Morti perché la pensavano alla stessa maniera

Tra le cose meno interessanti per raccontare la diffusa perdita di interesse nei confronti dei giornali – fenomeno di portata mondiale con rare eccezioni e infinite (noiose) sfaccettature – c’è il mancato interesse dei giornalisti stessi nei confronti di una narrazione plausibile. Attenzione, ho detto plausibile, non realistica: ma ci arriviamo. Intanto mi preme rassicurarvi: cercherò di essere meno noioso possibile con la speranza di non essere abbandonato prima dell’ultima riga. Credetemi, il futuro dell’informazione è qualcosa che ci riguarda molto più di quanto si possa immaginare. Perché, tra l’altro, ci ricorda che grazie alla conoscenza riusciamo a comportarci non già come grotteschi conquistatori del mondo, ma come umanissime anime di passaggio.

Narrazione plausibile dicevamo.
Da lettore anziano, ancor prima che da giornalista per lungo tempo organico alla “macchina” dei quotidiani, mi accorgo con crescente irritazione che molti colleghi inseriscono il pilota automatico. E non è cosa buona: nel giornalismo la migliore navigazione è quella manuale, possibilmente a vista. Ad esempio ciò accade quando devono descrivere un personaggio più e più volte nel corso degli anni. Tipo, se per caso uno è stato indicato una volta come enfant prodige di una tal disciplina, state certi che lo resterà per lungo tempo, sino alle soglie della pensione. Oppure se la descrizione primigenia era anti-questo o pro-quello, le probabilità che quest’etichetta resti in eterno sono direttamente proporzionali all’infondatezza della prima rappresentazione. Più grande è la minchiata, più è probabile che venga reiterata.

Tralascio il capitolo luoghi comuni con esempi relativi perché di farmi nuovi nemici non ho proprio necessità. Dico solo che dalle “isole isolate”, dai “panificatori che non panificano”, dalla “martoriata Ucraina”, dal “poteva essere una tragedia” il trend più in voga specialmente nel web è quello di un sereno giornalismo cimiteriale.
Esempio imperituro gli articoli sulle vittime di incidenti stradali che nei titoli assurgono a eroi che non ce l’hanno fatta, con una particolarità: il ricordo è solo per nome, mai che ci scappi un cognome. Esempi: “Ciao Luigi, gigante buono” per un poveraccio sovrappeso; o “Addio Paoletta, non ce l’hai fatta ma ci hai provato” per una disgraziata che aveva cercato di opporsi alla malattia; o l’evergreen “Grazie Mario/a, ora insegna agli angeli…” e di seguito la materia di insegnamento a seconda del mestiere, dell’hobby, della propensione della vittima.

Badate bene, qui non c’entra il buongusto nel segno del quale in realtà stiamo assistendo a un appiattimento di ogni spunto narrativo come se dove c’è un morto ci deve essere per forza una messa cantata (quando me ne andrò siete avvisati, non vi permettete!), ma qualcosa di peggio: l’assoluta mancanza di senso di realtà, di visione critica, di sano cinismo.

Una volta, trent’anni fa, un corrispondente attaccò un pezzo su un tragico scontro frontale tra due auto in modo esilarante: “Morti perché la pensavano alla stessa maniera” (ne ho scritto qui). Era una bestialità è vero, ma denotava almeno un picco nell’encefalogramma. Oggi nessuno si sognerebbe di scrivere una cosa simile, e non è proprio una fortuna.

Scrittura a parte, c’è poi il problema dei problemi.
Quanto pesa un giornale nella vita dei suoi lettori?
Jeff Jarvis, giornalista statunitense e grande esperto di mezzi d’informazione, lo scorso anno ha pubblicato un saggio, Magazine, in cui ha spiegato che per lui l’essenza di un magazine non sono né gli articoli né le immagini in esso contenuti, ma la comunità. Come si legge su Internazionale, Jarvis racconta che le riviste, almeno quelle statunitensi, che poi sono tra le più antiche, sono state costruite proprio sulle comunità. Un tempo erano luoghi intorno ai quali i lettori e le lettrici si riunivano perché condividevano un interesse, un bisogno, una circostanza, un particolare gusto culturale, un’affinità. “Le riviste non si limitavano a riunire le comunità, ma le spingevano ad agire in campagne e battaglie”. I magazine statunitensi, ricorda Jarvis, sono stati i primi a muoversi per abolire la schiavitù (National Era), sono stati fondamentali per il movimento femminista (Ms. Magazine) e poi per il movimento pacifista e contro la guerra in Vietnam (Ramparts, The Nation, Rolling Stone).

In Italia è stato così per La Repubblica di Eugenio Scalfari, per L’Europeo negli anni ’70, per L’Espresso, persino per Cuore di Michele Serra e altri grandi testate. Ci si riconosceva in quel che si leggeva, ancor prima di sfogliare le pagine. C’era un senso di appartenenza culturale e, diciamolo, anche politico. Perché il senso di un giornale che fa comunità sta nel suo ruolo sociale, aggregativo e pacificamente rivoluzionario.
In molti articoli noi ci siamo riconosciuti ancor prima di analizzarli perché sapevamo che il coagulo attorno a quella testata era talmente forte da andare oltre il caso singolo. C’era un’idea di mondo comune (comune l’idea, comune il mondo) che ci agganciava alla realtà. I giornali erano luoghi strambi e disperati per chi pensava di farne a meno, salvo poi ritrovarsi a dover subire la politica e la passività sociale. Erano invece fucina di fulminazioni e passioni per chi credeva che c’è sempre una storia da ascoltare anche quando i giochi sembrano fatti e la partita conclusa.
Il guaio è che molti dei giornalisti di oggi non hanno letto altro che il giornale che fanno oggi, con quel che ne consegue.