(Anti)Mafia, il coraggio che manca

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Per descrivere le cose di mafia trafughiamo e/o ricicliamo idee dei Grandi pur di mascherare la nostra indolenza. Lo facciamo usando spesso a sproposito un profluvio di aggettivi che accorciano i ragionamenti, vestendoli sgraziatamente: sciasciano per indicare posizioni e visioni asimmetriche rispetto al pensiero dominante; pirandelliano per accennare all’impossibilità di distinguere tra realtà, finzione e apparenza; gattopardiano per dire dell’adattabilità rispetto ai cambiamenti con l’obiettivo di mantenere intonsi i privilegi acquisiti. Mai che ci scappi il gesto barbaro di un’invenzione, di una lettura non viziata da quella che oggi possiamo definire come un’epidemia di distrazione sociale.
E poi, a guardare le nuove inchieste che attingono a piene mani dal passato del cosiddetto dossier “mafia e appalti”, c’è un vizio che intorbida le nostre sensazioni: il recentismo, cioè l’accumularsi di nuove informazioni che non valutano la prospettiva storica. Attenzione, non parlo della legittimità delle indagini ma dell’effetto che esse hanno sulla memoria collettiva giacché il recentismo in quest’ambito è lo strangolatore di essa.

Il dossier “mafia e appalti” è un evergreen in tal senso. È bene ricordare di cosa parliamo: un voluminoso fascicolo scaturito, nei primi anni ’90, da un’informativa del Ros dei Carabinieri su un comitato di affari illegale composto da politici, imprenditori e mafiosi. Appare e scompare ogni tot di anni e si porta appresso una sorta di maledizione. Indentificato come una delle cause della vertiginosa accelerazione degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, rappresenta un’eterna fonte di guai per chi ci mette mano, che sia per stilare o per correggere, per indagare o per nascondere. A cominciare dai carabinieri che lo scrissero, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, additati per anni come traditori dello Stato per via di una presunta trattativa con la mafia e assolti definitivamente al termine di un lungo calvario giudiziario. Sino ad arrivare ai giorni nostri con i magistrati Gioacchino Natoli e Giuseppe Pignatone indagati dalla Procura di Caltanissetta con l’accusa di aver insabbiato un filone di indagini per proteggere alcuni politici e imprenditori. Indagini complicate, com’è complicato mettere le mani in un vaso di Pandora in cui si mescolano soldi, sangue e patti inconfessabili, ma afflitte nel sentire comune dal recentismo che, per dire, non tiene conto di cosa significava fare il poliziotto nelle contrade percorse da proiettili vaganti, di quanto pesavano la politica delle promesse e l’antimafia delle carriere. Soprattutto non tiene conto di cos’era quel palazzo di giustizia di Palermo con tutta un’allegoria di animali: corvi, talpe, colombe, falchi, serpi, coccodrilli (molte le lacrime). Un’Arca di Noè dove però alla fine non si salvò nessuno.

Ecco, quando siamo tentati di abbozzare giudizi a proposito del passato sull’onda di un’ urgenza del presente (un’inchiesta riesumata o una qualunque interessantissima scoperta di archeologia giudiziaria) sarebbe cosa buona e giusta arginare il recentismo. E contestualizzare.

Per dire, allora c’era la “società civile” coi suoi lenzuoli candidi, con le sue mobilitazioni spontanee che non hanno mai conosciuto la droga dei social, col suo essere ago preciso di bilance perlopiù altrui. Oggi non c’è più e nessuno l’ha uccisa, nessuno l’ha rapita. Si è estinta a causa di quel cataclisma sociale che ci ha portato a essere tutti (forzatamente) presenti pur non essendoci: partecipanti in contumacia, movimentisti da polpastrello. Anche l’humus sul quale era nata e cresciuta è cambiato. L’urgenza drammatica dell’aggressione mafiosa ha lasciato spazio ad altre urgenze: dai rifiuti dietro la porta all’odio dietro lo schermo. Le emergenze fanno il loro lavoro che è quello di sommare problemi a problemi senza sommergerli, e in tal modo ci ingannano: in fondo non cambia nulla a eccezione del nostro modo di reagire. La mafia non è mai finita, ma non è più tra i trend topic, anzi non lo è mai stata diciamo per mission aziendale. Come in ogni estinzione che si rispetti la specie scomparsa farà sentire la sua assenza dopo molto tempo. Per capire com’è andata col dinosauro della società civile e con gli altri fossili di mafia più o meno incravattata, bisognerà scavare ancora. Magari trovando il coraggio di farlo in terreni miracolosamente intonsi tipo quello del depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio, unico caso al mondo in cui tutti i magistrati che portarono a decenni di deragliamenti giudiziari non sono mai stati puniti. E lì non c’è recentismo che tenga. Eterno è il peso di dolore sociale di uno sfacelo senza responsabili.