Aggettivi per Cuccia

Quando se ne andò, Enrico Cuccia lasciò dietro di sé alcune leggende. Era facile, del resto, favoleggiare su quest’uomo piccolo e potente, dalle ferree abitudini e dai rarissimi sorrisi. Ora il Corriere della Sera ci fa sapere che il conto lasciato ai figli ammonta a 150 mila euro e che non esiste neanche un testamento.
C’è una sensazione che prende il sopravvento quando penso a uomini come Cuccia. E’una sensazione di imbarazzo. Mi piace, ci piace giudicare i grandi uomini perché è per proprio questo che sono diventati grandi, per essere additati, criticati, invidiati, emulati, denigrati e glorificati.
Cuccia appartiene a una categoria di cui è e sarà unico membro, solista fino dentro la tomba. Burattinaio, spietato tra gli spietati, banchiere dei banchieri, non ritirò neanche l’assegno come presidente onorario di Mediobanca (163 milioni di lire).
E’ di certo una figura d’altri tempi per la quale non è mai stato coniato un aggettivo giusto ed equilibrato.

La leggenda continua.

Per i pensionati

Paul Newman, il grande Paul Newman ha annunciato il suo ritiro dal cinema perché, a 82 anni, si considera vecchio. Il suo ragionamento non è tanto legato all’anzianità in sé quanto al fatto che Newman non si sente più in grado di lavorare come attore al livello che vorrebbe. La qualità innanzitutto. La nostra società tritapensioni (e, se solo potesse, tritapensionati) ha fatto dell’età un mero requisito fisico, sorvolando sul rendimento. Ci sono leggi che sembrano essere fatte per popolare il Paese di zombie del Tfr, di giovani che lavorano per forza e vecchi che vorrebbero lavorare. Unici parametri, i contributi, gli anni “versati” quelli “riscattati”. Mai che ci fosse uno che parla dell’opera prestata. Ci vorrebbe una legge di un solo articolo che annulla tutti i precedenti: “Tu lavorerai fin quando potrai, fin quando ne avrai voglia, fin quando sarai soddisfatto del tuo operato. Vaffanculo al resto”.

Inquinamento

Un’anticipazione de L’Espresso annuncia qualcosa di dirompente: “In Italia la crescita dei casi di tumore è a livelli da epidemia”. Il direttore del settimanale avrà ben torchiato i suoi cronisti prima di avallare una simile frase quindi prendiamo per fondato l’allarme.
Cosa ci dicono questi dati?
Innanzitutto che il nostro stile di vita va modificato radicalmente, non domani né dopodomani: oggi, ora.
Secondo, che l’emergenza ambientale deve finire nella copertina e, a seguire ,nelle prime pagine della agenda del governo. Questi signori ogni volta che si riuniscono per un qualsiasi motivo devono, prima di tutto, affrontare il problema di una discarica, di un petrolchimico che spurga, di un’orata al mercurio, di una malformazione fetale, dello scappamento delle auto… dopo, solo dopo, possono discettare d’altro. Come potete ben capire avranno un bel da fare se adotteranno questo metodo. Solo che non lo faranno. E sapete perché?
Perché in Italia le politiche ambientali non pagano né in termini economici né politici. Tira più una sigaretta che una carota. E questo vale ancor di più per le amministrazioni locali. In molte città italiane, Palermo è tra queste, sono stati messi in discussione i dati delle centraline che rilevano il livello dello smog. Quando avevamo un clima normale noi terroni ci ritenevamo esenti da questi problemi: viviamo in zone ventose, avevamo il mare, i mandolini, i promontori su cui Goethe s’incantava. Poi l’onda lunga del disfacimento del pianeta è arrivata pure da noi e ci siamo accorti che l’inverno era un prolungamento dell’estate e viceversa. Il clima c’entra col cancro, fatevelo spiegare da un oncologo. Perché se l’alta pressione incide su una città per dodici mesi all’anno vuol dire che lo smog non si muoverà da lì per dodici mesi all’anno.
Insomma la realtà e drammatica e complessa. Però ha rimedi univoci e semplici, i più difficili da prendere.

I cittadini dell’antimafia

Due parole sulla lotta alla mafia, il giorno dopo le manifestazioni per commemorare le vittime della strage di Capaci. Senza alcuna cautela dico che bisogna fermare questo pendolo che oscilla tra il disfattismo e il trionfalismo. Bene i giovani, bene i grandi tra i giovani, benissimo i festeggiamenti. Male la retorica dei lenzuoli, male le interviste a magistrati e poliziotti, malissimo gli slogan politici.
La strategia contro Cosa nostra va tarata sull’obiettivo, che sono i boss, e non sul consenso popolare. Perché la lotta contro il crimine in genere non va giustificata come se lo Stato avvertisse un malcelato disagio, va attuata e basta nel silenzio delle regole. Mi piacerebbe che in questo Paese ognuno facesse il suo mestiere. Non godo nel leggere l’ennesimo pippone di un magistrato su Micromega: se proprio avverte il bisogno di scrivere si dedichi ad altre carte che – sono certo – affollano la sua scrivania da troppo tempo. C’è troppa gente che scrive, poca gente che indaga, pochissima gente che legge.
Non gradisco nemmeno sentire esponenti politici che illustrano futuribili strade giudiziarie con tanto di autocompiacimento per “il lavoro che questo governo sta facendo”: se proprio avvertono il bisogno di dichiarare, frequentino di più le aule del parlamento, facciano girare i motori dell’attività legislativa (alla paralisi, Prodi dixit) e incassino risultati.
I giovani infine. Tirati per la maglietta da una parte e dall’altra rischiano di non maturare una coscienza reale del problema. Sacrosanti i cortei e buona l’idea dei concerti per commemorare, però ci vuole qualcosa affinché, esaurita l’euforia della gita scolastica, le parole non restino sulle lapidi.
Ecco il punto. C’è un luogo in cui ci si gioca il tutto per tutto nella lotta alla mafia e quel luogo è la scuola. Educare alla legalità non vuol dire annoiare i ragazzi con conferenze e deportazioni di massa sui luoghi “caldi”, vuol dire insegnar loro il culto del bello, lasciarli cadere tra le braccia dell’arte, farli entrare nella Storia da cavalieri e non da pedine. I giovani con un talento, con una passione sono l’arma mortale per i malefici boss di Cosa Nostra.
Oltre ai fiori mettete libri e cd nei vostri cannoni.

La memoria

Un anno fa, in occasione delle celebrazioni per le stragi di Capaci e via d’Amelio, mi fu chiesto di scrivere un brevissimo monologo. La rappresentazione finì nel calderone di decine di manifestazioni e passò del tutto inosservata.
Oggi, nell’anniversario della morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo, degli agenti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani ho l’ardire di proporvi quel testo (praticamente inedito) che parla di memoria.

PS.
La celebre foto che vedete sopra è del mio amico Tony Gentile, complimentatevi con lui se non lo avete mai fatto.

Il biglietto nel pugno.

Tutti noi abbiamo momenti difficili. Ma la vita non è democratica, non dà e toglie allo stesso modo, non divide le responsabilità per ogni testa, i dolori arrivano con tempi spiazzanti e ognuno con un treno proprio. Alla grande stazione della Vita ci presentiamo con destinazioni comuni, ma nessuno ha lo stesso biglietto dell’altro.
Allora stringiamolo, questo biglietto.
Avanti, serriamo tutti il pugno, così… e teniamolo ben stretto per un po’.
Se ci concentriamo sulla nostra mano, la sentiamo calda, avvertiamo il sudore che cerca di farsi largo, forse riusciamo anche a percepire il battito del cuore nei polpastrelli.
E’ una sensazione che ci unisce, al di là della razione di pensieri nella quale ognuno di noi si trova a scartabellare.
Ricordate: biglietti diversi, tutti, ma destinazioni comuni. Com’è possibile?
Ognuno ha il suo passo, fa il suo cammino.
C’è chi calcola, progetta. Un itinerario ben studiato per raggiungere, superare, tornare indietro (perché tornare indietro è anche un modo per andare avanti), muoversi comunque, tagliare il traguardo o mettersi in salvo.
C’è invece chi sogna, fantastica. Un itinerario immaginato per essere già lì dove gli altri devono ancora arrivare: è la forza dell’arte, il primato di quel minuscolo chip etereo posizionato tra il nostro cervello e la nostra anima.

Tutti noi abbiamo momenti difficili. E alla stazione della Vita possiamo arrivare anche in ritardo. C’è un numero infinito di treni da prendere… o da perdere.
Il biglietto lo abbiamo sempre nel pugno.
Ora apriamo la mano e guardiamola.
E’ rossa e chiazzata. E’ la sua maniera di mantenere una memoria.
E la nostra memoria?
La nostra è scritta in quel biglietto immaginario che abbiamo tenuto stretto.
Ognuno ha la sua memoria, ma senza biglietto non si parte e soprattutto non si arriva.
La memoria non è una cicatrice, ma l’unguento che la accarezza.
La memoria non ingombra, ma libera.
La memoria è un biglietto che non ha prezzo e che non teme rincari dell’ultima ora.
La memoria è un dovere e trasgredirlo non è sanzionabile.

Un treno è arrivato: “In carrozza, si parte!”, urlavano un tempo i capistazione.
Io ho il mio biglietto.

Giornalisti minacciati

Ci sono notizie che si nascondono, come si dice, nelle pieghe della cronaca. Quella di un giornalista minacciato da Cosa Nostra e costretto a vivere sotto tutela è una notizia nella notizia. Perché riguarda l’ambito in cui nascono le notizie, uno dei punti nodali di una democrazia. La libertà di stampa, garanzia costituzionale che purtroppo si è fatta stereotipo in Italia, non è una regola condominiale. In tutto il mondo c’è chi ha fatto della penna una spada e chi per la penna ci ha rimesso le penne. Dal Medio Oriente alla Russia, dalle lande africane al continente americano c’è sempre un reporter più bravo degli altri, che dà fastidio più degli altri. Se il mestiere di raccontare ha un difetto è proprio quello di doverlo fare senza se e senza ma, costi quel che costi. Altrimenti, come ho avuto modo di provare nella mia ventennale esperienza, uno finisce per fare un altro lavoro: il velinaro, lo sciacquino del direttore, il portatore di verità ben piegate, l’intervistatore da divano, il corsivista su dettatura.
In Sicilia c’è un elenco di giornalisti che non hanno potuto ultimare il proprio compito perché qualcun’altro ha deciso che non andava bene e basta. Conosco Lirio Abbate, oggi cronista dell’Ansa, da un bel po’ di tempo e so che per lui quest’esperienza non è un debutto. Sono certo che continuerà a fare il suo mestiere con l’impegno e la serena dedizione di sempre. Voglio credere che gli sarà restituita presto la libertà di movimento che appartiene ai cittadini del mondo. E che ad altri questa libertà venga negata in modo esemplare.

Preti pedofili

Fa discutere il caso del video della Bbc sui preti pedofili che Santoro vorrebbe trasmettere in Italia e che viene osteggiato dal presidente della commissione di vigilanza Landolfi perché ritenuto arma di “un plotone di esecuzione contro la Chiesa”. In questo video, diffuso via internet già da tempo, si assiste – con tanto di sottotitoli in italiano – alla confessione ragionata di alcuni preti e si ipotizzano le responsabilità del Vaticano sulla gestione (scandalosa) dello scandalo. La Bbc non è TeleCaspiterina e il giornalismo, quello vero, non si arena sulle verità di facciata. Ho visto il servizio grazie al blog del mio amico Lesandro’s qualche giorno fa e sono rimasto stupito dalla sordità del sistema dell’informazione italiana. In Italia un portale come Libero lo ha messo online senza dover chiedere permesso a nessuno. Mi sembra singolare che si debbano usare guanti di piombo (altro che velluto!) quando una vicenda truce tocca i porporati, quasi che esistesse una zona franca, un idilliaco terreno erboso sul quale si possono compiere le peggiori nefandezze senza che si alzi un alito di vento. Siamo di fronte a un reato acclarato, a confessioni e conseguenze tangibili di quei fatti, a un problema sociale. Immaginate un Paese in cui le ammissioni di Mario Chiesa restino sepolte nelle melme del Craxismo, in cui le denunce di Libero Grassi siano relegate a una breve in cronaca, in cui inchieste scomode dal Watergate a Wanna Marchi non vedano la luce. Ecco quello è il Paese dei Landolfini, un luogo da evitare come il Congo del romanzo di Cricthon e anche molto prima. Quelli che tuonano per una “vendetta contro il family day” potrebbero smaltire la loro petomania contro lo stesso Santoro per un motivo molto più sensato: come fa un giornalista scoopista e intransigente ad arrivare con tanto ritardo?

Scelte e consigli

Ho sempre attribuito una certa sacralità alle scelte e ai consigli. Li ho frequentati senza disinvoltura e li ho catalogati nel reparto nobile dei ricordi. Questo mio atteggiamento è però puntualmente contraddetto dall’esperienza del giorno per giorno. Cioè: nonostante mi ostini a caricare di importanza (etica, sociale, religiosa, strategica) scelte e consigli, mi rendo conto che le conseguenze sono sempre sgonfie di questo plusvalore, sono insomma semplici conseguenze. Una scelta complicata comporta spesso reazioni elementari e viceversa. Insomma “le scelte sono scommesse”, e le mie valgono come quelle di chiunque altro. I consigli sono una forma di nostalgia. “Dispensarli è un modo di ripescare il passato dal dimenticatoio, ripulirlo, passare la vernice sulle parti più brutte e riciclarlo per più di quel che valga”.
A questo pensavo mentre finivo di scrivere una storia complicata. Avrò fatto le scelte giuste? Dovrò far abbondante ricorso a consigli?

Poi sono andato a comprare un Gratta e vinci.

Provocazioni

In Belgio una candidata (forse) al Senato promette sesso orale (forse) a tutti quelli che la voteranno. E’ una campagna elettorale surreale sponsorizzata da un movimento di protesta, il Nee, che ha spesso usato la provocazione per colpire la politica stantia. Quella di Tania Dervaux è comunque una trovata furba per finire sui giornali di mezzo mondo senza fatica. Il sesso e le nudità sono argomenti che non necessitano di trattamenti editoriali, di traduzioni. Bastano una foto e una didascalia ed è fatta. Se ne può ridere.
In Italia, qualche anno fa, i radicali portarono in parlamento una pornostar. Il senso della provocazione, se di provocazione si trattò, non fu mai chiaro. Di certo non ci fu nulla da ridere.

Al mancato sindaco di Palermo

Gentile professore Leoluca Orlando, sono uno dei suoi elettori e non posso che scriverle. Ho appena finito di visitare il suo sito e alla voce “ultime notizie” proprio nella home page si rimanda ai risultati dello spoglio in tempo reale che in realtà non ci sono e a una sua dichiarazione su Prodi e Cuffaro datata 6 maggio. Sa com’è, volevo aggiornarmi prima di metterla al corrente delle mie perplessità. Pazienza, la rete (minuscola) non è il suo forte.
Le indagini sulle sue denunce faranno il loro corso. Lei parla di brogli, i giornali testimoniano un clima pesante persino nei quartieri che dovevano essere le sue roccaforti, i vincitori gioiscono per gli esiti del loro “ottimo gioco di squadra”. La verità è sabbia tra le dita, un po’ scorre, un po’ dà fastidio.
La distanza di punti percentuali tra lei e Cammarata è notevole. Lei non ha perso sul filo di lana, ha perso e basta. Servivano più voti, più partecipazione.
Lei, gentile professore, ha creduto troppo in se stesso, troppo poco in un supporto politico di largo consenso. Traduco: ha fatto da solo ciò che doveva fare in gruppo. E’ sempre andata così da quando la conosco (e la voto). Lei è un solista, non ha delfini, non vuole eredi, brucia idee in varie lingue, è un tritasassi delle parole, un erogatore di programmi ambiziosi, un pessimo tattico.
Della Rete (maiuscola), che da semplice movimento era diventato imponente soggetto politico, non è rimasto un solo nodo utile, solo pesci morti. Eppure noi c’eravamo, gentile professore, noi eravamo quella marea silenziosa che inondava le strade per seguirla nei cortei antimafia. Noi la sorreggevamo nel duello cruento con una parte dell’estabilishment cittadino (imprenditori, giornalisti, magistrati) che brandiva un garantismo peloso quantomeno sospetto (per non parlare d’altro). Noi facevamo il tifo per lei come se fosse un campione sportivo, l’ascoltavamo come un mahatma.
Lei ha creduto di poter continuare a correre da solo. E ha sbagliato per nobiltà d’animo e triste presunzione. Adesso non so quali siano i suoi progetti, immagino che voglia giocare un ruolo da protagonista nel Partito democratico. Le do il mio modesto consiglio: si faccia moltitudine, deleghi, distribuisca fiducia, mandi qualcuno in giro a parlare per suo conto. S’inventi gli orlandiani e dimentichi l’orlandismo.
Buon lavoro