Da San Martin del Camino ad Astorga.
Man mano che ci si avvicina a Santiago il cammino diventa ahimè sempre meno solitario. Per intenderci, dopo venti giorni di passi in compagnia esclusiva di me stesso medesimo mi infastidisco anche solo se qualcuno mi affianca (l’effetto rompicoglioni ungherese non si è mai esaurito e in tal senso non ammetto cali di tensione, tipo Caselli con la mafia negli anni del depistaggio).
Santiago è la nota dolente di questo cammino, perché è un luogo fondamentale per chi ci arriva una volta, due, ma alla terza cominciano a pesare la folla, i prezzi alle stelle, l’invivibilità di una città simbolo che diventa simbolo di altro, qualcosa di diverso, irritante. Infatti ho deciso che stavolta la eviterò e me ne andrò lontano, dritto verso Porto (ma in pullman) che, tra l’altro ha il volo diretto per Palermo.
Tenete conto di un fatto incontrovertibile: la maggior parte di quelli che dicono di aver fatto il Cammino di Santiago hanno percorso solo le ultime due o tre tappe: insomma è il Cammino dell’hinterland di Santiago. Questo vi dà la misura di quanto la città sia imbuto e contenitore di un fenomeno globale ancor prima che di un pellegrinaggio.
Tra le dieci-undici persone che ho incontrato stamattina lungo una tappa inaspettatamente fresca, causa pioggia annunciata e pervenuta come un coitus interruptus (cioè scaricando altrove), c’era un padre in bici con tre figli tutti bardati per una missione di lunga pedalata. Si capiva tutto chiaramente: padre e figli perché identici con la stessa corporatura longilinea e la stessa fisionomia; lunga pedalata perché avevano tutti un bagaglio ben evidente; una squadra educata al profitto fisico (andavano forte e si capiva che erano allenati) e alla netiquette (precedenza ai pedoni sempre); e un dettaglio delizioso per me, il “buen camino” ripetuto da ciascuno di loro con sorriso di ordinanza davanti al camminatore affaticato. Un quadretto di armonia familiare, di solidità sportiva, di educazione semplice ma inderogabile.
Lo confesso, ho un nervo scoperto per certi quadri di vita. Ed è un ambito talmente delicato che la mia indole mi consente di affrontarlo pubblicamente solo con un numero di parole ridotto.
Non sono stato padre per scelta. Non ho mai voluto figli e non ho mai imposto questa mia scelta a nessuno. Chi mi ha condotto o affiancato per un tratto di vita lo ha fatto condividendo e/o rispettando questa visione delle cose. Quindi bandita la parola “rimorso”.
Però quel padre che pedala coi figli lungo una strada lunga giorni che diventeranno anni di ricordi ed eternità umana di gioia ha suscitato nel sottoscritto, catorcio monocilindrico, un sentimento che a voi descrivo come ammirazione, e a me, nell’abbaino angusto del mio cuore, confesso come dolce invidia.
Penso alla fabbrica di ricordi che quel padre ha messo su con lungimiranza. Al divertimento che quei ragazzini, sgommando ordinati sullo sterrato, stanno capitalizzando. A quella quota di affetto e cura di sé che diventerà rispetto, condivisione, investimento sui sentimenti. Pedalare insieme, sudare insieme, cenare insieme, dormire insieme, progettare insieme, per giorni che resteranno per una vita. Se siete genitori fatelo ora, subito.
Imbastite una missione, prendete una striscia di tempo, staccatela dal resto e dividetela in tante strisce coi vostri figli, progettate avventure alle quali dedicherete mesi e mesi di preparazione, fatevi comandanti e complici, esploratori e turisti. Faticate coi vostri figli, ve ne saranno grati.
Prima che la pigrizia vi ingrigisca, prima che l’ordinario vi sommerga, prima che ci sia un dopo imprescindibile.
Mollate tutto e andate a impastare il pane del vostro futuro. Perché in fondo presi a solo, siamo molliche.
La quota di parole a me concessa per questo argomento finisce qui.
15 – continua