Saint-Jean-Pied-de-Port.
Ogni volta che porto a compimento qualcosa che mi è costata fatica, e non solo muscolare che anzi quella muscolare è una fatica liberatoria, mi chiedo se riuscirò a fare meglio l’anno prossimo o se potrò continuare a godere delle piccole meravigliose gioie fugaci che fanno grandi le nostre imprese personali.
Spiego meglio. A una certa età tutto quello che combiniamo risente sempre più del cosidetto tempo residuo, che non è quanto ci rimane da vivere, ma quanto ci rimane per vivere mantenendo alti gli standard di autostima. Perché è inutile girarci attorno: a certe latitudini di amor proprio non importa tanto fare una cosa, quanto farla esattamente come abbiamo scelto di farla.
Fine del preambolo.
Sono a Saint-Jean-Pied-de-Port, il paesino alla base dei Pirenei che segna l’inizio del mio Cammino Francese. È importante essere arrivato sin qui, almeno al punto di partenza perché sino a un paio di mesi l’unica impresa alla mia portata era inanellare la giusta sequenza di antibiotici, cortisone e antidolorifici. Pietra sopra.
Mi trovo in un’osteria dove i due titolari barcollano allegramente tra i tavoli e gli avventori scommettono sulle ordinazioni (e anche sul conto): chiedi omelette e arriva pollo, chiedi patate e arriva formaggio, per fortuna se chiedi vino arriva vino. Scrivo sul solito traballante combinato di tastiera e iPad Mini (cosa non si fa per risparmiare una manciata di grammi nello zaino) che mi costringe ad annodare le dita per scovare vocali accentate e apostrofi dove normalmente ci sarebbe, tipo, un tasto reset del sistema o il comando che entra nei conti di Zuckerberg. Inoltre ho una malcelata soddisfazione per esser riuscito a risparmiare, quest’anno, un chilo sul peso dello zaino: dieci chili dieci, tondi tondi.
Insomma sono perfettamente in linea con la fisima del tempo residuo di cui sopra. Perché un Cammino non è mai una teoria di passi, un’esibizione di fatica o di devozione (più evitabile la seconda). Ma la conferma di cosa presto non saremo più e che ci illudiamo di essere ancora. È la cena nel postaccio più allegro e scomodo dove il vino è buono e il resto chissà. È dormire (e resistere) ogni sera in un luogo diverso con imprevisti diversi e svegliarsi comunque sorridendo alla zanzara che ti ha regalato una notte indimenticabile. È combattere per arrivare dove non sai di dover arrivare: la geografia è per gli incolpevoli neofiti o per chi non ne ha capito un tubo e, in fondo, distrae dal vero viaggio che obbedisce agli unici punti cardinali che contano, quelli del nostro godimento personale. È scovare il cazzo di accenti che si nascondono in questa tastierina che sta in una mano e che mi prende per mano.
Felice è il viaggio di chi non vorrebbe essere in altro posto che quello in cui si trova.
Si comincia.
1 – continua