Eravamo io, un iraniano, un egiziano e una pizza

I Cammini sono fatti di passi. Alcuni anche falsi. Tutti i Cammini hanno una quota di imprevisto che va considerata ontologica e che non è scindibile dalla parte poetica e da quella prettamente fisica (i Cammini sono faticosi, devono esserlo altrimenti diventano passeggiate ai giardinetti).
In questo blog vi ho raccontato molti imprevisti: dalle strade sbagliate in piena montagna e senza copertura telefonica all’albergatore che si inghiotte la tua prenotazione lasciandoti all’addiaccio, stanco, sudato e incazzato (immaginate il conseguente mix micidiale di attributi rotanti).
Più prosaicamente, magari a favore di citazione, i successi sono impastati anche con la sabbia dell’insuccesso, che può avere varie graduazioni, ma qui non ci impelaghiamo in distinzioni sterili tipicamente social e altrettanto tipicamente stupide.
Un’avvertenza.
Scrivo queste righe da una pizzeria alla periferia di Pavia. Uno dei pochi locali aperti in questo periodo nella zona in cui mi trovo. Quando uno in estate cammina, e cammina a lungo, la sera non può farsi altri chilometri per sfamarsi dal momento che i piedi e le gambe sono già belli e andati: ma questo è l’ABC. Il vero disastro è girare con sandali (i piedi devono stare sempre nudi durante il riposo) e pantaloncini in luoghi frequentati da persone “normali”: non è proprio il passepartout per un ristorante stellato.

Insomma sono in una pizzeria dove il proprietario è un iraniano, con un egiziano che lo aiuta e un non meglio identificato locale che sovrintende alle paturnie del proprietario-pizzaiolo-manager. Dettaglio non troppo dettaglio, parlano tutti pavese. Nel senso che hanno un’integrazione attiva che certi malacarne improvvisati proprietari-pizzaioli-manager delle mie parti se la sognano. Quindi chapeau prima ancora di assaggiare.
Ho chiesto asilo in questo locale non solo per la pizza, ma anche per stare un po’ a scrivere, per i fatti miei.
Loro hanno sorriso.
Io ho chiesto cosa c’era da bere, of course.
Loro hanno tirato fuori il loro pezzo migliore, una Peroni ghiacciata (Fantozzi docet). Mi hanno fatto accomodare in uno dei sette tavoli vuoti del locale (questa è una pizzeria da asporto che non aspira ad altro) e mi hanno sparato un ventilatore in faccia: il fresco condizionato qui sarebbe un’offesa al buon nome del locale.

Insomma sono qui, con la mia Peroni e gli iraniano-egiziani sorridenti che si sbattono per tirare a campare. Una tranche de vie memorabile alla mia età. Perché io faccio il turista e loro stanno qui a trattarmi con riguardo non affettato. Io scrivo e loro stanno lì a sgobbare al caldo, che arriva anche al mio tavolo, ma grazie al ventilatore il fastidio diventa persino spunto di narrazione: siamo fatti di paragoni e troppo spesso sbagliamo a mettere a fuoco.
Sono finito qui perché ero stanco. E ora ci rimango perché, all’improvviso e senza alcuna giustificazione recensibile, sto bene. Al caldo nell’afa, con una birra che non berrei mai, in mezzo a un viavai di clienti che ordinano, aspettano impazienti e se ne vanno.

Perché sono finito qui?

La risposta sta nelle prime righe di questo post e la sublimo in una parola.
Imprevisto.
Una seconda parola, mi voglio rovinare.
Contrattempo (ma trattasi di sinonimo quindi non vale).
Avevo prenotato un appartamento in un posto che pareva figo. Si chiama Mood Villa Glori, tenetelo a mente quando volete scansare qualcosa. Un posto dall’altra parte della città, in centro.
Quando sono arrivato per prendere possesso della stanza, dopo venti e passa chilometri sotto il sole, non ho trovato nessuno. Ho cercato il numero di telefono nella prenotazione dell’agenzia e ho chiamato. La voce è stata sbrigativa: mi mandi foto della carta di identità e codice fiscale e le invio le istruzioni, si ricordi di lasciare 10 euro domani per la sanificazione (ma non avevo pagato un tutto incluso?).
Poi tutto accade via whatsapp.
Io eseguo e quello mi manda una schermata di istruzioni standard. E qui mi sarei dovuto insospettire: la schermata standard è piena di refusi e strafalcioni. Ma come, neanche ti dai la pena di scrivere qualcosa di personalizzato per uno che ti sta pagando (non poco) e per giunta mandi un jpeg che Marta Flavi al confronto è un Nobel per la Letteratura?
Niente, sono troppo stanco, sudato, sfatto.
Raggiungo la stanza e trovo una stamberga. In pieno centro, ma una stamberga. In fondo anche i portici delle Poste di Palermo sono in centro, ma dormirci sotto – se non sei un santo in terra come Biagio Conte – non ti fa certo sentire nel groove della città.
Seguono rapidi dettagli tecnici. Stanza angusta in cima a una scala angusta. Niente aria condizionata nell’estate più calda di sempre. Manco un campioncino riciclato di bagnoschiuma. Un solo interruttore per tutte le luci: che se tu vuoi leggere devi metterti a favore di plafoniera centrale e soprattutto alzarti, quando ti stai per addormentare, in modo che ti possa svegliare in tempo per recuperare il letto e non assopirti per terra.
Niente wi-fi, a parte una “saponetta” anteguerra messa lì per fare da comparsa. E soprattutto niente connessione ordinaria con il tuo telefono dal momento che alcune compagnie, tra cui la mia, lì sono in zona d’ombra: un dettaglio non indifferente se dialogate con un tale che non si manifesta di persona e che chatta solo via whatsapp. Della serie un muto dice a un sordo, ma il sordo ha già i soldi in tasca e di quello che il muto gli dice non gliene può fregare di meno.
Singhiozzo le mie proteste, non piangendo ma sperando nel refolo di connessione in questo angolo infausto di (in)civiltà, e faccio quel che alla fine mi riesce meglio. Mandare a fanculo, ahimè.
Imprecando mi trovo un’altra sistemazione con un corredo di problemi che a voi possono sembrare insignificanti e che io riassumo in poche parole: fatica, piedi doloranti, caldo asfissiante, voglia di doccia e letto.

E ora sono qui. Nel meraviglioso opposto del Mood Villa Glori.
Alla pizzeria Aselli.
Col ventilatore che mi allieta l’orecchio sinistro e la compagnia che, involontariamente, mi regala il sottosopra della mia mission.
Ascoltare, esplorare, isolare.
Tracciare un perimetro tra ciò che siamo e ciò che ci influenza a prescindere di ciò che siamo.
E chissà, scoprire l’imperdibile ispirazione di una Peroni ghiacciata.

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Le altre puntate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Cazzi miei reloaded

Quando (ri)apro su queste pagine il settore cazzi miei è segno che cerco/trovo relax. Se un tempo la cronaca ossessionava solo i giornalisti e i lettori compulsivi dei giornali (benedetti!), oggi l’attualità è un divenire che spesso dribbla le notizie e investe tutta la nostra esistenza. Ecco, il mio relax è lontano dalla cronaca, per assioma. È generalmente fatica: che sia montagna o pianura, che sia neve o acqua, che sia polvere o fango, che siano ruote o quadricipiti, io per spegnere il cervello devo azionare le gambe.
Usualmente, in questo periodo, cammino.

Dopo la pausa forzata della pandemia e dopo il bell’assaggio di Francigena dello scorso anno, indimenticabile per vari motivi – la maggior parte dei quali afferiscono alla subdirectory dei cazzi miei, quella protetta da password – oggi torno sulla Francigena italiana in un tratto indefinito tra Mortara e Sarzana. Scrivo indefinito perché non ho ancora chiare le mie intenzioni: può darsi che decida di fare delle deviazioni, può darsi che decida di andare oltre. E poi c’è una caviglia destra che vorrebbe tradirmi tipo Calenda col Pd ma con effetti ben più seccanti (quanto sposta Calenda e quanto sposta la mia caviglia non è paragone da fare, eh). Insomma non è il Cammino del Nord con la sua sacrale successione di tappe e obiettivi, quasi una gara di sopravvivenza con se stessi.

Tornando alle motivazioni, che sono l’argomento di discussione preferito quando immancabilmente ti trovi a chiacchierare con estranei di queste insane passioni, non sono mai fuggito neanche quando c’era davvero qualcosa o qualcuno da cui scappare. Molte persone, soprattutto neofiti, che si mettono in cammino cercano di allontanarsi fisicamente da ciò che in fondo è dentro di loro. Io al contrario non ho mai cercato altrove cause e rimedi che stanno negli spazi angusti del mio cervello, del mio cuore o di qualche altro organo meno funzionale e più rompicoglioni: e non è un pregio, anzi.

Perché non dimentichiamo che la versione corrente di chi ha un problema è tutta nella legge delle tre A:
1 Affidarsi totalmente agli altri.
2 Abbracciare la religione del dolore ortodosso.
3 Aspettare che un rimedio arrivi dall’alto. Quindi sfruttare il principio dei vasi comunicanti applicati alla rottura di coglioni: dove la concentrazione è minore se ne può riversare…
Invece il sottoscritto paradossalmente quando ha problemi si chiude a casa e non ne esce fin quando non è presentabile.
Figuriamoci un viaggio.
In viaggio devo essere al cento per cento. Devo succhiare conoscenza da ogni cannuccia dell’ignoto. Devo resistere alla tentazione di essere il solito verboso portatore di noia, di cedere agli stessi vizi, di muovere gli stessi passi, di frantumare le stesse uova nel paniere.

Per questo mi rimetto in cammino anche quest’anno. Con qualche chilo e qualche pensiero in più (la pandemia ci ha segnati in tal senso). Con qualche anno in più, ma su quello non c’è alternativa, a meno che tu non viva in un romanzo di Stephen King. Con qualche responsabilità in più: devo scrivere un paio di cose di lavoro per me cruciali e l’endorfina è da sempre la mia droga preferita.
E con una sola speranza, che è quella di sempre: stupirmi e non perdermi in quelle controindicazioni dell’esperienza che il popolo senziente del pianeta chiama rimpianti e noi solisti della socialità chiamiamo, senza paura, errori.
Gli errori accadono. I viaggi si cercano.

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Le altre puntate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Francigena for dummies

Non è il Cammino di Santiago, né qualcosa di simile. La Via Francigena è un’altra cosa. Attraversa una diversità orografica più complessa, ma ha un’accoglienza meno curata. È meno affollata (anche se il mio Cammino del Nord è stato perfetto su questo punto ma, si sa, il Cammino del Nord è uno dei più selettivi tra i cammini verso Santiago), ma ha una segnaletica peggiore. È più costosa, ma si mangia infinitamente meglio.

Insomma quest’anno, per via di una combinazione di impegni e di un mood che mi spingeva a diversificare, ho fatto (anzi, sto facendo) un’esperienza sportiva divisa tra alpi occidentali e Dolomiti.
Qui vi dirò di un mini itinerario di otto giorni per quella che chiameremo Via Francigena for dummies: da Aosta a Vercelli, 150 chilometri abbordabili che possono essere un buon banco di prova per cammini più impegnativi, anche in coppia. Dicevo, bastano otto giorni, uno zaino che dovrebbe pesare al massimo il 10 per cento del vostro peso corporeo ma che quasi sempre, ineluttabilmente, si aggira sui dieci chili, e un paio di scarpe scelte con attenzione: io consiglio scarpe da running (tipo Asics Cumulus); non fate porcherie con scarponcini di cuoio alti o peggio ancora con sandali e calze (ne ho visti da paura e sgomento, dio degli alluci assistili!). Scarpe leggere sempre, in estate. E vaselina a tempesta, dappertutto, in ogni piega del vostro corpo, sbizzaritevi, tanto siete in missione per conto del dio dei passi perduti: che è il dio che ci allontana dai sentieri pericolosi e ci guida sulla via per casa, insomma il migliore dio che si possa immaginare.

Le tappe (ma sotto troverete uno schema).

Le guide consigliano una prima tappa unica da Aosta a Châtillon di quasi 28 chilometri. Dimenticatevela. È un massacro di salite e arsura, di muscoli e cervelli cotti (d’estate, of course). Dividetela in due, questa benedetta tappa.

Fate Aosta-Nus e vi ricoverate all’hotel Dujany, un due stelle molto ma molto spartano che però ha un vantaggio ineguagliabile (a Nus!): una piscina mooolto fresca che è una gioia per chi arriva da 15 chilometri di salite e arsura, polvere e sudore. Vi mettete ammollo così l’indomani sarete carichi per i restanti 13 chilometri per Châtillon che sono pieni di salite.

Châtillon- Verres è abbastanza dura, se c’è caldo.

A Verres una tappa culinaria è senz’altro Tanpi (dove fanno degli gnocchi rossi e una cacio e pepe notevoli).   

La tappa per Pont Saint Martin è invece facile, ma c’è un’occasione imperdibile: mettere Bard tra le mete preferite. Ci passate un po’ stanchi e sfatti. Ma raggiunto il vostro alloggio, quattro-cinque chilometri più avanti, fate di tutto per tornare per sera (a Pont Saint Martin non c’è un tubo). Noi abbiamo osato alla grande: biciclette, luci frontali e via pedalare, all’andata in salita con quel che ne consegue, al ritorno segno della croce e affidamento al doping di entusiasmo.

A Bard fate due cose, o tre: un aperitivo in un piccolo bar che ha i tavoli quasi a strapiombo sulla stradina del centro storico; una foto sul ponte al tramonto; e una cena (per questa dipende dai gusti e dalla voglia di spendere) scegliendo possibilmente un pinot nero.

La tappa per Ivrea è più lunga e ha una serie di saliscendi da mettere nel conto. A Ivrea, almeno nella nostra esperienza agostana, c’è una strana percezione della temperatura: nei B&B e nei ristoranti (anche in quelli più quotati) è difficile trovare aria condizionata, persino con 35 gradi. Forse fanno incetta di calore per l’inverno. Comunque qui c’è un bel ristorante da visitare, sperando che abbiano migliorato il servizio, per via di una strana sindrome del ferragosto di cui abbiamo già parlato.   

Da Ivrea  a Viverone è una lunga sgroppata ciottolosa che parte da un netto di 20 chilometri, ma a seconda di quale struttura avete scelto per il pernottamento può riservare scomode sorprese. Ad esempio chi scrive è finito un “pizzo di montagna”, ufficialmente vista lago ma in realtà tre chilometri più in su. Letteralmente più su. Per arrivare all’hotel ho dovuto aggiungere alla dotazione del 20 chilometri altri 3 mila metri: che fatti poi in discesa per rientrare nella via, il mattino dopo, fanno sei chilometri in più. Attenzione, come ho più volte ripetuto, la scelta degli alloggi, la loro collocazione geografica, ha una grande importanza perché tappa dopo tappa raggiungerli e recuperare la via del cammino costa decine di chilometri. Quindi occhio, quando scegliete a freddo, magari d’inverno al comodo delle vostre poltrone…

Le ultime due tappe per Santhià e per Vercelli sono chilometri nelle gambe e quasi null’altro. Man mano che si abbandonano le montagne – esattamente come avviene nel Cammino del Nord – gli scenari si appiattiscono e il paesaggio diventa sempre più simmetrico. Dopo le viti, le risaie. Dopo l’acqua scrosciante dei ru, gli antichi canali di irrigazione, il caldo asfissiante della pianura.

Però arrivare è realizzare, chiudere un cerchio.

Soprattutto è importante tener conto per tutto questo cammino viaggerete sulla strada per le Gallie degli antichi romani: vi emozionerete ad attraversare ponti di duemila anni, o a calpestare le pietre segnate dai carri e dalle ambizioni di popoli che vivevano sotto un’altra luce e che temevano altre ombre.

È un’esperienza che può preparare o disilludere, stimolare o intimorire. Dipende dal passo con cui si incomincia, e non solo in senso fisico.

Camminare, in fondo, è la più azzeccata metafora della vita: non importa tanto andare avanti, ma guardarsi intorno. E possibilmente gioire.

Aosta – Nus 15 km

Nus – Châtillon 14 km

Châtillon – Verres 19 km

Verres – Pont Saint Martin 15 km

Pont Saint Martin – Ivrea 22 km

Ivrea – Viverone 21 km

Viverone – Santhià 17 km

Santhià – Vercelli 27 km

La seconda parte del viaggio qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.