Quale virtu?

Dal capo d’imputazione nei confronti di Marcello Del’Utri, che la sentenza di ieri ha accolto.

(Marcello dell’Utri, ndr) ha concorso nelle attività dell’associazione di tipo mafioso denominata “Cosa Nostra”, nonché nel perseguimento degli scopi della stessa. Mette a disposizione dell’associazione l’influenza e il potere della sua posizione di esponente del mondo finanziario e imprenditoriale, nonché le relazioni intessute nel corso della sua attività. Partecipa in questo modo al mantenimento, al rafforzamento e all’espansione dell’associazione. Così ad esempio, partecipa personalmente a incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali vengono discusse condotte funzionali agli interessi dell’organizzazione. Intrattiene rapporti continuativi con l’associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo del sodalizio criminale, tra i quali Stefano Bontate, Girolamo Teresi, Ignazio Pullarà, Giovanbattista Pullarà, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà, Giuseppe Di Napoli, Pietro Di Napoli, Raffaele Ganci, Salvatore Riina. Provvede a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione. Pone a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Rafforza la potenzialità criminale dell’organizzazione in quanto, tra l’altro, determina nei capi di Cosa Nostra la consapevolezza della responsabilità di Dell’Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte a influenzare – a vantaggio dell’associazione – individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo di Cosa Nostra), Milano e altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982.

Cosa c’è da festeggiare nel Pdl? Di quale virtù straparla Micciché?

Martiri moderni

Non so perché, ma ormai quando si parla di martirio mi si drizzano i peli sulla schiena. Probabilmente perché  delle cose di chiesa non so nulla. O forse – peggio ancora – perché di certe cose non di chiesa so troppo.

Ciancimino, Alfano e la Palermo che non vuol vedere


Quanto dista il tutto dal suo contrario? C’è un sistema di sicurezza che ci garantisce, anche a futura memoria, dalle frequentazioni sbagliate?
Queste domande possono sembrare criptiche e soprattutto slegate l’una dall’altra. In realtà così non è, almeno per il caso che andiamo a esaminare.

Massimo Ciancimino sta fornendo ai giudici la sua versione sui rapporti tra il padre, ex sindaco di Palermo condannato per mafia, e pezzi dello Stato. Sta riportando frasi e documenti del genitore che proverebbero rapporti (di dipendenza? di causalità? di connivenza?) tra i vertici di Cosa Nostra e quelli di Forza Italia.
Il ministro della Giustizia Angelino Alfano bolla come scempiaggini le parole di Ciancimino e sciorina tutti i provvedimenti del governo, presente e passato, contro i boss. Insomma offre l’assist al premier che descrive il figlio dell’ex sindaco mafioso come un “ciarlatano”.
Questa è la spremuta della cronaca. Un concentrato estremo di quello che tutti dicono, scrivono, leggono.
Ma c’è dell’altro su cui sarebbe bene riflettere.
Massimo Ciancimino e Angelino Alfano sono, o sono stati, distanti fisicamente meno di quanto si possa pensare e sono la dimostrazione di come il tutto e il suo contrario possano sfiorarsi. Di come le frequentazioni, pur rimanendo nella sfera delle responsabilità personali, non hanno un certificato di garanzia universalmente valido.
Sono entrambi addendi della borghesia siciliana, anzi palermitana (pur essendo Alfano agrigentino), con qualche amico in comune. I due hanno frequentato gli stessi ambienti e condiviso i salotti di concittadini illustri (magari senza incrociarsi). Ciò non prova nulla, né costituisce appiglio per nessuna speculazione giudiziaria. Anche perché le persone che si frappongono tra l’uno e l’altro sono, per usare un termine trito ma comprensibile a tutti, perbene. Gente onesta, comunque.
Ve la porgo in positivo, per essere chiaro. Ciancimino e Alfano pur battendosi da opposte barricate, incarnano unitariamente un principio calpestato negli anni della emergenza mafiosa: quello secondo il quale non può esistere il reato di conoscenza; quello per cui i ruoli del divenire non combaciano matematicamente con i flash del passato.
Conosco Massimo Ciancimino – siamo stati compagni di classe molti anni fa – conosco anche i suoi fratelli e sua sorella e, pur restando fermo nelle mie posizioni antimafia, sono interessato senza pregiudizi alle sue deposizioni. Anche se mi sono fatto un’idea.
Non conosco Angelino Alfano – è più giovane di me – conosco i suoi atti, la politica dello schieramento di cui fa parte e, pur tra mille perplessità, sono ansioso (con qualche preoccupazione) di vedere dove porterà la sua azione di governo. Anche se mi sono fatto un’idea.
Conosco i palermitani, conosco una certa superficialità nel rinnegare frettolosamente passi di cui magari c’è da spiegare qualcosa, e una certa facilità nel condannare chi ammette di poter spiegare senza esitazioni.  L’allergia al giunco che si rialza, che sia Ciancimino o un imprenditore probo, nella città che sbuffava per le sirene di Falcone e che vota a destra quasi di nascosto è un dramma antico. Qui il migliore giudizio è purtroppo sommario perché il tempo per quello ponderato è intollerabilmente lungo: le voci corrono, le dicerie si inseguono e per i fatti c’è troppo da aspettare.
Ciancimino e Alfano potrebbero essere un paradigma di nemici vicini, navi nella stessa bottiglia, come nella vita può accadere. Invece nessuno ci pensa o si sogna di raccontarli così.
Molto più comodo collocarli lontani: l’uno nella Palermo dei veleni, magari somministrati da pm stregoni; l’altro nella Roma gagliarda, periferia di Arcore, capitale di Berluscolandia.
Una finta distanza. Un’occasione sprecata per misurare con precisione quanti passi ci sono tra il tutto e il suo contrario

Il mafioso depresso

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La foto è di Ciro Spataro

La vicenda del boss mafioso depresso al quale sono stati concessi gli arresti domiciliari va affrontata, a mio parere, ricordando innanzitutto che il diritto alla salute è sancito dall’articolo 32 della nostra costituzione. Ciò dovrebbe essere utile a spazzare via ogni tentazione di fare dell’ironia e a evitare di impelagarsi in diktat estremisti.
Sono a favore del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi e i terroristi, che – va ricordato – è entrato a regime grazie al governo Berlusconi (quando è sua, è sua).
Ora il problema che si pone è questo: può un provvedimento estremo diventare meno estremo, senza perdere la sua efficacia?
Secondo me, no.
E allora che si fa quando ci si trova davanti a un caso come quello in questione?
C’è più di un valido motivo per cui un mafioso viene tenuto in isolamento: dai tempi del Grand Hotel Ucciardone a quelli degli ordini trasmessi dalle celle all’esterno via cellulare, nulla è cambiato nella capacità comunicativa degli uomini di Cosa Nostra. Il boss in gabbia deve essere neutralizzato. Tranciare i suoi rapporti è la soluzione più efficace per renderlo meno offensivo.
C’è un metodo, spesso trasversale e oggetto di polemiche, per sottrarsi a questo regime di dentenzione dura: collaborare con la giustizia.
C’è infine la possibilità di appellarsi a un tribunale se le condizioni di salute divengono incompatibili con lo status carcerario: una roulette che ogni tanto dà il numero sperato.
La tentazione di gridare “marciscano tutti in carcere” è fortissima: specie per chi è stato devastato negli affetti dalla crudeltà degli uomini del disonore. Ci vuole stomaco per leggere, senza lasciarsi prendere dall’ira, le motivazioni dei giudici che rispediscono il mafioso depresso a casa e che identificano nell’“affetto dei familiari” la terapia migliore per riprendersi e guarire. Ci vogliono una immensa coscienza civica e, per chi ce l’ha, un solido appiglio religioso per accettare che una legge possa essere meno cattiva con il cattivo in stato di difficoltà.
In questo momento ho una discreta tentazione, poco stomaco, una modesta coscienza civica, un fragile appiglio religioso.
Saranno i tempi bui.

La memoria e la nudità

La foto è di Tony Gentile
La foto è di Tony Gentile

Per un errore nel cerimoniale, che ha il sapore di una vendetta politica, alla cena organizzata dal presidente della regione siciliana Raffaele Lombardo in onore del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, non sono stati invitati il presidente del Senato Renato Schifani, il presidente dell’Ars Francesco Cascio, il sindaco di Palermo Diego Cammarata e altri illustrissimi e bravissimi e preziosissimi rappresentanti istituzionali.
L’occasione era quella del diciassettesimo anniversario della strage di Capaci.
Col passare del tempo, credo sempre più nel potere taumaturgico della memoria e sempre meno nell’ostentazione di essa.
Oso: tanto una ricorrenza è dolorosa, quanto dovrebbe essere allontanata dalla vetrina. Il modo perfetto per ricordare i martiri come Falcone, Borsellino a tanti altri dovrebbe essere quello che più rispetta l’intimità dei cari. E per “cari” non intendo solo i familiari, ma tutte le persone a cui uomini di tal coraggio mancano nella vita di ogni giorno. Mi piacerebbero manifestazioni private aperte ai singoli privati, che siano presidenti di qualcosa o di nulla, cittadini privilegiati o qualsiasi. Un coro di preghiere, magari ognuno verso il proprio dio, senza il vizio del censo, dell’investitura, del ruolo. Del resto, in questi casi non è il dato anagrafico del mittente che conta, ma la destinazione.
La parola “cerimoniale” in questi casi stride come una bestemmia in chiesa. Se c’è un momento in cui ci si ritrova nudi, quindi tutti inesorabilmente sullo stesso piano, è quello del ricordo: ognuno ha il suo, intimo, personale. Se c’è qualcuno che sgomita per essere in prima fila, magari per ostentare l’abito o la divisa nuovi, è un uomo senza nudità. Una persona falsa, insomma.

La doppia morale

Nel giorno in cui si commemora la strage di Capaci c’è un punto di vista utile per capire la differenza che passa tra la memoria e uno smacchiatore.

Aggiornamento. Per l’occasione Rosalio oggi ha modificato la sua testata.

Nei panni di Tony Ciavarello

spalleIl signor Tony Ciavarello ha passato il fine settimana davanti al computer a rispondere e a difendersi. Il signore in questione è il marito della figlia di Totò Riina e l’occasione per questo dialogo-scontro con gli internauti è stata la pubblicazione su Rosalio della notizia di un’indagine della Guardia di Finanza su una società riconducibile a lui e a sua moglie.
Insomma, casa Riina (Ciavarello è genero del capomafia quindi non è un estraneo) si apre al confronto.
Più che impelagarsi in analisi sociologiche, è utile rimanere ancorati ai fatti. Se non ricordo male, qualche anno fa la sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo rigettò una proposta restrittiva (obbligo di dimora e sorveglianza speciale) nei confronti del signore in questione perché la sua parentela acquisita non bastava, da sola, a farne una persona pericolosa.
I fatti però non sono soltanto quelli che attengono alle aule di giustizia. Ciavarello chiede di essere considerato una persona normale, di essere trattato come un qualunque cittadino. Dal punto di vista giuridico ha ragione. Ma dal punto di vista umano e sociale gli si chiede qualche sforzo.
Ogni persona di buon senso capisce che il suo è un ruolo molto difficile. La sua “liberazione”, se davvero è ispirata da nobili propositi, passa attraverso alcune strettoie. Tony Ciavarello non è un qualsiasi Tony Ciavarello. E noi non viviamo a Disneyland, ma a Palermo – Sicilia – Italia.
Non serve una abiura ufficiale, basta la buona fede (che è una lunga strada). Non servono parole vuote (“bisogna vedere chi sono i veri mafiosi, se sono solo quelli come Totò Riina o se ce ne sono nascosti dietro mentite spoglie”), ma parole semplici, anche sofferte.
Ciavarello, se  è davvero animato da buone intenzioni,  a mio modesto parere dovrebbe frequentare meno avvocati e più estranei. Per mostrarsi e raccontarsi. Dovrebbe sottoporsi al calvario di una semplice, scontata domanda, ripetuta mille e mille volte: non si è rotto le scatole della mafia? Risposta secca, senza argomentazioni da Bignamino del qualunquismo.
Dovrebbe presentarsi come il più dritto dei chiodi dritti, anche quando il martello percuote: mai farsi martire, opporre le proprie ragioni sempre, quello sì.  Dovrebbe battersi per fugare ogni diffidenza con la semplice forza di un argomento: sto da una parte ben precisa del tavolo, nonostante la vita mi abbia riservato anche un posto dall’altro lato.