Da Almadén de la Plata a El Real de la Jara

Sempre della serie appuntamenti mancati. Il posto in cui mi trovo è strategico per dividere in due una tappa quasi impossibile per clima, orografia e durata: messe in ordine di importanza. Si chiama El Real de la Jara ed è un piccolo agglomerato di case proprio al ridosso dell’Estremadura, in pratica si trova negli ultimi metri di terra andalusi.

Fin qui, come vi ho detto, è tutto un succedersi di allevamenti e qualche albero. C’è anche un dettaglio, indice dei tempi, che risalta. Non è infrequente imbattersi in sterminate distese di pannelli solari giacché i contadini hanno stimato opportuno investire più sull’energia che sui prodotti della terra. Ieri, alle prese con l’unico televisore comunitario piazzato in un bar come intrattenimento muto, ho visto un paio di corride. Le trasmettono in diretta su un canale tematico, come noi facciamo chessò con le partite di calcio: con interviste a bordo campo, replay e schede grafiche.  Ho tenuto a bada la mia coscienza animalista con ammirevole compostezza. Negli anni ‘80 scrissi sul Giornale di Sicilia un articolo intitolato “Ma io tifo per il toro Cabatisso” che mi procurò qualche vibrante protesta da parte di un folto gruppo di estimatori del genere quindi ritengo chiusa la parentesi indignazione prêt-à-porter: ci sono molte ragioni culturali che è difficile assorbire o recensire. Dico solo che la sensazione che mi è rimasta è legata allo sguardo di un toro sanguinante e stranito che, alla fine, quasi presagendo la sua sorte imminente non sapeva più che fare: far finta di caricare il torero oppure voltarsi e cercare di guadagnare l’uscita. È finita come immaginate e questo mi ha dato un’infinita tristezza.  

Oggi, forte delle indicazioni rassicuranti del mio padrone di casa, sapevo di trovare un posto in cui cenare a un chilometro di distanza. Solo che, arrivato in loco, ho trovato tutto chiuso. Intorno nulla. Girando per altri chilometri sotto un sole che picchiava come un fabbro incazzato mi sono imbattuto in un bar. Cucina chiusa. La caritatevole signora deve avere però letto qualcosa nelle mie rughe di sole e disperazione (più evidenti le seconde) e mi ha invitato ad accomodarmi in un tavolo solitario ma in compagnia di un’affettuosissima compagnia di mosche che parevano non aspettare che me. Mi ha detto: birra quanta ne vuoi, panini con prosciutto (buonissimo com’è tipico di queste zone, aggiungo io) me ne sono rimasti due. Affare fatto, prendo tutto. 
Mi è sembrata una cena da dio: alle 19, con 35 gradi, un sole ancora alto e un’indefinita quantità di chilometri da macinare prima di riconquistare il mio letto fresco e prezioso.

Felicità è talvolta fare addizioni senza curarsi troppo degli addendi.

4 – continua

Di Gery Palazzotto

Uno che scrive. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

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