La rivoluzione della gentilezza

Prendo spunto da un episodio secondario per cercare di raccontare un fenomeno di primaria importanza. Nella consueta diretta Facebook del Giornale di Sicilia, Marco Romano che del GdS è vicedirettore fresco fresco, ha colto l’occasione per fare le condoglianze a Emanuele Lauria, cronista parlamentare di Repubblica Palermo (ovvero diretto concorrente del Gds), per un lutto familiare.
Non sono uno che ama il buonismo, come sapranno i miei dodici lettori, però sono uno sensibile ai venti che turbinano, che scompigliano capelli e idee. Detesto le smancerie, ma le amo se conducono in un luogo dove la smanceria si vaporizza. Ecco, in questo piccolo gesto del non-eroe Romano io ho visto un’ispirazione. Che dal mio punto di osservazione ha una presunzione di universalità.
Se tutti noi – battaglieri, incazzosi, tronfi di un tesserino, sudaticci perché effettivamente fatichiamo, cazzeggiatori, seriosi al limite del ridicolo, contestati e resistenti, pennivendoli e umiliati da gente che non sa cosa significa pennivendoli – imparassimo che la gentilezza è l’arma migliore contro la barbarie dell’ignoranza, non sposeremmo un ideale religioso (porgere l’altra guancia rimane sempre il miglior modo per assomigliare a qualcuno che non siamo stati e non saremo mai), ma almeno impareremmo a distinguere tra i barbari e tutti gli altri. In un momento in cui la storia la scrive chi non sa impugnare una penna, nel famoso mondo alla rovescia in cui si mangia di nascosto e si defeca tutti insieme allegramente, dare una pacca sulla spalla al concorrente atterrato da un lutto è un atto di grande rivoluzione culturale in una piccola trincea di resistenza.

Un paio di cose sul Giornale di Sicilia

giornale_di_siciliaDue, tre cose sul Giornale di Sicilia e sullo sciopero che da giorni sta tenendo lontano il quotidiano di Palermo dalle edicole.

Il Giornale di Sicilia come lo conosciamo adesso è figlio, anzi nipote di una serie di errori riconducibili in gran parte, ma non nella sua totalità, alle scelte della direzione: sempre la stessa da quasi trentacinque anni. A seconda dei punti di vista la longevità professionale del condirettore Giovanni Pepi può essere vista come elemento di stabilità o come tarlo di inadeguatezza: se da un lato non si può escludere che un uomo solo al comando per così tanto tempo conosca bene la macchina, dall’altro i risultati ci dicono che la sua guida non è stata sicura. E più di una volta la macchina è finita fuori strada.
Le scelte aziendali al Giornale di Sicilia sono sempre state ottriate, mai lontanamente concordate. Effetto di una direzione forte e, innegabilmente, di una redazione che poche volte ha conosciuto l’unità. Una redazione di gran livello professionale, ma di scarsa, scarsissima lungimiranza.
Prendete il web. Quando intorno al Duemila i vertici di via Lincoln si accorsero che esisteva una cosa chiamata internet, io e Daniele Billitteri eravamo gli unici a bazzicare in quel mondo già da tempo: ovviamente ci prendevano per perdigiorno (per non dire altro). Convinsi la direzione a darci una connessione e ci volle poco per vincere la diffidenza collettiva alimentata da un dirigente dell’epoca che in una riunione disse, testualmente: “Propongo di non scrivere la parola internet sui giornali perché è una cosa che nel giro di pochi mesi finisce”.
Finì come finì e spinsi l’editore non solo ad aprire un sito web, disegnato artigianalmente da Daniele, ma mi inventai anche un inserto settimanale dedicato a quel mondo misterioso.

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Buona musica, Maurilio caro

Maurilio PrestiaSe ti accorgi che stai scrivendo più di morti che di vivi ci sono due cose da fare. Congratularti con te stesso perché ancora sei di questa terra e brindare alla salute di quelli di cui ancora non hai scritto. Ecco, questa è una tipica frase che avrebbe scritto Maurilio Prestia che tutti celebrano oggi come organizzatore di concerti, ma che io ricorderò sempre come giornalista, come critico musicale.
Negli anni Ottanta eravamo giovani e ci muovevamo sulla scia dei critici di maggiore esperienza, Gigi Razete, Fabio Caronna, il fiammeggiante Pippo Ardini. Io e Maurilio scherzavamo sempre sul fatto che non ci incontravamo mai di giorno, del resto era la notte il nostro orticello. Erano tempi di musica a go-go, soprattutto per il jazz e il rock. In certe sere recensivamo anche due concerti in contemporanea – lui per il L’Ora, io per il Giornale di Sicilia – organizzandoci per tempo: ne seguivamo uno l’uno e a notte fonda davanti a birra e sigarette ci scambiavamo gli appunti. Un paio di volte facemmo un gioco ancora più perverso: siccome i concerti erano in location abbastanza vicine tra loro, ne seguimmo un tempo l’uno per poi scambiarci il posto durante l’intervallo.
Era uno spasso Maurilio. Era uno spasso lavorare con lui, che in realtà doveva essere un mio concorrente, ed era uno spasso lavorare a quei tempi con interlocutori come Arturo Grassi e Totò Rizzo, i due pazzi che credettero in uno come me, capellone, vestito di mille colori, chitarrista fallito e fissato col giornalismo.
Me la ricordo, la prima sera in cui mi mandarono a seguire un concerto. Era al Brass e c’era Maurilio, che non scriveva ma ascoltava. Io partorii trenta righe lunghe una notte, l’indomani mattina consegnai il pezzo a Totò che, perfidamente non mi disse nulla. Anzi mi disse: “Aspettiamo Arturo”. Passeggiai sotto la sede del giornale per quattro-cinque ore. Poi tornai alla carica.
“Bravo, 7 e mezzo”, mi disse Totò. Ma non pubblicarono il pezzo: in realtà si trattava di una prova e quel concerto l’aveva seguito l’allora titolare, Fabio Caronna (che io non avevo mai visto, quella sera, perché troppo preso da vergare appunti su appunti, manco avessi dovuto scrivere la biografia di Miles Davis).
Fui felice lo stesso. Quella sera me ne uscii galleggiando sulla mia nuvoletta di orgoglio: presto sarei stato un critico musicale vero! Avrei firmato sul Giornale di Sicilia! E mi avrebbero persino pagato (pochissimo, ma chi se ne fregava…)!
Alla prima cabina telefonica chiamai Maurilio e ce ne andammo a Mondello a cazzeggiare e a parlare di musica. E a impastare birra e sigarette con l’incoscienza felice di chi ha appena addentato i vent’anni.
Quanta musica c’era. E che silenzio che c’è oggi.
Buona musica, Maurilio caro.

Il caso Tortora e il fattore estate

enzo tortora

Io il caso Tortora me lo ricordo bene. Perché erano esattamente trent’anni fa quando i giudici della Corte d’Appello di Napoli smontarono il castello di accuse, anzi di minchiate che tutti oggi conosciamo. Me lo ricordo perché ero un giovane giornalista e perché era estate anche durante tutto il calvario di Enzo Tortora. Dall’arresto ai retroscena, dall’esibizione delle manette al grottesco filtrare di dichiarazioni di malacarne, dalle odiose esibizioni di certi magistrati al loop delle immagini del re di Portobello decapitato a mezzo giudiziario, era sempre estate che io ricordi. E nei giornali – quando ancora esistevano come promettente sbocco professionale – si entrava d’estate. Me lo insegnò Giuseppe Sottile, il primo caporedattore centrale con cui impattai, io, fresco di ingenua giovinezza.
“La sai la differenza che passa tra un tema e un articolo?”, mi chiese quando, tremante, mi presentai al suo cospetto, al Giornale di Sicilia. “Suppongo di sì”, avrei voluto dire.
“Sì”, dissi con una presunzione che ancora oggi mi fa tremare le gambe.
Lui non si scompose: “Ti do due mesi di tempo per dimostrarmelo” e mi fece cenno di andarmene che aveva da fare. Era il 1983. Ed era estate. Avevo vent’anni, un milione di sogni e un rimorso: non aver cercato prima di studiare la differenza tra un tema e un articolo. Continua a leggere Il caso Tortora e il fattore estate

Eravamo quattro amici al Gds

Uno dei pregi dell’età che avanza è che la memoria comincia a somministrarti ogni giorno, a tradimento, qualche storia passata che, per similitudine o contrappasso, ha un aggancio col presente. Ed è sempre un misto di nostalgia e di orgoglio, nostalgia per quel che è stato, orgoglio per quel che sei stato. Comunque una sensazione piacevole, costruttiva perché ti spinge a guardare avanti con rinnovato vigore.
Ieri, ad esempio, parlando con un caro collega mi è venuta in mente non una storia precisa, ma una concatenazione di flash che sono il film di un lungo momento umano e professionale.
Siamo intorno alla metà degli anni Novanta, al Giornale di Sicilia di Palermo. Siamo in quattro – io, Francesco Foresta, Armando Vaccarella e Giovanni Rizzuto – e siamo (diventati) il motore del giornale. Siamo molto diversi tra noi, viviamo assieme fisicamente una decina di ore al giorno, a volte di più. Io sono quello più rissoso, Giovanni è il più trasversale (infatti è con lui che mi scontro sempre), Armando è il più spassoso e il sommo maestro di affettuoso cinismo, Francesco è la mente politica del gruppo poiché, strategicamente, è già dove gli altri devono ancora arrivare. I flash che mi vengono in mente riproducono quattro situazioni diverse e distanti che – se volete – potete leggere come un unico film.

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La vera educazione? Quella per il sentimento

umberto galimberti

In una bella intervista di Antonella Filippi, pubblicata oggi sul Giornale di Sicilia, il filosofo Umberto Galimberti traccia un percorso chiaro e sintetico del ruolo che i professori dovrebbero avere con i “nuovi giovani”, nativi digitali dalle idee confuse.

Esorterei i professori a usare meno il computer. A che serve? Gli studenti, nativi digitali, ne sanno più di chi dovrebbe insegnare loro l’informatica. Ai ragazzi internet fornisce, dopo anni di guerra al nozionismo, un’infinità di informazioni slegate tra loro, ma non regala senso critico, connessione dei dati e, quindi, conoscenza.
I maestri hanno il compito di sviluppare il senso critico e mettere in connessione i dati. Questi ragazzi bisogna educarli al sentimento per evitare l’analfabetismo emotivo: la base emotiva è fondamentale per distinguere tra bene e male, tra cosa è grave e cosa non lo è. E bisogna farli parlare in classe. Il linguaggio si è impoverito. Si stima che un ginnasiale, nel 1976, conoscesse 1600 parole, oggi non più di 500. Numeri che si legano alla diminuzione del pensiero, perché non si può pensare al di là delle parole che conosciamo. E la scuola è il luogo dove riattivare il pensiero.

E spiega una differenza di non poco conto tra intelligenza convergente e intelligenza divergente.

Una intelligenza convergente, che comporta il cercare la soluzione di un problema a partire da come il problema è stato impostato; invece l’intelligenza importante, quella cha fa andare avanti la storia, è divergente, e consiste nel risolvere il problema cambiando la sua stessa impostazione, capovolgendolo. Come, per esempio, ha fatto Copernico. In informatica devi trovare la soluzione secondo il programma informatico, altre possibilità non sono previste. Un metodo che svilisce l’intelligenza, trasformandola in esecutiva e non sviluppandone la parte creativa.

Caro Enzo Avitabile, quanto è bella “Dolce sweet M”…

Enzo Avitabile

Conobbi Enzo Avitabile ai primi degli anni Ottanta, lavoravo alla radio e lui venne a promuovere uno dei suoi primi album da solista, credo fosse “Meglio Soul”.
Tra noi scattò un’estemporanea amicizia, ci scambiammo qualche lettera, qualche telefonata. Lui stava scalando il mondo della musica italiana, che in quel periodo aveva in Napoli il suo baricentro. Io ero un giovane giornalista appassionato di musica e strapazzavo la mia Fender Stratocaster in un paio di rock band di Palermo.
Ogni volta che Enzo Avitabile veniva in città, io lo andavo a trovare, ascoltavo la sua musica e rimanevo incantato dalla sua capacità di coniugare la magia del soul con la gradevolezza un po’ ruffiana della canzonetta.
Un giorno il Giornale di Sicilia, del quale ero diventato critico musicale, mi mandò a recensire un suo concerto. Ero felice.
Ma lo spettacolo fu un disastro, non so che problemi avesse Avitabile: cantò male, il gruppo era slegato, l’amplificazione disastrosa. Ovviamente lo scrissi nella mia cronaca, seppur con la morte nel cuore.
Da quel giorno lui mi tolse il saluto, mi mandò a dire le peggiori cose, un comune conoscente mi incontrò per strada e quasi mi alzò le mani. Fine dell’estemporanea amicizia.
Ieri ho acquistato una raccolta di vecchi brani di Enzo Avitabile e mi è venuta alla mente questa storia.
Lui oggi ha il successo che merita, addirittura Jonathan Demme gli ha cucito addosso un docu-film che racconta la sua musica. Ho visto qualche intervista in tv e su internet e ho trovato un musicista maturo, solido e ben più sereno di trent’anni fa.
Ieri, mentre ascoltavo la sua “Un amico”, ho pensato che dovevo mettere nero su bianco un concetto elementare: non serve l’amicizia per giudicare un artista, serve solo la libertà di poterlo criticare quando sbaglia e di lodarlo quando lo merita. Tutto qui.

P.S.
Enzo, ma quanto è bella “Dolce sweet M”…

 

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I casi sono due. O il Giornale di Sicilia ritiene che i 140 caratteri di Twitter siano troppi, o ritiene che i suoi lettori siano incapaci di intendere e di cliccare.

Zichichi, i raggi cosmici e il telefonino di Crocetta

Guardi, ho un grosso problema. Sono sotto terra al Cern di Ginevra e devo individuare con precisione il volo delle particelle subnucleari. Lei pensa che possa preoccuparmi di aver perso il ruolo di assessore? (…) Se Crocetta pensa che lavorare con i raggi cosmici sia non lavorare, dovrebbe rinunciare all’uso del telefonino in quanto è grazie ai raggi cosmici che abbiamo scoperto le leggi dell’elettrodinamica quantistica di cui il telefonino è una delle applicazioni tecnologiche.

Oggi sul Giornale di Sicilia  in una bella intervista di Giacinto Pipitone, Antonino Zichichi spiega perché il suo ruolo di scienziato era profondamente incompatibile con quello di assessore della giunta siciliana di Rosario Crocetta. Colpa dei raggi cosmici.

Giovanni Pepi lascia il Giornale di Sicilia

Oggi è sparito dalla gerenza del Giornale di Sicilia (e del sito) il nome di Giovanni Pepi, condirettore da oltre trent’anni della gloriosa testata siciliana. Esce, almeno ufficialmente, di scena per pensionamento uno dei protagonisti dell’informazione isolana, un giornalista che si è distinto per le sue posizioni iper-garantiste e per una certa abilità nel sapere affrontare le maree della cronaca: dalla guerra alla Rete di Orlando, alla lettera contro le sirene dei magistrati, dall’assist alle posizioni di Salvo Lima agli improvvidi “buchi” in tema di mafiosi pentiti. La comunicazione alla redazione è stata asciutta e impersonale, una lettera di poche righe: nulla invece è stato detto ai lettori che stamattina hanno potuto intuire il cambiamento solo dopo aver sbirciato nella gerenza, a pagina due.


Per il Giornale di Sicilia è un’occasione – forse l’ultima – per compiere quella virata, strategica e culturale, che potrebbe rimetterlo in comunicazione con l’altra Palermo e l’altra Sicilia. Quella fetta di popolazione che per anni il quotidiano ha ignorato o trattato con sufficienza e dalla quale, dati alla mano, è stato progressivamente abbandonato.
Buon lavoro ai colleghi, bravissimi. E buon lavoro al direttore Antonio Ardizzone, che da oggi dovrà fare a tutti gli effetti – e per la prima volta – il direttore.