C’è un’indagine sui tremila like al post su TikTok dell’assassino Gaetano Maranzano in cui – in questi casi verrebbe da dire “lombrosianamente”, ma non è corretto – s’inneggia a Toto Riina e ad altra spazzatura mafiosa. Il problema della liceità dei comportamenti sui social è enorme come il conto in banca di Zuckerberg e altri milionari che campano tranquilli alle spalle di un algoritmo che fa il lavoro sporco. Ci si gira intorno da decenni. Considerare un social al pari di un’azienda non dico editoriale ma qualunque, che risponde penalmente dei danni causati da una mancata vigilanza sarebbe il rimedio ideale. Se solo non si fosse costruita una gigantesca fandonia, che è anche politica, sulla libertà di opinione.

Perché considerare come un esercizio di libertà il pubblico compiacimento per i crimini o per atteggiamenti palesemente criminali, soprattutto quando si tratta di minorenni cioè del futuro di questo mondo, è una strada che nel migliore dei casi porta alla catastrofe dello Stato di diritto. Anni di nefandezze social ci hanno consegnati alla certezza che nulla di tutto ciò nasce in rete. La fonte dell’odio è sempre esterna al web ed è legata a un vento di irrazionalità e di incoscienza che soffia sul mondo delle cose reali, analogiche, sulle promesse della politica, sulle disparità di economie dissennate, sull’ignoranza foraggiata dalla criminalità. E, se ci pensate bene, è qualcosa di molto simile a una moda che si diffonde orizzontalmente calpestando culture, religioni, identità nazionali. Prendiamo il piercing, (ma è solo un esempio che serve a chiarire il concetto) una pratica antichissima, addirittura preistorica, che serviva per marcare le differenze, i ruoli, tra i componenti di una tribù e che oggi, al contrario, è prevalentemente simbolo di omologazione: averlo significa essere nella tribù, aderire alla convenzione, vivere appieno il tempo in ci si è catapultati. Il piercing è una moda che è contagio fine a se stesso, senza ragione, senza storia. Esattamente come accade con l’odio o con il compiacimento per esso.

Nel 1922, quando ancora le comunicazioni viaggiavano lentamente, Walter Lippmann, premio Pulitzer, pubblicò un saggio dal titolo “Public Opinion” in cui spiegava come le idee dell’opinione pubblica potessero essere distorte con relativa facilità. La sua tesi era che l’opinione il più delle volte non rispecchia la realtà, troppo complicata per essere capita. E che questa dipende dallo pseudo-ambiente esterno che ogni individuo si costruisce in base a pregiudizi e in maniera più emotiva che razionale. Il concetto cardine di Lippman era lo stereotipo sociale, cioè una visione distorta e semplificata della realtà, una galleria di immagini mentali che ci costruiamo per semplificare il mondo e per renderlo a noi comprensibile.

Oggi le scuole e le università dovrebbero riprendere quel libro, magari tacendo che è stato scritto più di cento anni fa e magari spacciandolo per il testo di un influencer dalle idee strane ma degne di attenzione.    

Di Gery Palazzotto

Uno che scrive. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

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