sai, oltre che l’editor, faccio anche l’addetto stampa. La storia dei critici che non degnano per partito preso alcuni autori o alcuni editori o certi generi letterari molto spesso mi fa inc***are.

    @gianni: questo è un domandone e non è semplice rispondere. Escluderei in linea di massima la questione della quantità di copie vendute, altrimenti Moccia sarebbe un dio e alcuni ottimi scrittori sarebbero sterco. Ci sono autori bravi, stimati e che, oltre a fare letteratura, scrivono per il cinema e per la tv eppure vendono pochissime copie. Io lo so dai loro editor, ma è un dato che sfugge per forza di cose a chi non lavora nel settore. Non voglio fare nomi perché mi sembra irrispettoso. Ma io non mi sento di non considerarli scrittori. Forse sono scrittori poco fortunati. O non ammanigliati.

  36. @gianni: specifico che in questo caso mi riferisco ad alcuni autori pubblicati dai maggiori editori. Per fortuna però gli editori grandi (e quindi ricchi) si possono permettere di pubblicare uno scrittore che vende poco, ma che ha talento. E se lo possono permettere perché se con lui vanno in perdita o in pareggio, riescono a compensare proprio con Moccia o con le barzellette di Totti.

  37. Io invece credo che questa disattenzione per la poesia sia l’indice della miopia complessiva degli editori. Lasciarla sugli scaffali è un peccato. Ma io ho partecipato a serate di letture di poesia molto affollate. I poeti ci sono. Il pubblico anche. E l’imprenditoria di certi editori non comprende – purtroppo – il minimo rischio, ma comportamenti collettivi, allineati e coperti. Dove sarebbe il coraggio di chi parla in nome della cultura?

  38. @roberto: ho appena citato dei casi editoriali coraggiosi, di autori (anche piuttosto noti) che non rendono, ma meritano, e che gli editori pubblicano comunque. Per fortuna.
    Prova a parlare con i librai: non ne ho mai sentito uno che dica che vende bene i libri di poesia. Purtroppo.

  39. @Roberto Puglisi: be’ una cosa simile accade anche per i racconti, o meglio, per le raccolte di racconti (quindi di un singolo autore; le antologie ancora si pubblicano). Se non sei uno che è stravenduto con i romanzi è persino inutile sperare che ti pubblichino una raccolta. Qualcuno dice che mettere in giro una raccolta è addirittura controproducente per l’autore, e io non ho mai capito perché, né hanno saputo spiegarmelo. A spiegazione di quello che dici sulla poesia, un’ipotesi potrebbe essere che le serate in cui si presentano i libri (compresi quelli di poesia) e che troviamo affollate, in realtà non sono indicative del vero successo di un autore. Io ho visto presentazioni di Lucarelli con una decina di persone. Eppure Lucarelli domina spesso le classifiche. Di contro, ho visto serate pieni di spettatori per autori che vendono poco o quasi niente. Alle presentazioni, ricordiamocelo, ci vanno anche amici e parenti.

  40. Il problema è che non tutto si esaurisce nel circuito dei librai, nell’eutanasia di ottimi libri posati sugli scaffali. Esistono quelli che comprano libri di cassetta? Ma ci sono diversi modi e diversi occasioni per propagandare i libri di poesia. Nelle scuole, per esempio. Nessuno ha invitato mai un poeta vivente a parlare nelle classi. Al Liceo non si sa chi era Caproni. E anche ‘sti editori – diciamolo – che mancanza di inventiva… Io sono convinto che per la poesia la crisi sia apparente. C’è, perché non si cerca la strada giusta per fare incontrare domanda e risposta. La poesia è talmente naturale… Poi, certo, bisognerebbe fucilare tutti i poeti “ufficiali” i tromboni contemporanei e proibire lo studio della conchiglia fossile di Zanella

  41. Roberto, scusa, ma non è per spoetizzare il tuo impeto lirico: ma davvero pensi che la poesia sia pane che possa sfamare la mente e il cuore dei ragazzi, per esempio? Nella maggior parte dei casi (una maggioranza imbarazzante) non leggono neppure un quotidiano. Neanche un romanzo, manco un fumetto. La poesia è solo un lusso: un lusso sfrenato poer pochissimi. E’ questa la riposta ad una domanda che non esiste.

  42. Gianni, non è vero. Mi è capitato di tenere lezioni di giornalismo nei licei. Comincio sempre leggendo una poesia. E non vola una mosca. Solo un pensiero corrotto vuole che la poesia scolastica sia complicata, quando è la forma espressiva più disponibile.

  43. Non rispondo alle provocazioni. E comunque, in ogni caso, gira vota e furria, un derby 4 a zero non ha confronti nè paragoni. Ora e sempre.

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