Che sia pioggia. E arcobaleno.

L’altro giorno, scrivendo una cosa destinata all’oblio, riflettevo sul fatto che chi desidera vedere l’arcobaleno deve imparare ad amare la pioggia.

Per mestiere e per vocazione sono sempre stato gioiosamente abituato, quasi forgiato, al peggio: non certo per resistergli, ma per poterlo recensire da un angolo minimamente riparato, da un punto di osservazione elevato al punto giusto per non falsare la prospettiva e basso quanto basta per non impantanarsi, immobilizzarsi, annegare. Il meglio nei miei anni d’oro di giornalismo era spesso il peggio della cronaca. Capita a chi ha scelto il mestiere di raccontare, anche dalla cucina di un giornale (perché la cronaca non è fatta soprattutto di prime file, ma anche di braccia che impastano e teste che immaginano dove altre teste vogliono andare), capita soprattutto a chi sa che persino nel paese dei balocchi c’è un cattivo in agguato che fa di quel posto il luogo che tutti sogniamo. Siamo arcobaleno che nasce dalla pioggia.

In questi frangenti di paura epidermica, di starnuti che sembrano fucilate, di febbri da prime pagine, di anziani caduchi e di casuali untori, c’è un senso comune che va cercato, e possibilmente trovato, nelle piccole cose perdute. Che non sono la convivenza forzata con i figli che magari conoscevamo solo biologicamente o la confidenza recuperata con un libro sepolto per anni sotto le riviste sul comodino, ma sono proprio i nostri vicini di sempre: il/la collega dall’alito pesante ma, lo scopriamo solo ora, dal cuore accogliente; l’amica/o che si cura di noi oltre l’ordinarietà di un aperitivo; il parente che era foto sbiadita di un mondo in Polaroid e che si rivela nelle tre dimensioni fondamentali di un mondo in emergenza, ci sono – ci sono – ci sono.  

Grazie a un virus, e non a un mahatma, stiamo imparando che quando le ruote sono a terra il problema non è gonfiarle, ma riprendere a correre. Perché la grande crisi che potrebbe ammazzare il mondo non è energetica o nucleare, non è terroristica o ambientale. È la crisi più subdola e terrorizzante e scaturisce dalla ricchezza ingiusta, dal potere dell’ignoranza, dalla grettezza dei numeri, dalla dittatura del sentito dire.

È, ve lo confesso, la battaglia professionale più complicata che abbia mai combattuto poiché non ha schieramenti ufficiali ma solo partigiani, anarchici, truppe di volontari. È la battaglia per salvare l’entusiasmo in un mondo di fanatici.

Ecco perché oggi è importante sognare e garantire i sogni allo stesso modo dei farmaci e del cibo. Ecco perché le istituzioni culturali sono ospedali del sapere, che a loro modo salvano esistenze.

Ecco perché, come in uno Stargate, dobbiamo imparare a guardare la pioggia in modo diverso. “C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo”, diceva De Andrè. Ma ancora l’arcobaleno non ci mancava maledettamente tanto.

Dacci oggi una sana tragedia

novavaxPrendete un appunto. Novavax. E se volete investire qualche euro, tenete d’occhio il titolo Novavax Inc. sul Nasdaq.
Se proprio siete ricchi tenete un altro occhio (tanto ne avete due) sul mercato farmaceutico americano.
La congiuntura mondiale si chiama influenza suina e la Novavax è l’azienda che produce il farmaco cruciale contro questa ennesima pandemia.
So di chiedervi uno sforzo mentale che mal si concilia con l’urgenza dei fatti vostri, ma è mai possibile che anche la più elementare ribellione della natura, della biologia, debba pagare il dazio all’economia (ir)reale?
Una volta c’erano i terremoti e nei luoghi disastrati non si organizzavano meeting mondiali. C’erano le epidemie e l’unica borsa alla quale si guardava con speranza era quella del medico. C’erano emergenze senza (cattivi) pensieri che non fossero di pura sopravvivenza.
Oggi – ma posso sbagliare – il tempo che separa una causa da un rimedio sembra calcolato in perfetta coincidenza coi consigli per gli acquisti.
Una volta la salvezza arrivò con l’arca, adesso confidiamo in una marca. In qualche millennio ci siamo evoluti di una sillaba.