Adoranti e rotolanti

Da Barbadelo a Portomarìn.

La cosa più difficile da spiegare è quella che non conosci o al contrario che pochi conoscono come te. Tolta di mezzo la prima opzione – generalmente non solo non parlo di ciò di cui non so, ma detesto violentemente chi lo fa – la seconda va affrontata con cautela. 
Ho più volte blaterato su come i miei Cammini siano combacianti con un (non monastico) stile solistico: cioè mi piace stare da solo fin quando l’altro posso contingentarlo come dico io (e siamo in pieno onanismo relazionale ma ognuno ha i suoi pregi). È un contratto che ho firmato con me stesso e per onorare il quale ho fatto un mutuo a vita, tipo polizza no-scassaminchia Unipol. 
Insomma adoro questo mese in cui tutto il mondo cerca il caos organizzato, onora il circolo esclusivo cenando con chi non vorrebbe accanto manco al semaforo e finge il divertimento assoluto nella più relativa delle alcove turistiche dove in una visione di 360 gradi 300 sono panorami di scontrini non fiscali, e io sono altrove.
Un altrove che alcuni di voi conoscono in prima persona, perché molti lettori di questo blog sono più assatanati di me. 
Però siccome il paradiso in terra non esiste, almeno fin quando l’unica posizione orizzontale di cui sappiamo dire è quella in cui scandiamo il nostro respiro, c’è un angolo in cui siamo costretti a svoltare.

E lì capita che becchi l’altro che non volevi incontrare in quel frangente. E dici: minchia!
Lo ribadisco e lo scolpisco nella pietra del web tipo codice di Hammurabi: gli ultimi cento chilometri del Cammino sono il ricovero di tutta quella fauna pellegrina che vorrei evitare come l’herpes. 

Oggi ho (ri)preso confidenza con torme tatuate e smartphonanti che intasano sentieri, mangiano e bevono a ogni bar come se non ce ne fosse uno cento passi più avanti, blaterano ad alta voce, cantano stonati e soprattutto si esibiscono nel loro numero peggiore, quello dell’elastico. Camminano veloce fino quando possono, sono freschi e con bagaglio leggero quasi inesistente, ti superano. Poi li blocca una crisi cardiaca e si fermano: sbafano. Li superi col tuo passo timido e costante e con quel cazzo di zaino che ti abbraccia tipo amante fatale da 700 chilometri mentre loro sulle spalle hanno la felpina arrotolata. Ingurgitano e riprendono a correre a scatta-cuore e ti superano ancora fino a stramazzare al suolo, poi c’è l’albergue seguente. E tu vai. E loro si inchiummano. E loro ripartono. E tu cammini. E loro si ripropongonio ingiustificati come la Tari o crudeli come la peperonata di Pasquetta. E tu li sopporti mentre passano coi cellulari a musica sguainata (gli auricolari sono un’invenzione barbara per questi Unni undercover che governeranno il mondo). Così per chilometri. Ormai lo so, è il dazio da pagare per i giorni di inusitata e solitaria felicità: questi ultimi chilometri sono una terra che confonde camminanti con blateranti, adoranti con rotolanti.
Ma come dicevo all’inizio è difficile da spiegare per quei due motivi lì.

19 – continua

Partire è un po’ smarrire

Da O Cebreiro a Triacastela.
Da Triacastela a Barbadelo.

Nei momenti di spostamento la nostra vita si sostanzia di sparizioni. Quante cose avete perso durante un trasloco? Ho un piccolo record. Molti anni fa mi capito, durante uno dei soliti naufragi della vita, di fare tre traslochi nel giro di sette mesi. Ebbene ci furono un paio di pantaloni e un paio di scarpe che apparirono dal nulla al primo trasloco (le avevo date per disperse da tempo), scomparvero al secondo, e riapparvero al terzo, ma misteriosamente una scarpa non si trovò più. Erano nella stessa scatola: un po’ come il delitto della porta chiusa. 

Durante i viaggi ho perso di tutto, molto difficili le riapparizioni, non impossibili le reincarnazioni: ho un prezioso portachiavi che rappresenta tutti i lucchetti opposti all’invadenza di chi scambia un abbraccio per un passepartout e che reincarna chi non voglio mai più incrociare. Ma perdere una cosa non è come vederla scomparire. È peggio, perché manca la componente metafisica del dissolversi, quella specie di aura magica che ci illude di vivere in un’illusione in cui lo spazzolino che c’era e non c’è più non è una iattura ma un segno del destino (i denti, i denti cosa ci vorranno tramandare…), e ci si rassegna all’autoflagellazione della manata in fronte: e che cazzo!

Vi dissi della bandana dimenticata, non vi dirò del cappellino comprato in sostituzione e smarrito qualche albergue dopo. E qui serve approfondimento. Una cosa è dimenticare, smarrire. Un’altra è capire che hai dimenticato quando è troppo presto per rassegnarsi e troppo tardi per rimediare: un limbo in cui sei comunque sconfitto e per di più con la consapevolezza di essere uno che la sconfitta se l’è cercata. Se perdo una cosa voglio accorgermene in punto di morte, quando non ho cartucce da sparare, non quando posso ipoteticamente mettere mano a un rimedio seppur fantascientifico. Dimenticare può essere taumaturgico se non s’affaccia l’ometto che ti sussura “te l’avevo detto io”.
Come le storie d’amore alle quali chiediamo di eccitarci come un’anfetamina o di nascondere un dolore come un analgesico.
Partire è un po’ smarrire. Il viceversa, se ci pensate, sarebbe una fortuna.

18 – continua