Gli avvoltoi su Report (che sbaglia)

La sensazione è che non aspettavano altro. Tutti in fila ad attendere il passo falso di Report per ottenere due risultati in un sol colpo: mettere o rimettere le mani sulla Rai e soprattutto togliere di mezzo uno dei pochissimi programmi di inchiesta rimasti nel nostro Paese.
Il servizio sui vaccini era sbagliato, ok. Mancava di prospettiva, di aperture scientifiche: sarebbe bastato usare la testimonianza cruciale come spunto di approfondimento e dar voce alla Scienza con la esse maiuscola (ne abbiamo parlato diffusamente qui).
Ma epic fail a parte, restano i meriti storici di un programma difficile da realizzare e impossibile da cancellare. Report è il manuale di un giornalismo in estinzione, è la risposta argomentata ai bimbimikia di Facebook, è il totem contro il nauseabondo dilagare delle fake news. E un errore, seppur grave, non può oscurare la sua stella.
Il valzer della politica attorno al giornalismo è la parte più grottesca della vicenda. Movimenti che volevano abolire la Rai s’inventano paladini della televisione pubblica. Figuri più o meno loschi che sul complottismo (e su un certo negazionismo di maniera) hanno basato le loro fortune, cantano (e pure in modo stonato) vittoria. Partiti che predicavano un inconfessato perdonismo per i loro accoliti beccati con le mani nella marmellata si scoprono intransigenti sostenitori del castigo esemplare e della pena certa. Insomma un incrocio di cattive intenzioni e di infelici trasversalismi.
Ricordiamocelo: peggio di un’informazione sbagliata c’è solo una correzione sbagliata.

Fantascienza, altro che politica

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Un estratto dall’articolo di oggi su La Repubblica.

Piccole certezze che crollano. L’Ars non è il regno dei privilegi, ma quello della fantascienza. Gli scampoli d’inchiesta sulla contabilità dei gruppi parlamentari regalano infatti bagliori di emozione che rimandano più ai raggi B vicino alle porte di Tannhäuser, che alle furberie dell’onorevole di turno che predica così così e razzola a scrocco.
Perché è fantasia pura quella del deputato che compra 14 cassate coi soldi pubblici nel bar di cui è pure socio, realizzando così una mirabile sintesi tra interesse privato e interesse privatissimo. E non è da meno la pulsione culturale di un altro parlamentare regionale che lascia galleggiare parole come “amore perfetto”, “diario di un seduttore”, “coperchio del mare” su un prezioso foglietto che non è missiva di passione e sentimento, ma semplice scontrino fiscale di libri che non pagherà lui.
Che ci volete fare, il contribuente bue non ha la sensibilità giusta e magari si arrabbia. Mentre dovrebbe ammutolire, estasiato, davanti al colpo di teatro di un deputato che se gli mancano gli spiccioli per pagare le bollette o – anima nobile – per regalare i fiori alla moglie, i soldi non li chiede all’amico o al vicino di scrivania come fanno tutti i comuni mortali, ma se li fa anticipare dal “contributo portaborse” del partito, cioè da tutti noi che non siamo né suoi amici né, purtroppo, suoi colleghi.
Tutto è gioiosamente futuristico nell’astronave dell’Ars, dove è meglio l’uovo oggi e pure la gallina domani. (…)
Loro, gli eletti, hanno già superato i bastioni di Orione e sono oltre. Impavidi. Fuori dal mondo.

Privilegi, promesse e gattini ciechi

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Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Sappiamo tutti che la fretta è cattiva consigliera, ma all’Ars lo sanno meglio di noi. Perché con la premura non si risolve un bel niente e anzi muovendosi con troppa rapidità si rischia di fare danni. Soprattutto quando si tratta di soldi.
Fresco di elezione, il governatore Rosario Crocetta aveva posizionato la ciliegina sulla torta delle promesse davanti alle telecamere di Servizio Pubblico: “Voglio dimezzare gli stipendi dei parlamentari. Diranno di no? Allora ce ne andiamo tutti a casa”. E dato che una ciliegia tira l’altra, aveva aggiunto: “Mi dimetto se fra tre mesi si continuerà a parlare sempre degli stessi sprechi”. Continua a leggere Privilegi, promesse e gattini ciechi

Ricordate, il web non è democratico

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Dopo gli ultimi eventi che riguardano il Movimento 5 Stelle (ma non a proposito della politica del Movimento) mi ha colpito l’ennesimo riproporsi del concetto di democrazia in rete. E’ una discussione ormai antica, ma che non si arricchisce di nuovi contributi rimanendo vincolata a un concetto vetusto di maggioranza.
Il web, oggi più di ieri, non garantisce diritti e non sancisce patti di uguaglianza. La falsa prospettiva che chiunque in rete possa avere diritto di parola ha fatto molti danni non già alla verità, che è concetto astratto e delicato, ma alla verosimiglianza, che è concetto più alla portata di noi mortali. Un clic non è un voto, un clic non vale come un altro clic: non esistono certificazioni scientifiche e logiche che diano al web la corona di sovrano della democrazia.
E ciò soprattutto perché quel che è infinitamente grande, è infinitamente ristretto nell’attendibilità giacché se non ci si può contare con ragionevole certezza non si ha l’idea base del terreno su cui muoversi e confrontarsi.
Per non parlare dell’emivita di un clic ragionato, figura molto di moda in questi tempi di politica telematica (e, ripeto, non è solo al M5S che mi riferisco): in un secondo col mouse si può scegliere qualcosa e il suo contrario, basta un movimento impercettibile di polso.
Insomma, chiunque sul web può fare qualunque cosa con la speranza di contare come chi invece si muove con cauti ragionamenti. E ciò è esattamente il contrario della democrazia.

L’Italia di domani? E’ quella di ieri

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Prendete 14 politici di lungo, lunghissimo (forse troppo) corso e lasciate che si raccontino su carta attraverso le loro stesse parole in un collage spesso esilarante: il risultato è “A sua insaputa”, libro scritto da Alberto Giuffrè e Filippo Maria Battaglia per Castelvecchi RX editore.
Da Vendola a D’Alema, da Bossi a Bersani, da Di Pietro a Fini, la Seconda Repubblica o quel che ne resta affiora nelle pagine del volumetto con tutta la sua forza grottesca: Prodi rimpiange di non saper cantare, Mastella inciampa nella citazione sbagliata di Neruda, Formigoni confessa la sua passione per le vacanze, Berlusconi rivive nelle testimonianze delle sue donne-ancelle.
Grazie a questa autobiografia non autorizzata della politica morente si collaudano tutte le sfumature di un sorriso, dall’amaro al dolce e si capisce perché l’Italia di domani è ancora irrimediabilmente quella di ieri.

La voce del (fratello del) padrone

Senza titolo

Anche oggi l’home page del giornale.it fa un buon lavoro per il fratello del padrone.

L’informazione politica di Barbara D’Urso

Il nuovo corso dei pomeriggi televisivi di Barbara D’Urso prevede uno spazio di approfondimento politico. Funziona così. La conduttrice mette insieme vari personaggi politici – il livello medio alto è Daniela Santanchè – di vari partiti e di varia estrazione (c’è il deputato, il consigliere comunale, il sindaco di un piccolo paese, eccetera). Poi dà la parola al pubblico, che è stato selezionato ed allevato come si fa coi leoni del circo, e si scatena la rabbia cieca. Il numero tipico è quello di un signore, che sino a qualche ora prima era un tranquillo pensionato, con la bava alla bocca che sbraita: “Siete tutti ladriii!”. Non c’è mai un’argomentazione, non c’è mai il tentativo di scalfire la corteccia del qualunquismo, qui e in tutte le opere della D’Urso. Nel siparietto popolar-politico va in onda un finto pluralismo di posizione che illude e deteriora gli spazi di libero pensiero. Perché la casalinga distratta che mescola la polenta mentre guarda “Pomeriggio 5” magari si convince che la spending review raccontata con l’effetto flou di Barbara D’Urso è un’invenzione degli anarchici e che il motto della modernità è “si stava meglio quando c’era lui”. Il pubblico in studio grida e suda, i politici in studio gridano e sudano per solidarietà, la conduttrice rasserena i finti animi con una finta equidistanza che è più irritante degli antichi pipponi di Emilio Fede. Il risultato è un can can di populismo mirabilmente in linea con la beatificazione accordata da Berlusconi che ha posizionato la D’Urso nell’olimpo del (suo tipo di) giornalismo.
La nuova informazione politica del regime di plexiglass arcoriano non passa più dai tg addomesticati, ma filtra subdola attraverso programmi di alleggerimento cogliendo di sorpresa i telespettatori più ingenui, più distratti, più deboli. Probabilmente dovremo rivedere il nostro concetto di fascia protetta.

In caduta

Grillo è la spinta.

Berlusconi è il baratro.

Ingroia è il vuoto.

Bersani è la rete bucata.

Monti è lo scoglio fatale.

I forzati della simpatia


C’è questo trend della simpatia, tra i politici aspiranti premier. Battute, allusioni, uso degli animali, scenette ai comizi. Come se la simpatia fosse un mestiere che si impara: beh, oggi mi faccio due o tre orette di training con un volumetto di Gino Bramieri.
Il più inefficace degli antidoti contro l’antipatia atavica della politica italiana è l’allegria finta, l’ammiccamento forzato a favore di telecamera. Senza voler fare il nemico della contentezza, credo che quello che oggi serva a un aspirante capo del governo sia la spontaneità, l’immediatezza, non il copioncino mandato a memoria con prestazioni da repertorio dell’Istituto Luce.
Insomma, siamo la repubblica delle banane: a che serve fare le scimmie?

Quello che mi convince di Beppe Grillo

A parte le frasi folkloristiche sui missili e sulla morte dei politici, due o tre di cose che ho ascoltato di Beppe Grillo nel suo comizio di Parma sono più che giuste, talmente scontate da sembrare banali.
Ad esempio nessuno ha pensato di mettere realmente mano alla semplificazione delle leggi, nonostante ci sia una sorta di ministero ad hoc. Grillo, da buon affabulatore, spiega che se una legge non si capisce, ha in sé un trucco. E ha ragione: basti pensare al groviglio di norme fiscali o ai capitoli di una finanziaria. Perché nessuno ha mai pensato di togliere le astrusità dai codici e scrivere in buon italiano?
Altro argomento sono i costi della politica. Tutta roba già detta, già sentita. Ma Grillo può vantare il successo dell’esperimento siciliano, in cui i suoi deputati hanno girato alla Regione la stragrande parte del loro compenso. Chi lo aveva mai fatto prima?
Infine i controlli fiscali con la presunzione di colpevolezza del contribuente. Vi ricordate quando ci dissero che “pagare le tasse è bello”? Ora ci vogliono convincere che non solo è meraviglioso dissanguarsi, ma è eccitante essere trattati da evasori sino a prova contraria. No, tuona Grillo (a ragione): non è lo Stato che deve chiedere al cittadino come spende i suoi soldi, ma esattamente il contrario.
Come vedete sono tutti temi elementari, che potrebbero stare alla base di ogni programma di ogni partito. Chi si sognerebbe di dire che le leggi devono essere scritte in modo incomprensibile o che è bene che i partiti costino milioni e milioni di euro?
Grillo ha dalla sua parte la linearità, anche violenta, dei ragionamenti: se rubi sei un criminale e non puoi stare al governo; se sei giovane, sei più forte di un vecchio; se un movimento a costo zero diventa una forza politica, vuol dire che la politica può essere fatta a costo zero.
Al momento, pur avendo in passato mosso critiche a Beppe Grillo, non ho sentito proposte più convincenti.