Osteria numero venti, se la spiaggia avesse i denti…

Da Corriere.it.

Lo stile Francese

Ho finito di leggere Il quarto comandamento di Francesca Barra e ne ho scritto su diPalermo.
Qui invece mi piace fornire una inquadratura diversa della storia, che – lo ricordiamo – è quella del giornalista Mario Francese, ucciso dalla mafia, e del figlio Giuseppe, che rese possibile il riavvio della macchina giudiziaria per scoprire assassini e mandanti.
Sono stato collega di Giulio Francese, il maggiore dei figli di Mario. Al Giornale di Sicilia eravamo compagni di banco, dato che le nostre scrivanie erano vicine (nonostante ci fosse una vetrata nel mezzo, lui ha dovuto sopportare per anni la mia musica e la mia voce squillante).
Dei tormenti e del dolore che Giulio ha vissuto nella sua vita non c’è mai stata traccia visibile al giornale. La compostezza e la serietà dell’uomo e del professionista non hanno mai conosciuto incrinature. Neanche nei giorni drammatici del suicidio del fratello Giuseppe, Giulio mostrò di perdere mai il controllo. Eppure lui non è una persona fredda, al contrario è un tipo sanguigno, pronto a battersi per un principio e a difendere un’idea coi denti.
Solo che nel dolore Giulio ha sempre veleggiato in solitaria, almeno in redazione. E ciò lo ha reso titanico ai miei occhi.
L’ho rivisto qualche giorno fa, quando è venuto a casa mia per consegnarmi il libro. Oggi è in pensione, nonostante sembri un ragazzino e abbia ancora lo stesso ciuffo di capelli elettrici che, al giornale, era il termometro della tensione lavorativa. Era sereno e sorridente come non lo vedevo da molto tempo. Pensavo che fosse per la sua nuova vita un po’ più rilassata e invece dopo aver letto il libro ho capito perché: in quelle pagine ci sono molti cerchi che finalmente si chiudono.
Il sollievo è un sentiero lungo che, pur partendo dal dolore, alla fine può arrivare sino alla felicità.

Sfilate contundenti

Le aspiranti miss si sono date battaglia a colpi di sfilate.

Servizio su Miss Padania, Tgcom.

Quei direttori così così

L’occupazione militar-mediatica dei telegiornali ad opera del premier, in un Paese serio, con una categoria di giornalisti appena appena onesti, e con un’opinione pubblica non lobotomizzata dovrebbe suscitare indignazione per un solo motivo: come fanno cinque direttori delle testate più importanti a pubblicare la stessa cosa spacciandola per notizia sensazionale? Berlusconi, una volta tanto, non c’entra nulla: ha solo fatto quello che meglio gli riesce, il piazzista di parole (pronunciate da se stesso medesimo).

 

La crociata

La settimana scorsa, scrivendo su questo blog, mi è tornata in mente una vecchia storia.
Qualche anno fa al Giornale di Sicilia il direttore lanciò una crociata contro le parole straniere, soprattutto quelle contenute nei titoli. L’idea di base era condivisibile: spesso per motivi di spazio (i titoli hanno un numero di battute predefinite) si tende a scegliere termini che non tutti capiscono. Solo che, come accade con le crociate, la ragione trovò ben presto il suo sonno nella ricerca ossessiva di un risultato immediato. Tutte le parole straniere dovevano essere eliminate in un batter d’occhio, pena cazziatone da sincope.
Fu così che un dirigente, che non aveva troppa confidenza con l’italiano, stabilì che anche le parole tronche facevano parte dei termini proibiti. In un’epica serata un collega coraggioso riuscì a far passare bar in un titolo, ma dovette capitolare davanti a camion. Il termine indicato dal regolamento era autocarro.

Neanche una domanda a piacere

Se il ministro Brambilla ha un merito, è quello di darci un’idea precisa dello stato del giornalismo italiano.

L’attentato che non c’era

C’è una storia che non è nuova, ma che è passata quasi completamente sotto silenzio: ne parlo solo oggi perché proprio ieri un caro amico e collega me l’ha riportata alla mente.
Nel dicembre scorso Maurizio Belpietro scrisse un editoriale su Libero in cui rivelava che un killer della criminalità pugliese era pronto a uccidere Gianfranco Fini. Pur tra diversi distinguo, Belpietro dichiarava di fidarsi della fonte che gli aveva fatto la soffiata e aggiungeva che nel piano criminale era previsto che l’omicidio fosse attribuito in qualche modo ai berluscones. La notizia ebbe l’eco che meritava anche sugli altri giornali.
Un mese fa si è scoperto che tutta la vicenda era una bufala. La misteriosa fonte di Belpietro era un imprenditore di simpatie pidielline che aveva architettato il tutto per dimostrare la fallacità dei controlli sulle notizie e anche per strigliare quelli di Libero per il trattamento riservato al presidente della Camera.
In pochi ne hanno parlato. Sui giornali la notizia è stata relegata alle pagine interne e in tv non ne ho registrato traccia. Belpietro è ancora al suo posto, nessuno gli ha chiesto conto e ragione del suo errore (si spera in un sussulto d’orgoglio dell’ordine dei giornalisti). L’imprenditore ha raccontato candidamente il suo piano ai magistrati e rischia l’incriminazione per procurato allarme (insieme al giornalista).
Siamo un Paese in cui il primo che si sveglia con un’idea balzana, chiama il direttore di un quotidiano a tiratura nazionale e, senza passare attraverso nessun filtro, ottiene lo spazio che l’ideologia nella quale sguazza il giornale in questione gli assegna in modo acritico.
Ho un’agenda telefonica ben aggiornata, da domani comincio a fare qualche esperimento. Si accettano consigli.

L’emergenza del Giappone e quella di Repubblica.it

Il sito de la Repubblica ha fatto dell’emergenza Giappone un’emergenza giornalistica. Sopra vedete l’apertura dell’home page di ieri sera alle 20. Passi per l’allarmismo, che non ha lasciato indifferente nemmeno Enrico, ma l’orgia di link e di documenti che il quotidiano ha scatenato a proposito del dramma nipponico ha raggiunto i limiti della comprensibilità. Ieri nel titolo principale del sito c’erano rimandi legati a parole come “scanner”, “cellulari”, “buio” e persino “cane”. Nessuno mette in dubbio il valore delle storie scovate dai cronisti e dagli inviati de la Repubblica, ma saggezza e mestiere impongono che le notizie vadano porte nel modo più comprensibile possibile.

Contraddittorio zero

Ieri i telegiornali hanno dato conto della colorita replica del nostro premier alle nuove accuse di reiterata disinvoltura sessuale (con minorenni).
Come al solito, il raffinato Berlusconi se n’è uscito con una battuta. Della serie: non replico e faccio come Annozero, cioè contraddittorio zero.
Tutti a ridere con lui, Bertolaso in testa; molti a indignarsi, nel resto del mondo.
Anche i bambini conoscono la differenza tra la televisione e la politica. Il primo è il mondo del relativo (ma non diteglielo così ai bambini sennò vi guardano male), il secondo è il mondo dell’assoluto.
Mai sentita una verità in tv, mai visto un dubbio sulle labbra di un politico.
Quando il premier godereccio si rifiuta di rispondere alle domande dei giornalisti, offende innanzitutto i suoi elettori, poi tutti gli altri (dei quali gli importa poco, ma che esistono). E il paragone con una trasmissione giornalistica è uno strafalcione logico di cui, in un paese civile, gli si dovrebbe chiedere conto in Parlamento.
I giornalisti e i politici non hanno niente in comune, e per fortuna. Sono distanti negli articoli di legge, nella somma Costituzione, nei contratti e nei privilegi. Se Santoro non rispetta il contraddittorio (berlusconiano) – una regola discutibile perché imposta con clausole che sono state studiate proprio per essere impossibili da rispettare – può andare incontro a una sanzione. Se non lo rispetta il capo dell’esecutivo, c’è un tetto che si sbriciola sopra le nostre teste. Ed è il tetto sotto il quale alberga una cosa che si chiama democrazia.

Gli specialisti

Ieri Minzolini, per il Tg1 delle 20, ha fatto commentare l’autodifesa di Fini alla redazione online. Che è come affidare la telecronaca del Gran premio di Imola a un gommista, o il commento di un comizio di Bossi a un logopedista.