L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Ci sono pochi casi in un cui un episodio di violenza ordinaria, la forma più strisciante e più sottovalutata di offesa alla civiltà, riesce a concentrare un tasso di odiosità superiore a quello riscontrato nell’aggressione all’arbitro Diego Alfonzetti al termine della partita tra due squadre giovanili, la Russo Sebastiano Calcio Riposto e il Pedara. Nelle immagini catturate dall’ennesimo smartphone e centrifugate nell’ennesima viralità dei social, si vede il direttore di gara, diciannovenne, preda di una caccia all’uomo da parte di giocatori, dirigenti sportivi e spettatori. È uno stillicidio di frame che lascia sospesi sino all’ultimo, nel terrore che ogni pedata, ogni pugno – persino la bandierina del calcio d’angolo viene usata per colpirlo – possa essere quello che apre al baratro dell’incommentabile.
In quella aggressione c’è tutto quello che, messo insieme, ci dà la misura del buio in cui siamo precipitati, non incolpevolmente.

C’è la violenza irrazionale innanzitutto. Poi ci sono i giovani, c’è lo sport, c’è la viltà del dieci contro uno, c’è il voyeurismo della presa diretta. Tutti ingredienti tristemente noti di una altrettanto tristemente nota ricetta di pessimo vivere.
Nella cieca follia che scatena una lunga aggressione a un giovane arbitro, figura che dovrebbe incarnare invece il rispetto delle regole, c’è il fallimento di un sistema. Che non è sportivo, ma sociale. Ora si invocheranno nuove leggi e nuovi reati: siamo un Paese che quando si vede perso anziché le risposte alle domande inevase si inventa nuove domande che non prevedono risposta.
Mentre la ragione si perde nel polverone delle certezze che crollano.

Di Gery Palazzotto

Uno che scrive. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

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