Di solito bevo birra”, ha detto Gasper Bervar, 20 anni, studente universitario sloveno, seduto in Via Maqueda con la sua ragazza. “Ma visto che sono in Sicilia, dovrei prendere uno spritz Aperol”.
Si chiude così l’articolo del New York Times che, tradotto in italiano, si intitola “Gli spritz e le Carbonare che hanno divorato l’Italia”. A un occhio distratto – bisogna leggere tutto il pezzo – è solo un reportage pittoresco sul cibo di strada delle nostre città, con Palermo in testa. Se uno ci mette un po’ di ragione e un po’ di memoria, la sostanza è ben diversa.
Vi do un aiutino.
Sino a qualche anno fa Palermo era sul New York Times (in prima pagina) per il Teatro Massimo, la sua innovazione, il suo impegno antimafia, il suo essere luogo di rinascita. Oggi c’è tornato di nuovo, ma con un racconto che ai senzienti appare macchiettistico, per l’unica cosa che va ricordata ai turisti distratti: la paninolandia dilagante e indigesta per chi ancora ha un minimo di amore per questa città.
Palermo è sempre stata le sue contraddizioni, oggi manco quello è. Perché questa città ha finalmente una narrazione coerente con la sua vocazione turistica. Panelle, spritz, ristorazione di strada e per strada, il cheap che si fa monumento, l’impegno che non impegna.
Null’altro.
È un sistema narrativo voluto e cercato che trova sponda persino nei giornali più prestigiosi. Se ne sono accorti anche a parecchi chilometri di distanza dalla Sicilia, nella redazione dell’Arena di Verona ad esempio. E nella redazione del Post, che così ha scritto nella sua newsletter quotidiana.

Ciò che non si vede è ciò che non c’è (sempre in tema di coerenza). Non c’è nulla di cui parlare con chi amministra la città, a parte cibo e munnizza. Il Teatro Massimo che prima era catalizzatore di attenzioni da tutto il mondo, oggi è l’ombra di se stesso, avvelenato da laceranti tensioni interne e da una letargia imbarazzante. In questi giorni gira una lettera anonima inviata al sindaco di Palermo, che immagino sarà all’attenzione della magistratura, in cui si elencano presunti favoritismi e altrettanti presunti disastri gestionali: per dire, si narra addirittura di uno spettacolo (questo un po’ meno presunto) andato completamente deserto che ha costretto la sovrintendenza a regalare centinaia di biglietti di ingresso ai parenti dei dipendenti per fare numero. Con gli anonimi non si costruiscono verità (ne sono stato vittima anch’io qualche volta), ma sugli anonimi comunque si riflette: soprattutto per allontanare dubbi e separare la terra dall’acqua, che altrimenti è solo fango.
Oggi quel teatro è di nuovo sul NYT, ma a corredo di “arancine, cannoli e tovaglie a quadretti rossi”. E poi dicono che con la cultura non si mangia.


Ciao Gery,
sono l’anima di Palermo. Sappi che condivido la tua preoccupazione legata alla spiraleggiante “food gentrification” di via Maqueda. Mi rallegra però la notizia che un gruppo di benefattori, altrimenti non saprei come chiamarli, stanno per installare proprio in quel tratto un presidio di elevato valore culturale che, sono convinta, richiamerà al suo “cenacolo” non pochi intellettuali:
https://palermo.repubblica.it/cronaca/2025/10/22/news/hard_rock_cafe_apre_via_maqueda-424929135/