Il corso di Fattesto

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Dal 12 febbraio parte  la nuova edizione del corso “Editoria e creatività” organizzato dal gruppo Fattesto di cui mi onoro di far parte. Le lezioni si terranno ogni venerdì (ore 18-21) e sabato (ore 9-12) nella sede dell’Assocomav di via Abela 10, a Palermo. Ai corsisti risultati più meritevoli saranno offerti stage presso le redazioni di case editrici, riviste e portali internet. Tra i docenti ci saranno editor, scrittori, giornalisti, grafici ed esperti di formazione e marketing.
Ci sono due motivi per cui vi faccio questa comunicazione.
Primo. Alcuni tra i corsisti formati nelle scorse edizioni sono stati assunti in case editrici e redazioni di giornali con contratto a tempo indeterminato o hanno avuto incarichi come collaboratori: insomma sono entrati – e non per magia o per spintarella – nel mondo del lavoro.
Secondo. Sabato scorso c’è stata la prima adunata di corsisti per un incontro preparatorio ed è andata talmente bene che adesso abbiamo adesioni per un altro meeting pre-corso, sabato prossimo.
Se volete essere dei nostri – tenendo conto che il corso è a pagamento perché non gode di alcun finanziamento pubblico – potete scrivere a: fattesto@fastwebnet.it

Per disgrazia ricevuta

noemi letizia

Noemi Letizia dice che la sua amicizia con Berlusconi la penalizza nel lavoro.
Si rifarà con la lista degli invitati al suo prossimo compleanno.

Mangia tranquillo

alberto-sordi

Il ministro per l’Attuazione del programma (cioè il controllore incontrollabile dei controllati) Gianfranco Rotondi blatera – udite udite – contro la pausa pranzo, usando argomenti come: “Io non pranzo da anni”.
Mettendo da parte le metafore grossolane sull’appetito dei politici e sulla loro capacità di mangiare in ambiti ben diversi da quelli culinari, sarebbe opportuno che il primo giornalista che incrocia Rotondi gli chiedesse qualche notizia sul suo reddito, sulla sua qualità di vita e sugli agi di cui gode per svolgere il suo lavoro.
Perché è facile discettare in termini di statistiche europee e di produttività quando l’Europa si invoca solo se è un paragone comodo e si considera che il lavoratore è differente da un limone solo per il colore del succo quando lo spremi.
Il ministro Rotondi, prima di sprecare il suo tempo a rilasciare dichiarazioni fantascientifiche (leggi: cazzate stellari), dovrebbe farsi un paio di anni in un cantiere navale, un altro paio in un call center e un lustro di manovalanza edile.
Poi di certo cambierebbe idea e la finirebbe di sprecare il tempo – pagato da noi – a rilasciare dichiarazioni su ciò che non gli compete.
Ho un sospetto: queste scemenze le ha dette durante la pausa pranzo.

Cuba burger

Il McDonald's di Guantanamo

Pare che il McDonald’s di Guantanamo cerchi un assistant manager. Sempre che Obama non chiuda la base entro qualche mese.

Astenersi perditempo

Senza troppi giri di parole: ho l’incarico di reclutare una piccola squadra di giornalisti – tra deskisti e collaboratori esterni – per un nuovo progetto editoriale che riguarda Palermo.
Per evitare telefonate notturne, improvvise materializzazioni di ex-ex-ex amici, beghe di corporazione, restringo il campo dell’offerta.
Cerco giornalisti con esperienza redazionale, cioè persone che sappiano pesare le notizie, scriverle e titolarle. Professionisti rapidi nell’esecuzione che abbiano un’agenda telefonica ben curata: per loro ci sarà una retribuzione fissa mensile.
Cerco anche giovani che vogliano farsi le ossa e che mostrino di avere passione: per loro ci sarà la possibilità di avere una vetrina prestigiosa.
Ognuno col suo bagaglio di esperienza e/o di passione, senza “padrini” e senza possibilità di saltare la coda: come si faceva una volta, almeno dalle mie parti.
Cerco artigiani della parola che vogliano stupirmi a tal punto da inventare uno spazio tutto per loro.
Chiunque voglia proporsi può inviare una e-mail.
Astenersi perditempo.

Fame

di Cinzia Zerbini

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Si deve pur campare

Grazie a Verbena.

Il mio ufficio infelice

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di Quarant’Ena

Tutti gli uffici felici si assomigliano, ma gli uffici infelici sono infelici a modo loro. Quello in cui lavoro io ha il seguente organigramma:
1) Il capo. Affetto dalla sindrome del Messia, quando arriva non saluta perché “salutare i dipendenti  – sono parole sue – può dare adito a una forma di confidenza”. Entra  nella sua stanza, chiude la porta, e mi chiama col telefono. Il mio capo è un genio perché sta lavorando seriamente a importanti cambiamenti della grammatica italiana. Lui che detesta le e-mail perché vuole le cose “cartacemente”. Lui che, anziché indossare un camice bianco e togliere i calli alle persone anziane (anche quelle col piede diabetico), è il mio capo.
2) Collega Munzone Giuseppe campione mondiale di adulazione del capo. Tutt’e due rappresentano una molotov contro la costruzione linguistica. Di qualsiasi lingua.
3) Collega Di Grazia Assunta, alta 1,80,  riesce a puzzare di arancino al ragù già alle nove del mattino. Merito anche del suo stilista personale che ha la residenza in Cina ed evidentemente crea i suoi capi d’abbigliamento col vello di animali in avanzato stato di decomposizione.
4) Collega  Bivona Teresa. E’ la segretaria tuttofare che porta il fardello di disgrazie di un intero palazzo. Il primo marito l’ha lasciata quando era incinta. Ha avuto un tumore al seno. Si è risposata ha fatto altri due figli e anche il secondo marito l’ha lasciata per un’altra. E nonostante ciò riesce a farsi i fatti degli altri con puntigliosa sistematicità, quasi per vocazione.
5) Collega Giacalone Salvatore, detto “‘u tambutu”. E’ talmente tirchio che fa le fotocopie della settimana enigmistica. Fonti informate parlano di una relazione omosessuale, ma di questo non c’è alcuna certezza.
Ecco, io lavoro con questi colleghi. L’umanità deve sapere.

Professione precario

Illustrazione di Gianni Allegra
Illustrazione di Gianni Allegra

Sono tempi difficili. Migliaia di lavoratori, per colpe di chiunque tranne che proprie, hanno perso il lavoro. Il precariato è diventato il mestiere ufficiale. E nel segno di una crisi che tutto avvolge e molto nasconde, ci si piange addosso rimanendo immobili.
Ancora una volta – del resto questo è un blog, mica un servizio pubblico – devo citare un’esperienza personale.
L’altro giorno mi ha chiamato un’amica, direttore di un mensile che fa capo al più importante gruppo editoriale italiano. Lei mi ha esposto i suoi dubbi sul futuro dell’editoria. Abbiamo parlato dei nostri rispettivi progetti (i suoi molti più rilevanti dei miei), poi mi ha fatto una domanda: “Conosci persone che sappiano scrivere e che abbiano voglia di lavorare?”.
La sua domanda è stata la conferma a un convincimento che ho segretamente coltivato, in questi ultimi anni: una buona porzione di questa crisi di occupazione è figlia della mancanza di professionalità.
Il discorso vale ovviamente per i mestieri in cui la specializzazione ha un valore pari alla duttilità del lavoratore (che, per essere chiari, può decidere di mettere a disposizione la propria esperienza in cambio di un compenso riveduto al ribasso per evidenti fattori congiunturali).
Quasi un anno fa ho firmato la lettera di dimissioni da un’azienda per la quale ho lavorato ininterrottamente dal 1984. Non avevo un altro lavoro che mi attendeva, mi ero semplicemente rotto le scatole di un sistema che ritenevo scriteriato. Sono della linea di pensiero che tende a derubricare le scelte a semplici scommesse. Sono stato fortunato: oggi lavoro col massimo della libertà, guadagno il giusto (anche un po’ meno) e continuo a preoccuparmi per il futuro esattamente come facevo vent’anni fa.
Un parte, solo una parte, dei disoccupati di questo Paese sono figli (e purtroppo anche seguaci) dell’assistenzialismo che governo e opposizione tendono ad alimentare nel segno di un populismo che poco ha a che fare con la soluzione del problema. Gli aiuti una tantum, le elargizioni su larga scala che sulla porta di casa si traducono in spiccioli non portano a niente di utile.
Probabilmente già domani saremo costretti a cambiare ottica: lavori a progetto, massimo rendimento, sperando in una coltura intensiva dei talenti e nella responsabilizzazione al cento per cento. E’ una missione che riguarda ognuno di noi, senza colori politici né pregiudizi.
Non so quanto il nostro Paese sia pronto.

Un premio per imparare

fratellanza
di Raffaella Catalano

La cerimonia ha uno stile tra Hollywood e Bollywood. Ma si svolge a Palermo, al Teatro Ranchibile dell’istituto Don Bosco. Sul palco dei salesiani c’è un trono d’oro su cui siede la regina della festa, in abito rosso con collo di finto ermellino, guanti bianchi, corona e scettro. Intorno, dieci principesse, tutte belle, giovani, in lungo e supercolorate, in attesa di sapere chi sarà l’eletta del 2009 in un concorso che somiglia a Miss Italia, anche se la prescelta sarà una filippina. Sono quasi tutti filippini, al Ranchibile, a partire dal presentatore, Armand – il capo di questa comunità asiatica a Palermo – che è anche un cantante famoso, non solo nel suo paese e nella nostra città.
I siculi presenti sono pochi. Ma buoni, a quanto pare. Tant’è che sono lì per ricevere il premio per il “Miglior datore di lavoro dell’anno”. Uomini e donne che annoverano dei filippini tra i loro impiegati regolari: in casa, nelle aziende di famiglia, in campagna o in un negozio. Hanno tutti addosso un fiore verde ricoperto di brillantini: le signore in testa, i signori appuntato sulla giacca. Quel fiore consegnato all’ingresso distingue i candidati al premio dai loro parenti e accompagnatori.
Dopo una preghiera, qualche canzone, un paio di video con la storia di famiglie filippine ormai radicate da anni a Palermo – il tutto rigorosamente in lingua tagalog e altri idiomi asiatici – si balla e poi si fa una sosta per il rinfresco. A metà della serata partono le interviste, stavolta in italiano, a chi tra i presenti stranieri conosce e apprezza i datori di lavoro siculi candidati al premio, per ricostruire la storia della loro disponibilità, del loro altruismo, della loro sensibilità e delle altre qualità umane che li avvicinano, secondo i loro impiegati, più a dei benefattori che a dei datori di lavoro in senso stretto. Una specie di agiografia trionfale, insomma.
Il rito culmina con la consegna di una targa d’argento e di diversi altri premi a corollario.
E poi di nuovo canti, balli, drink e stuzzichini, fino all’elezione della “princess” filippina edizione 2009, al calar della notte.
Folclore? Pacchianeria? No, non direi.
Chiedetevi quando mai avete visto un datore di lavoro nostrano celebrare un suo dipendente, anche se impeccabile. E quando mai avete visto un impiegato nostrano celebrare il suo datore di lavoro, pur se magnanimo.
Questo non è colore locale asiatico. Questa è civiltà. E in tempo di scontri e di razzismi idioti è una grande lezione di vita.