La certezza che vacilla

Da Fròmista a Carriòn de los Condes
Da Carriòn de los Condes a Ledigos.

Crollo delle certezze? Ti svegli, barcolli sino a un simulacro di bar, ingolli le calorie necessarie per una giornata di sudore e fatica, ti carichi lo zaino in spalla. E prima che tu possa fare il primo passo, un furgoncino con la scritta “Caminofacil” accosta al portoncino del tuo B&B e ritira due zaini e quattro trolley giganti. È un servizio abbastanza noto tra chi si cimenta nei vari Cammini e consiste nel trasporto del bagaglio in modo che il pellegrino\camminatore possa fare il suo itinerario senza pesi sulle spalle. Che non è come fare le escursioni con la bici elettrica, godendo di una legittima seppur snaturante agevolazione, ma peggio. La voce più oltranzista del mio spirito di avventura dice che lo zaino è parte integrante del viaggio e mollarlo significa barare. Quella più trasversale dice: magari!

Ne scrivo da anni, lo zaino è il pegno e il bottino di un camminatore. È casa e fuga, è peso e sicurezza, è espiazione e crocifisso. Non potrei mai immaginare una scorciatoia fisica così sleale (io che odio le scorciatoie). Eppure. 
Eppure oggi nel famoso tratto di cui vi avevo detto qualche giorno fa, senza un albero senza una fonte senza un paese, un miraggio mi ha colto. Un miraggio di undici lettere: Caminofacil.

Era stata una tappa complicata. Con tripla scorta d’acqua cioè con tre chili in più sul groppone. Con una linea di orizzonte ingannevole che ti dice che tutto è vicino mentre non è manco a portata di maledizione. Con un misto di terra-sassi-sassi-terra che ti ricorda che le caviglie sono articolazioni misteriosamente connesse ai centri della tua sopportazione che non hanno a che fare con muscoli e tendini ma con parti meno descrivibili.
Le certezze vacillarono sino all’arrivo a destinazione, Ledigos, un non paese basato su un paio di albergue (e ovviamente una chiesa) con trionfo di cene comunitarie, dove la temperatura garbatamente alta ti induce all’unica tentazione accessibile: la cerveza 1906 per la quale ho una passione inconfessabile e alla quale devo il punto finale di queste righe.  

P.S.
La foto di questo post non a caso è simile a quella del precedente: siamo nella stessa regione, ma il terreno si asciuga sempre più.

12 – continua

Miraggi

Da Burgos a Hontanas.
Da Hontanas a Fròmista.

Spesso quando pensiamo alla nostra infanzia – e mi rivolgo a miei coetanei con un’oscillazione di dieci anni in più o in meno – il primo riferimento quasi istintivo è ai giochi per strada. Le nostre generazioni sono state le ultime a giocare a pallone sotto casa, a nascondino tra le auto parcheggiate, a muffa 21 nelle piazze di quartiere e così via. In “Cenere” c’è proprio un capitolo in cui il personaggio racconta la sua infanzia di strada con le sue regole (quando passava un’auto si fermava il gioco e nessuno barava) e le attrezzature (gli zaini o i maglioni impilati per fare le porte dell’immaginario campo di calcio).

È un pensiero che mi è tornato in mente in questi giorni di cammino tra i rari paesini delle mesetas spagnole: minuscoli centri senza auto dove i ragazzini giocano nei vicoli e abbandonano le bici per andare a pranzo senza paura che gliele freghino. Ecco, la bici lasciata così, incustodita, fa schizzare il mio tasso di nostalgia per quelle epoche che sembrano paleolitico e invece sono solo umanissimo serbatoio di sentimenti ed emozioni analogiche.
A impastare questi pensieri e soprattutto a cuocerli per bene sono stati gli oltre 65 chilometri macinati in due giorni, su altopiani martellati dal sole e sentieri di pietre e terra. Terra leggera che si alza a ogni passo e che si infila dovunque: te la ritrovi dove meno te l’aspetti e i primi minuti sotto la doccia sono sempre imbarazzanti. 

In questa parte del Cammino Francese gli alberi  diminuiscono di giorno in giorno. C’è una tappa addirittura, prevista tra due giorni, in cui la guida e le mappe indicano con precisione il chilometro in cui si troveranno alcuni pioppi e una quercia. E poi nulla.
La stessa guida avverte di fare attenzione perché “in questi luoghi le illusioni ottiche sono frequenti ed è spesso difficile calcolare le distanze”. Il che non mi scoraggia, anzi. I miraggi non ci hanno mai condotti alla meta, ma probabilmente senza un miraggio molti di noi non si sarebbero mai messi in viaggio. 

11- continua

Ci sarà un motivo

Da San Juan de Ortega a Burgos.

Nel rispetto del patto di verosimiglianza tra chi racconta e chi legge completo la storia del paesino minuscolo di venti abitanti di cui scrivevo ieri. In molti mi hanno scritto privatamente ondeggiando tra un “che invidia” e un “mi trasferirei lì subito”. Ho imparato che la gioia della straordinarietà sta nel sapere godere di una situazione oltre il flash iniziale, diciamo per almeno 24 ore dal colpo di fulmine. È così per tutto, dal lavoro alla vacanza, dall’amicizia all’amore, dal condominio alle perdizioni.

Risveglio a San Juan de Ortega, ore 7:50. Gallo che canta come se avesse un auditorium da soddisfare. Silenzio fuori, inferno di letti e sedie spostati dentro: il proprietario/barista/cuoco del residence/bar/ristorante alle sei e mezza del mattino si muove come se dovesse mascherare la scena di un delitto mentre la polizia arriva. Urla al telefono (si capisce perché non c’è mai un controcanto), rifà le stanze da solo non si sa se per risparmiare o perché la forza lavoro del paese è di poco superiore a quella di casa mia dove vivo da solo, suda la stessa camicia a maniche corte del giorno prima e non credo per via di una passione ecologista. 
Esco a tentoni dalla mia stanza (la mattina un bradipo mi batterebbe senza problemi al gioco del fazzoletto) e cerco un approdo per la prima colazione. Mi imbatto nel de cuius che mi gela (fuori ci sono 18 meravigliosi gradi) dicendo che il bar apre alle 10 e che se voglio fare colazione posso comodamente muovermi per 4,5 chilometri come tutti gli altri.
Per fortuna c’è una macchinetta del caffè, per fortuna ho le monete, per fortuna fuori c’è una giornata meravigliosa (ignorando una tappa lunga, assolata e con ragguardevole salita). 
Lascio la gioiosa e pittoresca cittadina con la ragionevole certezza che non sarà un caso se da tempo immemore i suoi abitanti non si sono mossi da quota venti. 

Nella foto la pianificazione della tremenda tappa di domani, di cui vi dirò appunto domani, se ci riuscirò.

10 – continua

Venti abitanti

Da Santo Domingo de la Calzada a Belorado.
Da Belorado a San Juan de Ortega.

A spiegare, se mai fosse possibile, il senso di un Cammino come questo c’è l’sms del proprietario dell’appartamento in cui alloggio a San Juan de Ortega. Dice di non fermarmi, all’arrivo, all’indirizzo stabilito ma di andare avanti per 50 metri, oltre la chiesa nella strada principale e di cercare il Bar Marcela dove potrò fare il check-in. Aggiunge senza ironia che è difficile sbagliare dato che oltre la chiesa e la strada principale, poco più larga di un sentiero, non c’è altro in questo paese che, mi scrive, conta 20 abitanti. Insomma mi dice senza dirlo che perdersi è impossibile se si ha qualcosa che tiene distanti le orecchie. Quando lo raggiungo – al termine di un itinerario in salita di 24 chilometri con annessa persecuzione a opera di una famiglia di moscerini che mi ha preso al dodicesimo e non mi molla manco adesso che sto sotto un ombrellone a bere cerveza e a godere per l’oro di Paolini ed Errani – mi chiede cosa voglio mangiare per cena perchè qui non ci sono ristoranti e la sua cucina chiude alle 20. 

È il trionfo del piccolo, del disabitato, della pienezza del vuoto, della magica ruvidità del mondo reale, questa tappa. Perché non è la scomodità, come erroneamente si pensa, che noi camminatori indefessi cerchiamo. Noi, solisti (scusate ma il concetto torna sempre) bipedi e capricciosi (una missione complicata è sempre un capriccio dell’ego e l’ego non è una malattia) cerchiamo il magico accordo che come ogni accordo che si rispetti è fatto di tre note: indipendenza, indipendenza e indipendenza. Una di quelle cose un po’ antipatiche da dire che si traduce nelle tipiche discussioni invernali con chi ti chiede perché e percome in un “solo se lo provi lo capisci, se te lo racconto non te ne fotte niente”.
Nei miei Cammini mi è capitato di trovare rifugio in luoghi inesistenti, di allenarmi a godere di poco (e non sono uno predisposto in tal senso), di adattarmi con soddisfazione: io che sono la persona più scostante e detestabilmente snob in tema di rapporti sociali. Ma questa tappa è davvero la sublimazione di un mondo antico in cui nel raggio di 50 metri hai tutto quel che serve per imbastire la più importante difesa contro i restanti undici mesi dell’anno: un sorriso anarchico, tuo e solo tuo, che non va spiegato, giustificato, spacciato per altro.

P.S.
Nella foto la chiesa, il bar, la strada principale e il suo struscio domenicale di San Juan de Ortega. 

9 – continua

Divoratori di strada e divoratori di croissant

Da Logrono a Nàjera.
Da Nàjera a Santo Domingo de la Calzada.

Benedetta pioggia. Una tappa che doveva essere a rosolamento lento in un forno dritto e lungo, senza un albero e con un solo paesino a rompere la continuità della cottura, è diventata tutto sommato un piacevole sguazzare nella frescura umida di terra che poteva essere fango e non lo è stata, di pensieri che potevano essere inutilmente roventi e non lo sono stati, di un profumo di viti bagnate che annunciano vino e gioia. L’ho detto e scritto molte volte: un cammino è anche un viaggio di panorami da annusare, lentamente, con la fantasia meteorologica che il Padreterno tira fuori quando gli gira. 
Unico problema per chi, da Doc, considera le variazioni come scalini progettati male, l’errore di calcolo in ambiti non secondari tipo… il calcolo dell’acqua. La faccio breve perché è argomento che interessa solo chi ci inciampa: l’acqua se ne va a litri specialmente sotto il sole, ma pesa sulle spalle (per ironica coincidenza con certi detti popolari). Farne scorta perché un tratto di strada è sprovvisto di fonti è una scelta che va ben ponderata: una bottiglia da due litri significa un carico di due chili in più, e due chili in più su decine di chilometri sono una mazzata. Insomma sbagliai il calcolo e mi ritrovai più pesante quando potevo non esserlo e più assetato quando non potevo esserlo. Risultato, arrancai sotto il peso di qualcosa che consumai troppo presto.
E a nulla è valso per rinfrancarmi l’avvistamento del noto rompicoglioni ungherese – di nuovo! – agganciato all’ennesima vittima, una ragazza bionda alla quale stava mostrando qualcosa dal suo telefonino nel nulla di un rettilineo terroso con nulla intorno (ma probabilmente di nulla se ne intende, il furbo).
In realtà l’unica immagine che davvero mi ha sconcertato in questi due giorni è stata quella di un tale che armato di zaino e sandali, ripeto zaino e sandali, faceva il mio stesso itinerario correndo. Una via di mezzo tra un triatleta in libera uscita dall’ultimo manicomio e un martire in cerca di un agognato esito infausto. A lui dedico la foto di questo post, sperando che non sia alla memoria

P.S.
Nei mesi a venire ci sarà tempo per aprire un contest su un tema fondamentale tipo i migliori croissant (o cornetti come li chiamiamo noi) mangiati nella nostra vita. Dico la mia: li ho divorati – tre – stamattina in un piccolo hotel di Najera, indimenticabili. 

8 – continua

Cose difficili da spiegare

Da Los Arcos a Logrono.

Ci sono cose difficili da spiegare, come l’avversione per “La strada” di Cormac McCarthy, come la passione per gli AC\DC, come l’attrazione per i cimiteri o come la repulsione per le parole “attimino” e “apericena”. Perché sono visioni troppo soggettive per essere declinate in un sereno contesto universale. Nel senso che l’essenza della loro unicità indiscussa nella nostra mente si regge proprio sulla loro impalpabilità in termini assoluti.
Una di queste cose difficili da spiegare nasce dalla fatica accumulata in questi primi sette giorni di Cammino Francese. Oggi sono stanco e disidratato – una tappa in saliscendi di quasi 30 km a 40 gradi con pochissime zone d’ombra e per un lungo tratto in autosufficienza – e per andare a cena ho dovuto far ricorso alle forze residue, davvero poche. 
Ho fatto un rapido calcolo: finora ho percorso circa 170 di 785 chilometri eppure non ho la smania di arrivare, tipo maratoneta. Ed ecco la cosa difficile da spiegare: ci sono cose che ci affaticano, ci isolano, ci tolgono il sonno, ci abbrutiscono eppure vogliamo che non finiscano mai. Mentre il mondo gira per i fatti suoi tra comfort, ombrelloni, aria condizionata, noia glam, esercizi familiari e abitudini finto-rassicuranti, la ruota delle soddisfazioni gira anch’essa e dà punti persino ai reietti della socializzazione e agli onanisti della fatica premiale. Una sorta di reddito di cittadinanza della gioia che premia uno strano tipo di disoccupato: quello che si è dimesso dalle vacanze forzate con un cartonato di famiglia, con panorami umani che non sopporta, in ambiti che deve farsi piacere tipo lavori forzati, con compagnia istituzionale come se fosse un lavoro.

A questo pensavo oggi mentre: segnavo sul mio diario personale una nota sulla cortesia dell’albergatore benzinaio che spontaneamente mi ha dato uno strappo in auto sino alla partenza del Cammino (ero fuori di almeno tre chilometri); sbattevo le corna su un tratto conosciuto come rompepiernas ovvero spaccagambe dove per una decina di chilometri inanelli salite e discese che pare un videogioco in cui il Padreterno è l’unico ad avere in joystick; una mosca decideva di prendere un passaggio tra il mio naso e la visiera del cappello e non mollava prima di cinque ore e mezza.

È difficile spiegare che tutto questo ti dà gioia senza suscitare quella che tu vorresti leggere nella considerazione altrui come ammirazione e che invece è solo compatimento. Ma è bello anche per questo. 

7 – continua

Vino dal nulla e hotel nel nulla

Da Estella a Los Arcos.

In una indimenticabile sequenza de “L’attimo fuggente” si riprende una vecchia frase di Robert Frost  – “Due strade trovai nel bosco e io scelsi quella meno battuta, ed è per questo che sono diverso” – alla quale pensavo stamattina davanti a una fonte dalla quale sgorgava vino. Si proprio così, vino. Davanti alla fonte del monastero di Irache, una delle tappe più caratteristiche del Cammino Francese, combattuto tra bere e sopravvivere, pensavo che ero lì proprio in virtù di una piccola deviazione dal percorso. Ma la mia diversità è stata sancita dalla scelta di non assaggiare quel vino mattutino, dall’aroma non proprio accattivante: resto in fiducia e apprezzo l’iniziativa pittoresca.

Che era giornata particolare si era capito sin dal primo tuono a tradimento. Il tempo da queste parti è così: sole, caldo, un istante dopo tuono e nuvola che ti prende alle spalle generalmente con pioggia da idrante dei pompieri; manco apri lo zaino e tiri fuori il presunto impermeabile (un mantello che persino il gobbo di Notre-Dame giudicherebbe antiestetico) che il sole riappare e ti spara 40 gradi sulla nuca. Trovato riparo nell’unica struttura edilizia nel raggio di 10 chilometri – il resto erano vigne e terra aspirante fango – ho aspettato che scampasse, rannicchiato come un incursore di “Salvate il soldato Ryan”. Solo che qui appena mettevi la testa fuori non erano pallottole, ma raffiche della pompa del Padreterno. 

Rimessomi in cammino, lungo una discesa che pareva una pista di bob, mi sono visto affiancare da una figura ballonzolante. “Stesso zaino, eh”. La frase mi ha dato un brivido. Non può essere, mi sono detto come se fossi il personaggio di un racconto di Stephen King. Era il giovane ungherese di qualche giorno fa che non solo mostrava di non aver riconosciuto il poveraccio a cui aveva rotto i coglioni per sei chilometri di salita, ma tradiva una certa serialità nell’approccio. Stavolta non mi sono fatto fregare e con un “eh” multilingue ho tirato dritto, lasciandolo passare. Un quarto d’ora dopo l’abbordatore era fermo con un’incolpevole ragazza che pur non avendo il suo stesso zaino era finita nella sua tela logorroica. 

La mia “strada meno battuta” mi ha portato nel posto da cui scrivo, nel nulla di una periferia di un non centro, non paese. Di fatto trascorrerò la notte in una pompa di benzina, attorno alla quale l’ingegnoso proprietario ha costruito un hotel, un piccolo supermercato dove accanto al deodorante per auto trovi la birra in offerta e i panini preconfezionati. Il concergie è lo stesso benzinaio, vestito ovviamente da benzinaio, che si divide tra il conto di una colonnina di super, lo scontrino di un bambolotto imbottito di caramelle e l’accoglienza nell’hotel. Nella sua lungimiranza – il deserto che c’è intorno è l’appiglio grazie al quale ogni minchiata può diventare idea per monetizzare – ha anche un ristorante pizzeria (dove per sette euro ti spacciano anche la prima colazione). Indeciso se vestire i panni del viaggiatore avventuroso o quelli dell’ostaggio, stasera ordinerò pizza. Senza nulla togliere all’arguzia imprenditoriale, spero solo che non sia lui a farmela con le sue manine.

6 – continua

Millenni e politicanti

Da Pamplona a Puente la Reina.
Da Puente la Reina a Estella

C’è un gran fraintendimento che noi siciliani ci portiamo appresso e cioè che il concetto di civiltà sia legato a quello di straordinarietà. Uno stato di equilibrio sociale, economico e culturale è per noi un evento giubilare, un’eccezione, una moneta da conservare nel salvadanaio della storia. Invece ogni volta che mi trovo in Paesi non dissimili dal mio – tipo la Spagna, adesso – mi allineo con malcelata difficoltà al concetto di civiltà reale: quello di benessere ordinario.
Occhio, non c’entra il reddito pro capite e altre robe da economisti, ma la semplice constatazione di pulizia, il viaggio nelle pieghe rassicuranti delle province, l’attenzione riscossa da tutto ciò che è  pubblico.

Questi giorni in Navarra, tra città (pochissime) e paesini, mi hanno dato conferma che per accogliere il turista non servono effetti speciali tipo Moli Trapezoidali (lodevoli comunque), ma attenzione, cura, empatia. In ogni città di questo Cammino e degli altri in queste lande (la Francigena italiana in tal senso è invece un disastro), esiste una segnaletica stradale apposita per i camminatori/pellegrini: corsie sui marciapiedi, cartelli diversificati per chi va a piedi e per chi è in bici, attraversamenti pedonali ad hoc (qui se attraversi sulle strisce non devi ringraziare l’automobilista). Nei piccoli centri va ancora meglio. Dato che il camminatore/pellegrino è sia una risorsa economica che una propaggine storica di una tradizione secolare, il suo ingresso nel centro abitato non avviene per scavalcamenti, sentieri semi-clandestini o viuzze secondarie, bensì attraverso la via principale. Oggi sono entrato in un paese che si chiama Cirauqui, che in basco significa nido di vipere, proveniente da una collina arsa e faticosa, eppure dopo qualche metro ero nel centro del paese e mi aspettavo che da un momento all’altro spuntasse la banda (che pure avevo incrociato molto prima, a Puente La Reina). Il turista qui non è il benvenuto, è il padrone. Con tutto il carico di giuste illusioni che la macchina turistica sa mettere in scena. Paghi ma hai un po’ di più di quello che paghi, pulizia, attenzione, garbo. Con congruità etica, insomma si capisce che non hanno pulito per te… Da noi i cosiddetti “menù turistici” sono una trappola, qui sono un’occasione. E nessuno approfitta dello stato di necessità di un camminatore sfiancato, la categoria di turista più diffiusa in queste zone: nei rari centri abitati che si incontrano lungo le tappe del Cammino (spesso si fanno decine di chilometri senza beccarne uno) nessuno ti fa pagare l’acqua a peso d’oro anche perché le fonti pubbliche sono dappertutto e ovviamente gratuite. Meno urbanistica, meno chiacchiere, meno colpi di teatro, più realismo. Sono le piccole cose che fanno grandi le buone idee: i nostri amministratori prendano appunti e viaggino di più a piedi.

Infine la Storia con la S maiuscola.
Questa parte del cammino si muove sulle antiche strade romane e soprattutto su ponti millenari. A ogni passo si gode della meraviglia di stare immersi nella storia di battaglie, conquiste, disfatte, dolori, vittorie con un esclusivo punto di vista lunare: il silenzio. 
Il silenzio, lo dico da ordinario chiacchierone, dovrebbe passarlo la mutua, come terapia scegliete voi per cosa.

5 – continua

Dove vanno a finire i pensieri?

Da Zubiri a Pamplona.

Una delle risposte che trovo in questi Cammini è quella a una domanda che dovremmo farci più spesso: dove vanno a finire i nostri pensieri? 
Io lo so. I miei mi vengono a trovare qui, in questi giorni di rilassante fatica: mi hanno aspettato. Li riconosco perché li ho coccolati, espulsi, divorati, evitati, titillati, odiati, adorati per tutto l’anno. E finalmente mi posso dedicare a loro con l’attenzione che meritano: comunque anche prima di cestinarli (e lì è facile capire dove vanno a finire) me li rigiro un po’ tra i polpastrelli dell’anima. 

Apro una parentesi. Mentre in piena polluzione poetica scrivevo “polpastrelli dell’anima”, una forchettata di patatas bravas ha scaricato sulla tastiera del mio iPad tutto il suo carico di salse a conferma che se proprio non sappiamo dove finiscono i nostri pensieri abbiamo piena contezza di dove finiscono le nostre imprecazioni. Chiusa parentesi.

Oggi l’itinerario era abbastanza lineare, indicato sulla carta come facile ma in realtà complicato da un continuo saliscendi tritagambe (e trita qualcos’altro). Nella testa avevo ancora le immagini dell’inaugurazione delle Olimpiadi di Parigi di ieri, e un pensiero che avevo accantonato lo scorso inverno su questioni teatrali e dilemmi di originalità rappresentativa mi è venuto a trovare. 

Ritmo della narrazione e ambiti tecnici a parte, mi hanno colpito le critiche alla parte dissacrante della cerimonia inaugurale di Parigi, che è stata la parte peculiare cioé quella in cui si vede l’impronta del regista. In Italia siamo ormai abituati a programmi culturali asettici, repliche di repliche, ammoscianti variazioni sul tema, techetechetè infiniti dove non c’è bisogno di un direttore artistico: bastano una buona segretaria o un medio ragioniere. Invece, nei secoli dei secoli dissacrare, smitizzare, ironizzare è il compito di chi vuole intrattenere senza rimanere in superficie (ve lo dice, senza alcun vittimismo, uno che al liceo curò un adattamento dello Pseudolus di Plauto e alla fine fu bocciato). Può piacere o meno, ma ricordate che un vero grande spettacolo è fatto innanzitutto per catalizzare pensieri. Solo in Italia e in pochi altri Paesi dittatoriali riteniamo che esistano una realtà, una storia, una religione, una dimensione onirica che non possono essere intaccate dalla provocazione. La provocazione è un rischio che chi crea decide di correre, è il motivo per cui c’è qualcuno che paga uno capace di avere un’altra visuale (lo dico per minima esperienza personale: non paga quasi mai, ma quando paga è una gioia). Non c’è scandalo, è minima regola di ingaggio e massimo investimento di innovazione, Ripeto, poi che piaccia o meno non è importante: ad esempio, nell’inaugurazione di Parigi l’esibizione di Céline Dion mi ha slogato le mascelle per la noia, ma è un minuscolo problema mio. Il vero problema del nostro Paese è l’indice di gradimento: Temptation Island schiaccia Alberto Angela ergo la tv di Stato sceglie il pubblico che si merita quella tv di Stato e ignora o meglio castiga gli altri (discorso complicato di cui prometto di parlare appena mi tolgo questi 800 e passa chilometri dal groppone). 
La cultura che punisce le minoranze è regime e basta.

Insomma oggi, macinando i saliscendi della Navarra, mi sono dedicato a questo pensiero e ho passato in rassegna tutte le linee dritte alle quali mi sono sottratto per paura che uno sbadiglio mi trafiggesse, tutti i naufragi a cui ho assistito quando avevo appena abbandonato la barca, tutti i ragionieri e le segretarie promossi creativi con la banda che suona nell’immenso cimitero artistico delle nostre lande. E ho trovato dov’era finita la risposta alla domanda che non mi ero posto. 

Il tempo, il segreto è il tempo. Quello che non ci regaliamo e quello che, pur avendolo vissuto, ignoriamo. Il tempo ci dà la risposta che sana tutte queste insulsaggini sullo scandalo scandalizzante di Parigi 2024 o sullo strapotere delle scemenze per decreto legge (non un’invenzione della Meloni, ma della cretinocrazia imposta anni fa come dittatura dai cittadini a 5 stelle, ricordiamocelo). 

Il succo è questo. Da bambini giochiamo e sogniamo di essere l’eroe della favola, crescendo ci accontentiamo di non essere il malvagio.

Ora vado a pulire la tastiera, che arrivare sin qui è stata una derapata continua.

4 – continua

Manco una cartaccia

Da Roncisvalle a Zubiri.

Sulla falsa riga del ragionamento di ieri a proposito della bandana dimenticata, devo confessare il mio metodo, che sino a stamattina ritenevo infallibile, su come preparare un bagaglio. Ho una lista, da anni. Una lista in varie versioni: inverno, neve, estate, mare, Cammino. Di fatto quella del Cammino è sempre la stessa dal 2019. Quando devo preparare lo zaino la stampo e vado spuntando tutte le voci. Stamattina mentre scarpinavo mi sono impigliato in un fondamentale pensiero: oltre alla bandana ho dimenticato il costume da bagno. Subito dopo il pensiero ne ha figliato un altro: anche lo scorso anno lo avevo dimenticato. E via sorprendendomi, anche due anni fa, e tre anni fa… Arrivato in albergo ho controllato: il costume non è mai stato nella lista. Quindi a rigor di logica non si tratta di dimenticanza ma al contrario di preciso rispetto della prescrizione. Dovrò comprare l’ennesimo costume – qui a Zubiri c’è il fiume, il rìo Arga (nella foto), pulitissimo nel quale però ho potuto solo bagnare i piedini – che l’anno prossimo dimenticherò.

Oggi il percorso è stato mediamente impegnativo. Sono nella Navarra pedemontana, sempre in zona pirenaica, quindi si sale e si scende di continuo, ma dopo la tappa di ieri tutto mi sembra più semplice. Sono al mio terzo dei grandi Cammini per Santiago (dopo quello del Nord e il Portoghese) e cedo alla tentazione di abbozzare giudizi. Uno riguarda i prezzi che sono aumentati, almeno in Spagna (la Francia l’ho sempre trovata non economica, al contrario del Portogallo). In un paesino di montagna, quindi non in una grande città, un piatto tipico di queste lande, due uova fritte con patate e prosciutto, è sui 16 euro, una bottiglia di acqua da un litro e mezzo costa 2 euro, un caffè 1,30. Va detto che a cena il prodotto sul quale ho notato il minor ricarico è il vino: una buona bottiglia al tavolo si beve anche con 16 euro.

Un altro giudizio riguarda la pulizia dei luoghi. Impeccabile. In due giorni di cammino, e in anni di altri Cammini, sono rimasto piacevolmente colpito dalla cura per i boschi, ma anche per i centri abitati e i normali marciapiedi. A oggi da quando sono qui non ho beccato neanche una, ripeto una cartaccia o chessò cicche di sigaretta, bottiglie, tappi e altre schifezze che invece deturpano la mia città. Ho la ragionevole certezza che la responsabilità sia solo in minima parte delle amministrazioni pubbliche.

Infine un giudizio tecnico. Il Cammino Francese in termini di orientamento e segnaletica è molto più intuitivo ad esempio di quello del Nord. Si va dritti senza troppi bivi-trappola e con le indicazioni al minimo. Tanto la strada quella è. Insomma per perdersi bisogna mettersi d’impegno, ma io sono uno che si impegna sempre. Vedrete che vi darò soddisfazioni…

3 – continua