Di ritorno da Berlino (e vi racconto…)

Di ritorno da Berlino – tre giorni di full immersion nella storia e nell’umido continentale – la sensazione che mi resta è quella di una serena austerità. Lo dico subito: Berlino è una città che va visitata, una grande capitale europea e soprattutto un fondamentale crocevia storico. Se volete indagare le ragioni di una follia ideologica, se volete lasciarvi incantare dalla sovrapposizione tra presente e passato, se cercate un modello di civiltà moderna, Berlino è la vostra meta. Qui, anzi lì, i tedeschi hanno esposto il più moderno e plausibile concetto di pentimento collettivo che consiste non nel simbolismo piagnone di cui noi italiani siamo campioni mondiali, non nella pur umanissima ricerca di scorciatoie, ma nel sistematico e ultra-preciso resoconto storico di ciò che è stato e non sarà più.

Per dire, hanno un museo della Stasi (che pare gestito in chiave lombrosiana da eredi di quell’organizzazione) in cui con pignoleria si ripropongono i nomi e le immagini dei delatori, i metodi di prevaricazione, le imbarazzanti disparità a cui venivano sottoposti i cittadini della DDR (da un lato gli allineati, dall’altro i disgraziati). Ve l’immaginate se noi imbastissimo un museo sulla mafia? Apriti cielo, ma a Berlino non hanno i professionisti dell’anti-antidemocrazia quindi è tutto meno complicato.
Anche il muro, il famoso muro, pur sbriciolato in milioni di gadget da posare sulla scrivania o attaccare al frigo, è uno spunto per riflettere sul senso del tempo di una nazione che non si sogna di cancellare il passato, ma che ha un impegno inderogabile col futuro. I segni di quel manufatto imbarazzante sono ostentati sulla linea manco tanto immaginaria che taglia la città – e dove non c’è il cemento originario (poco, ormai) c’è una traccia indelebile sull’asfalto – ma l’eleganza con cui questa cicatrice è esibita ha del sovrannaturale per noi italiani (che sulle cicatrici abbiamo costruito totem di vetustà). Questi berlinesi non nascondono nulla perché hanno scelto la via più pratica per un riscatto storico e sociale: il mondo continua a girare e il modo peggiore per chiedere scusa è fermarsi, meglio rimboccarsi le maniche e guardare avanti. Infatti sono avanti, eccome. Non è il sogno americano, non è il futuro futuribile giapponese, ma è l’inarrestabile corsa di una locomotiva che macina chilometri.
A Berlino si sta bene, come bene si può stare in una metropoli dove il grattacielo taglia un orizzonte di casermoni in stile sovietico, come bene si può stare in un turbine di correnti gelide, come bene si può stare in una landa che sognava l’olimpo e finì nella polvere (certe cicatrici – meritate – non le portano gli umani ma le culture).
Ecco perché Berlino va visitata. Per capire, per imparare, per sognare. Per poter scrivere “di ritorno da Berlino”.

Portate un caffè all’amico

Lilli_Carati morta

Appena ho saputo che Lilli Carati era morta ho inviato un sms a un amico. Nel frattempo un altro amico mi cercava al telefono di casa, ma io ero impegnato a scrivere una mail a un altro amico e a rispondere all’sms di un altro amico ancora.
Lilli Carati, pace all’anima sua, per un ristretto gruppo di attuali cinquantenni, ex giovani degli anni ’80, è un catalizzatore di ricordi. Anzi per noi di un ricordo preciso.
Cinema Embassy, sala A, (come mi ricorda il caro Totò) dicembre ’88. In fuga da una dura giornata di lavoro al giornale, io e un manipolo di scapestrati colleghi decidiamo di concederci un eccesso che a quei tempi era molto in voga. Niente droghe, né alcol, né abusi alimentari. Pizza, birra e gran casino al cinema a luci rosse. Lo facevamo un paio di volte al mese. La gita al cinema hard core – di solito guidata da un altro mio amico, Ciccio, che conosceva personalmente persino le maschere e il bigliettaio – era un classico della serata da mal di pancia. Mal di pancia dalle risate, si intende.
In quella sera di dicembre dell’88 eravamo una decina. Ultimo spettacolo, tutto esaurito ad eccezione di qualche posto in prima e seconda fila. Il film era l’esordio di Lilli Carati nel mondo dell’hard. Titolo: “Una moglie particolarmente infedele”. Trama: una moglie particolarmente infedele fa la moglie particolarmente infedele.
Prendemmo posto in una sala in cui non si assisteva a una proiezione, ma si faceva il tifo come all’ippodromo: dai, forza, veloce! Appena c’era un accenno di dialogo tra gli attori, la platea rumoreggiava: “E che siamo venuti qui per sentirvi parlare?”.
A un certo punto, mentre la Carati, sempre pace all’anima sua, offriva una prospettiva di sé ostentatamente inedita rispetto alla sua filmografia, dalla fila dietro la nostra (la terza) crebbe un rumore. Forte e sempre più forte. Era un tale che, stremato dal lavoro o molto più probabilmente dal “dopolavoro” da cinefilo, si era addormentato e russava come un disperato.
Sul grande schermo passarono scene più trash che hard, un porno becero ed esilarante accese mille battute che avremmo ripetuto per anni. L’audio al minimo e l’aria irrespirabile di mille sigarette rendeva l’atmosfera lunare. Lilli passava da un amplesso all’altro senza sorridere, un lavoro come un altro, forse più faticoso di un altro, o magari noioso. Che ne sapevamo noi che ridevamo felici, felici di una gioventù analogica, vera, di relazione?
Lilli Carati, pace all’anima sua, era una moglie particolarmente infedele nella nostra serata particolarmente esilarante. Anche perché sul finire del film, quando un tripudio di amplessi disegnò sullo schermo geometrie per quei tempi ardite, il tale che russava si risvegliò con un grugnito da surround, drizzandosi sulla poltrona come Linda Blair ne “L’esorcista”.
Dal fondo della sala, una voce: “E portate un caffè all’amico!”.

Tutti noi, reduci della sala A dell’Embassy di Palermo, ridiamo ancora.

La mia banda suonava il rock

stratocaster

Oggi la Fender Stratocaster compie 60 anni. Quando fu scattata questa foto ne aveva 28 (e il titolare di questo blog non arrivava a 20).

Renzi e renzismo, reloaded

Qualche mese fa scrissi perché era giusto che Renzi ci provasse, anche in nome e per conto di chi lo osteggia. Mi pare giusto sottoporre nuovamente al vostro giudizio questa riflessione.

Lavori in corso

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Grazie a Michele Lo Chirco (da Milano).

Istruzioni per il parcheggio

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Grazie a Lorenzo Matassa.

Caro Enzo Avitabile, quanto è bella “Dolce sweet M”…

Enzo Avitabile

Conobbi Enzo Avitabile ai primi degli anni Ottanta, lavoravo alla radio e lui venne a promuovere uno dei suoi primi album da solista, credo fosse “Meglio Soul”.
Tra noi scattò un’estemporanea amicizia, ci scambiammo qualche lettera, qualche telefonata. Lui stava scalando il mondo della musica italiana, che in quel periodo aveva in Napoli il suo baricentro. Io ero un giovane giornalista appassionato di musica e strapazzavo la mia Fender Stratocaster in un paio di rock band di Palermo.
Ogni volta che Enzo Avitabile veniva in città, io lo andavo a trovare, ascoltavo la sua musica e rimanevo incantato dalla sua capacità di coniugare la magia del soul con la gradevolezza un po’ ruffiana della canzonetta.
Un giorno il Giornale di Sicilia, del quale ero diventato critico musicale, mi mandò a recensire un suo concerto. Ero felice.
Ma lo spettacolo fu un disastro, non so che problemi avesse Avitabile: cantò male, il gruppo era slegato, l’amplificazione disastrosa. Ovviamente lo scrissi nella mia cronaca, seppur con la morte nel cuore.
Da quel giorno lui mi tolse il saluto, mi mandò a dire le peggiori cose, un comune conoscente mi incontrò per strada e quasi mi alzò le mani. Fine dell’estemporanea amicizia.
Ieri ho acquistato una raccolta di vecchi brani di Enzo Avitabile e mi è venuta alla mente questa storia.
Lui oggi ha il successo che merita, addirittura Jonathan Demme gli ha cucito addosso un docu-film che racconta la sua musica. Ho visto qualche intervista in tv e su internet e ho trovato un musicista maturo, solido e ben più sereno di trent’anni fa.
Ieri, mentre ascoltavo la sua “Un amico”, ho pensato che dovevo mettere nero su bianco un concetto elementare: non serve l’amicizia per giudicare un artista, serve solo la libertà di poterlo criticare quando sbaglia e di lodarlo quando lo merita. Tutto qui.

P.S.
Enzo, ma quanto è bella “Dolce sweet M”…

 

Dove ha perso le scarpe il Signore

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Via Roma, Palermo.

Foto di Lorenzo Matassa.

La neve di Palermo

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Mercato del Capo, a Palermo.

Foto di Lorenzo Matassa.

Come si dice griffe in cinese?

Ecco spiegato perchè le aziende cinesi stanno correndo frettolosamente ai ripari, cercando di acquistare posizioni prestigiose nelle nostre città: per difendere la bugia dei loro business.

Vi ricordate quando nel dicembre scorso Giuseppe Giglio scrisse di quella che avevamo ribattezzato come sindrome cinese?
Ecco, in via Montenapoleone, a Milano, è arrivato Giada, tipico marchio cinese.