Pizzo spa

Rosa Maria Di Natale ha fatto una bella inchiesta per Rainews24. Si parla di racket delle estorsioni. Potete vederla qui.

Dimenticare

Walter Zenga è diventato il nuovo allenatore del Palermo. In momenti come questo il dovere della memoria viene declassato a pratica masochistica.

Il mafioso depresso

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La foto è di Ciro Spataro

La vicenda del boss mafioso depresso al quale sono stati concessi gli arresti domiciliari va affrontata, a mio parere, ricordando innanzitutto che il diritto alla salute è sancito dall’articolo 32 della nostra costituzione. Ciò dovrebbe essere utile a spazzare via ogni tentazione di fare dell’ironia e a evitare di impelagarsi in diktat estremisti.
Sono a favore del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi e i terroristi, che – va ricordato – è entrato a regime grazie al governo Berlusconi (quando è sua, è sua).
Ora il problema che si pone è questo: può un provvedimento estremo diventare meno estremo, senza perdere la sua efficacia?
Secondo me, no.
E allora che si fa quando ci si trova davanti a un caso come quello in questione?
C’è più di un valido motivo per cui un mafioso viene tenuto in isolamento: dai tempi del Grand Hotel Ucciardone a quelli degli ordini trasmessi dalle celle all’esterno via cellulare, nulla è cambiato nella capacità comunicativa degli uomini di Cosa Nostra. Il boss in gabbia deve essere neutralizzato. Tranciare i suoi rapporti è la soluzione più efficace per renderlo meno offensivo.
C’è un metodo, spesso trasversale e oggetto di polemiche, per sottrarsi a questo regime di dentenzione dura: collaborare con la giustizia.
C’è infine la possibilità di appellarsi a un tribunale se le condizioni di salute divengono incompatibili con lo status carcerario: una roulette che ogni tanto dà il numero sperato.
La tentazione di gridare “marciscano tutti in carcere” è fortissima: specie per chi è stato devastato negli affetti dalla crudeltà degli uomini del disonore. Ci vuole stomaco per leggere, senza lasciarsi prendere dall’ira, le motivazioni dei giudici che rispediscono il mafioso depresso a casa e che identificano nell’“affetto dei familiari” la terapia migliore per riprendersi e guarire. Ci vogliono una immensa coscienza civica e, per chi ce l’ha, un solido appiglio religioso per accettare che una legge possa essere meno cattiva con il cattivo in stato di difficoltà.
In questo momento ho una discreta tentazione, poco stomaco, una modesta coscienza civica, un fragile appiglio religioso.
Saranno i tempi bui.

“Mandaci una cartolina”

ironia

di Cinzia Zerbini

Tutti siamo convinti che certe cose accadano solo nel luogo in cui viviamo. Abitudini, manie, vizi, colpi di genio contribuiscono a farci sembrare unica la nostra terra. Magari non è così, però sfido chiunque a trovare fuori dalla Sicilia un necrologio che annunci la morte di un uomo e che si concluda con: “Mannaci ‘na cattulina” (mandaci una cartolina). L’ha scritto Carmen Consoli ed è stato pubblicato su La Sicilia di Catania, qualche giorno fa.
Giuseppe Consoli, deceduto a 72 anni, era suo padre.
Così ho pensato a quanto sia rara la capacità di affrontare con ironia la tragedia della morte.
Ho pensato che se la Consoli non dimentica mai la città dalla quale proviene, lo deve proprio a ciò che le hanno insegnato.
Ho pensato a quei papà che ti insegnano a vivere con il sorriso e che nel momento del dolore ti raccontano l’amore. Per molti di noi, i padri sono speciali perché hanno gli occhi dei principi delle favole e l’armatura dei cavalieri: è forse quest’immagine che ci induce, da grandi, a dir loro le bugie per sembrare migliori.
Infine ho pensato che forse una risata non cura il dolore e che l’ironia è solo un cerotto per le ferite. Però se in una prossima (fantomatica?) riforma della scuola mettessero anche una buona mezz’ora di “apprendimento dei principi di base per l’arte di prendersi in giro” il mondo ne guadagnerebbe.

Un buon look per il derby

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di Cinzia Zerbini

E’ di pelle e giace nel mio armadio da almeno un anno. E’ un giubbottino rosa, di quelli leggeri, da primavera. Quando lo indossai tutti mi dissero: “Bene, finalmente ti sei convertita! “  Oddio che ho fatto? Ho pensato. E in effetti  sotto il giubbotto un paio di pantaloni neri marcavano un’appartenenza  calcistica che andava sfatata subito. L’indomani indossai  i miei pantaloni blu con una maglietta rossa. E tutti a dirmi: “Io non mi vestirei così. Con le ultime brutte figure che avete fatto…”.
Vivere a Palermo da etnea significa subire uno sfottò continuo nel caso di sconfitta. Quando il Catania perse 5 ad uno, per mesi, dal barista al parrucchiere, mi salutarono con il palmo aperto.  Significa sentirsi dire che Zenga è peggio di Ballardini. Significa non capire nulla di calcio e pur tuttavia sapere chi è Fontana, chi è Canzonieri e chi è Mascara. E so anche chi è Amelia.
I muri di Palermo sono pieni di inviti ai catanesi. Ovunque vengono mandati a quel paese con una buona dose di epiteti non proprio edificanti. Conosco palermitani, con laurea, che pur di vedere soffrire i catanesi venderebbero la propria madre. Ci sono professionisti catanesi che farebbero altrettanto.  Vivere da etnea a Palermo significa sentirsi dire, in una pessima imitazione della cantilena: “Io ho un sacco di amici a Catania… Siete più avanti di noi, siete simpatici… Pensa: il mio migliore amico è di Catania e addirittura una volta sono stato fidanzato con una delle tue parti”. Sconvolgente.
Così domenica,  io e altre “extracomunitarie” trasferite da anni nel capoluogo (chi per amore, chi per lavoro) andremo al Barbera.  Abbiamo già il posto in tribuna e ci mescoleremo tra la folla sperando di non essere additate al pubblico ludibrio. Nel caso di vittoria catanese esulteremo in modo discreto. In caso contrario mal celeremo il nostro disappunto.
Abbiamo già scelto il look. Indosseremo capi e accessori rigorosamente rosa, nero, rosso e blu.  Forse ci arresteranno per policromia azzardata.