Da Rabanal del Camino a Ponferrada.
Ho un incubo ricorrente che si propone in due versioni coincidenti. Sogno di tornare all’improvviso a scuola per sostenere l’esame di maturità. Inutilmente dico che l’ho fatto molti anni fa e che adesso ho un lavoro, ho fatto cose… niente: l’angoscia sale verso l’inesorabile bocciatura. Oppure sogno di tornare al giornale dove ho lavorato per vent’anni. Mi danno un posto da occupare per passare le pagine provinciali: ma io ho improvvisamente dimenticato tutto e non riesco neanche a trovare il fax, non ho un computer, una macchina da scrivere. Tutti mi guardano, i miei colleghi di allora, e dicono tra loro “vedi com’è finito”. E ridono di me che resto fino a notte fonda senza neanche chiudere una pagina.
Ultimamente mi è capitato un altro incubo che si è riproposto. Sono in un Cammino – non quello che sto facendo, un altro che pure ho concluso felicemente – e devo affrontare una lunga salita. Arrivato in cima, affaticato, c’è una via obbligata che fa un percorso strano e senza scendere, come in un romanzo di Stephen King (di cui in questi giorni ho letto una bella biografia), mi riporta giù al punto di partenza, tre litri di sudore più in basso. Devo ricominciare, molte volte: fin quando rantolante non mi sveglio gridando: “E che cazzo!” E l’eco di questa imprecazione mi tormenta fin quando non mi attacco alla bottiglia dell’acqua e bevo come uno sconsiderato.
La scorsa notte ho fatto proprio quest’incubo, quello della salita. E non per caso. Oggi avevo in programma la tappa più dura (che se la gioca con la prima sui Pirenei) in cui su 32 chilometri, una dozzina erano in salita sino a 1.200 metri e i restanti venti erano un’infinita pietraia molto ripida (pensate che la quota di dislivello in discesa è di 1.267 metri).
Insomma l’incubo premonitore, o come caspita si può definire, rischiava di fiaccarmi. Invece forse per via delle ore di sonno (nove tonde tonde), forse per gli undici meravigliosi gradi al risveglio, o forse per un compromesso storico dei miei bioritmi, stamattina ero bello tosto, di buon umore (nonostante la sveglia anticipata di un’ora). Risultato: mi sono divorato la salita fresco come un Sangiuliano dopo la lettura del libro quotidiano, nonostante fosse il ventiduesimo giorno di marcia ininterrotta (a un’età, la mia, non proprio da tempo delle mele). Soprattutto l’altimetria mi ha consegnato un pensiero – qui si pensa, eh! – su quella che definirei artrite spirituale.
Tendiamo a irrigidirci nelle nostre considerazioni, siamo poco elastici nel tradurre i segnali del nostro corpo e troppo proni verso quelli della nostra psiche. O meglio, non riusciamo a mettere in contatto i vari reparti operativi della nostra persona e lasciamo convergere nello spirito tutto quello che ci scoccia decrittare.
L’artrite spirituale si guarisce rispettando la vera essenza delle salite e delle discese. Soprattutto uscendo dal luogo comune che vede le prime come sinonimo di sforzo, difficoltà, e le seconde come portatrici di agevolazioni, facilitazioni. Niente di più falso come sa chi fa trekking a buon livello, maratone in alta quota, trail, cammini lunghi con uno zaino in spalla.
Nella stragrande maggioranza dei casi le discese sono molto più impegnative delle salite e richiedono uno sforzo tanto maggiore quanto è mancato un allenamento a parte. Perché mettono in gioco altri muscoli, che tendiamo a sottovalutare.
Ecco, metteteci tutte le metafore di cui siete capaci e ditemi se la vostra artrite spirituale non ha bisogno di un occhio diverso. Meno ordinario, meno sbrigativo, meno convenzionale.
D’ora in poi quando vi troverete in una salita della vita, provate a pensare che non è il peggio che poteva capitarvi. Poteva essere una discesa.
Nella foto una minima idea della pietraia di stamattina.
16 – continua