Contro il logorio della timeline moderna

Da Santillana del Mar a Comillas.

Oggi, durante il mio cammino, ho postato su Facebook un breve video che testimoniava, spero abbastanza ironicamente, la mia fatica: ero brutto e sfatto come deve essere uno che ha già trecento chilometri sulle spalle e ne deve fare ancora più di cinquecento (punto al Nobel per l’autolesionismo e ne pubblico un frame sopra). Uso abbastanza i social come short version del mio diario di viaggio: l’extended version è, come sempre su questo blog, nel quale sono stipati i ricordi di molte avventure dell’ultimo decennio.

Sono in perfetta armonia col mezzo tecnologico in questa missione analogica poiché mi regolo secondo l’antica regola del cum grano salis.  Spesso mi muovo in zone non coperte telefonicamente, oppure sono in situazioni che richiedono grande attenzione, oppure sono estasiato da un panorama o massacrato da una salita/discesa. Se voglio testimoniare quel momento con una foto o con un filmato mi fermo, ne approfitto per prendere fiato, scelgo il grano di sale e scatto. Da buon purista del viaggio non mi piace la commistione con mezzi e tecnologie che mi distraggono dall’ambiente nel quale sono immerso, però io sto qui per raccontare.

E siamo al punto.

Chi vive di scrittura probabilmente potrà capirmi: faccio parte del partito di quelli che credono che la bellezza vada diffusa in ogni modo, che un’esperienza creativa, intensa come quella di un viaggio – per di più in solitaria – vada narrata. Perché siamo figli dei nostri tempi, non ci possiamo arroccare su posizioni di oltranzismo turistico.

Raccontare è un modo di vivere, non di duplicare esperienze, ma di credere che le avventure accadono a chi le sa narrare. E non  parlo di abilità tecnica, di mestiere, ma di propensione, di attitudine alla curiosità. Per raccontare un’esperienza – nel tinello di casa come al Polo Nord, e spesso nel tinello accadono coseee… – non servono né una laurea, né un corso di scrittura creativa, serve solo un punto di vista. Sei tu e nessun altro in quel momento e vuoi che il succo di quella verità nutra quante più persone possibile. Perché solo così ti sentirai meno solo davanti alla potenza della porzione di universo nella quale hai la fortuna di sopravvivere. Raccontare significa ascoltare gli altri, non è un retwitt, non è un copia-incolla. È un atto di consapevolezza che ci libera dalla cecità degli odiatori da tinello, dai segaioli delle fake news, dai depressi di una dittatura prêt-à-porter che avvelena i pozzi del sapere con la nonchalance di un selfie vista Papeete.    

Serve il coraggio di prendere in mano la penna della propria esistenza e scriverlo, quel romanzo. Senza che siano gli altri a farlo per te.

P.S.
Oggi la razione quotidiana di chilometri è stata ottima e abbondante, la Cantabria è molto bella e le sue colline spaccano le gambe. Ma il mio romanzo di oggi parlava d’altro

(13 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Il mio dio sghignazza

Da Santa Cruz de Bezana a Santillana del Mar.

È il tema più delicato e ci ho pensato a lungo l’inverno scorso mentre mi preparavo al Cammino, nonché adesso un passo sì e uno no. Quello della religione è l’aspetto più intimo e, per quanto mi riguarda, più controverso di questa esperienza. L’ho scritto qui: non sono un pellegrino classico, piuttosto mi reputo un camminatore laico. Questa mia condizione, che è una scelta ponderata, ha due conseguenze pratiche evidenti.
La prima è logistica. Non devo espiare nulla, non cerco nessuna intercessione dell’Altissimo, quindi opto per sistemazioni comode. Perché mai scegliere il sacrificio se non si deve chiedere un tubo? Non dormo negli albergue per pellegrini dato che l’unica promiscuità che mi piace è quella superflua, e col riposo siamo nel recinto del fondamentale.

La seconda riguarda la coerenza. Ogni pellegrino chiede una credenziale, un cartoncino sul quale vengono apposti i timbri delle tappe che attestano il compimento del pellegrinaggio. All’arrivo a Santiago, mostrando questo pieghevole, si riceverà la compostela cioè il documento dell’avvenuto pellegrinaggio, una roba a metà tra la benedizione e il certificato di frequenza di un corso professionale. Ebbene, io non ho mai chiesto la credenziale (credo di essere uno dei pochissimi) giacché il mio dio non si occupa di timbri e depliant turistici.

Stare per intere giornate da soli, senza parlare con nessuno – ad eccezione della sera quando si torna a un surrogato di vita normale, di cui comunque vi dirò – ha un vantaggio di non poco conto: si affila la lama dell’intransigenza e si smussano gli angoli delle inutili ostilità, quelle che popolano i nostri pensieri e che, lo scopri con divertita sorpresa, sono perlopiù muri di fumo, ostacoli di burro.

Dopo quello muscolare e articolare (lasciamo stare quello psicologico di cui sopportate la pena), l’allenamento più fruttuoso al quale vi sottopone  il Cammino del Nord è quello per resistere ai luoghi comuni. Ironia della sorte cito a esempio la città della Cantabria in cui scrivo queste righe, Santillana del Mar. In spagna è conosciuta come la città delle tre bugie perché, analizzando e scomponendo il nome, non è santa (santi), non è piana (llana) e non ha manco il mare.
Il mio dio sghignazza.

(12 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

M come mare, minchiate, Michelangelo

Da Güemes a Santa Cruz de Bezana.

La giornata dell’acqua ci voleva. Uno che viene da un’isola non può resistere all’attrazione del mare. Il Cammino del Nord ha questa particolarità, gioca di prestidigitazione con l’oceano Atlantico. Te lo nasconde all’inizio, costringendoti a scalare montagne, spaccandoti la schiena con pietraie e sentieri da giungla. Te lo svela il giorno dopo, ma è un miraggio perché poi ti spinge nuovamente all’interno giusto il tempo di avvertirne la mancanza, e poi te lo restituisce nelle sue declinazioni più diverse, quel benedetto mare: dalla forma più consumistica a quella più selvaggia, l’una accanto all’altra, senza soluzione di continuità. Il tratto che va da Pobeña a Santoña a Santa Cruz de Bezana è un alternarsi di spiagge popolari e distese infinite di sabbia deserte: tutto libero, tutto senza recinzioni. Attenzione però, anche il concetto di ressa va ridimensionato a queste longitudini: qui le spiagge sono ancora larghissime, puoi percorrere centinaia di metri sulla sabbia prima di raggiungere l’acqua, maree permettendo. Gli spazi sono molto ampi e anche ad agosto il livello di folla è paragonabile, estremizzando, a una Mondello di fine aprile.

Comunque, dicevo, oggi è stata la giornata dell’acqua. 

Da due giorni cercavo (e trovavo) deviazioni che mi consentissero di camminare vicino all’oceano, anzi sull’oceano: è un richiamo ancestrale che solo noi che veniamo dal mare possiamo capire. Come quando in pieno inverno sentiamo il bisogno di andare a controllare, inspiegabilmente, i nostri confini liquidi. Figuratevi che io, che vivo in città, pur di soddisfare questo bisogno, faccio la spesa a Mondello, vado in palestra a Mondello, sposto il baricentro della mia socialità a Mondello, a dicembre, con la tempesta, il freddo e la salsedine che mi mangiano le corna.

Insomma, guidato dallo stesso insano impulso, stamattina ho scelto di abbandonare la carretera che doveva portarmi all’imbarco per Santander. E ho rischiato. Perché camminare sulla sabbia, con lo zaino in spalla e le piante dei piedi già quasi al trecentesimo chilometro, è una scelta ai confini della minchiata. Sull’infinita spiaggia per Somo mi sono tolto scarpe e calze e con colpevole cautela ho guadagnato la risacca dell’oceano. Una fatica per le articolazioni, una gioia per lo spirito. Fresco sotto, caldo sopra. Fresco fuori, caldo dentro. Mille preoccupazioni: e se finisco con lo zaino ammollo (in alcuni momenti avevo l’acqua alle ginocchia)? E se la caviglia destra si licenzia? E come mi toglierò tutta ‘sta sabbia di dosso? Tutti scrupoli esilaranti per voi che state lì, ma vi assicuro che qui, durante un cammino di ottocento e passa chilometri, l’unica maniera per illudersi di prevenire i contrattempi è armarsi di scrupoli mai conosciuti prima.

In tutto questo, la morale del giorno mi si è impigliata tra i pensieri mentre traghettavo su una specie di peschereccio da Somo a Santander (ancora acqua, eh). Deriva da un mio antico mantra: le cazzate sono una cosa seria. Ci ho pensato a lungo perché è una frase di Neil Simon che ho scritto sulla prima pagina dell’agendina che ho sempre a portata di mano, durante il Cammino.

Dice: se non si rischiasse mai nella vita, Michelangelo avrebbe dipinto il pavimento della Cappella Sistina.

(11 – continua)   

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

  

Senza alibi, una volta tanto

Da Islares a Santoña.
Da Santoña a Güemes.

Strapiombi. Ho sempre avuto un’attrazione per gli strapiombi. Una sorta di vertigine alla rovescia, il vuoto che mi incuriosisce anziché spaventarmi. Nulla a che vedere con una forma di attrazione patologica: di deviazioni psicologiche ne ho ben altre e, ritengo, molto più divertenti.

Questa è una passione che origina dall’infanzia, dall’arrampicata sugli alberi di cui ho già parlato qui, e che ieri ha trovato degno coronamento in un sentiero impervio tra Liendo e Laredo. Poche centinaia di metri scoperti, cioè senza nessun tipo di protezione, ma con un panorama mozzafiato (ho postato qualche filmato sui social). Ci sono costoni di roccia che finiscono sull’oceano Atlantico e laddove sono percorribili – sempre con grande attenzione – regalano emozioni indelebili. Parola di ex arrampicatore.

Anche stamattina il Cammino ha fatto la sua parte nel titillare questa mia attrazione: la partenza da Santoña sul colle del Brusco è uno dei tratti più ripidi che abbia mai percorso, ma la vista sulla spiaggia di Berria, dove ieri ho fatto il bagno, è qualcosa che ripasserò inverno dopo inverno, magari in un noioso mercoledì pomeriggio, inutilmente buio e piovoso (la foto sopra non rende, ma serve per capire). 

Questo per dire che il Cammino apre molti cassetti: alcuni li credevamo chiusi, di altri non conoscevamo manco l’esistenza. Quando ti ricapita di stare solo coi tuoi pensieri, in scenari inauditi, sotto effetto di endorfine per gran parte della giornata? E quando ti ricapita di non avere alibi e poter finalmente affrontare, senza rotture di coglioni, le discussioni più complicate, quelle con te stesso?

L’effetto straniante di questa esperienza, visto come sconvolgimento della percezione abituale della realtà, è ogni giorno più evidente. E non è una cosa facile da spiegare: uno pensa alla vacanza, alla distrazione, al chi se ne frega… No, qui la cosa è molto diversa perché sai che alla fine questo effetto non svanirà col ritorno alle solite cose. Sai che ti darà una tridimensionalità non usuale: parlatene con chi ha fatto ciò che sto facendo io e capirete perché molti di loro si buttano nel Cammino più volte. E non è fanatismo, ma il suo esatto opposto: tolleranza coltivata in modo estensivo, latifondismo delle idee.

Comunque è inutile recensire l’aria, o la si respira o niente. Quindi o vi mettete in marcia oppure accettate la posizione di retroguardia, che è quella di chi guarda gli altri che fanno, di chi accetta una verità ottriata.

Più si va verso Santiago – e siamo ancora distanti – più cresce l’empatia con gli abitanti del luogo. Soprattutto gli anziani, soprattutto nei piccoli centri. A Guriezo un signore sulla settantina mi ha incrociato e mi ha augurato il buen camino di rito. Poi, non contento mi ha agganciato con la mano – una mano fresca e pulita come quella di una persona che prima di uscire da casa si è lavata e profumata con la colonia – e mi ha chiesto da dove venivo. Gliel’ho detto e lui ha cominciato a raccontarmi la storia di un viaggio che lui aveva fatto molti anni fa in Italia, in pullman, da Genova a Roma a Palermo: lì sul ciglio di un sentiero, alle nove di mattina, lui con la sua camicia fresca e il suo sguardo pulito (perché le mani e lo sguardo sono collegati, sappiatelo), e io con la mia maglietta ancora umida di lavaggio e la mia faccia da boxeur senza pugni. Mentre raccontava, nel suo spagnolo fragrante, mi sono incagliato in una ipotesi canagliesca che riguardava il suo viaggio in Italia: l’ho visto su una specie di carro bestiame gommato, tra bancarelle di paccottiglia, ristoranti-truffa, gruppi vacanze al limite del criminale… Poi, però, all’angolo del suo occhio sinistro è apparso un luccichio. Quella memoria gli aveva risvegliato qualcosa. La memoria è un cane fedele a un padrone che non sei tu. La sua stretta si è fatta più forte fino a quando non ha pronunciato una parola che non ho capito ma che temo fosse un nome proprio di persona. Non ho avuto il coraggio di chiedere, di sottilizzare.

Ma chi cazzo siamo noi per esigere sempre spiegazioni? Ci è mai passato per la mente, in quest’èra di ultime parole usurpate, di furto aggravato della ragione, che se non capiamo qualcosa è solo colpa nostra, fottutamente nostra?

Quell’uomo mi ha lasciato andare solo dopo un lungo silenzio, e tra sconosciuti cinque secondi senza una parola, guardandosi in faccia, sono un’eternità che segna. Lui con la sua camicia fresca di prima mattina, e io con una faccia da boxeur in vacanza ora illuminata di un luccichio all’angolo di un occhio.
Che ho nascosto come un ladro, per liberarlo durante il mio Cammino.
Senza alibi, da solo.

(10 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Grazie, fuck you, au revoir

Da Pobeña a Islares.

Finalmente il ritorno della bellezza.Dopo i “panorami” di ieri, al confronto dei quali la zona industriale di Termini Imerese è patrimonio Unesco, ho riconquistato la vista dell’oceano. E l’ho fatto seguendo uno dei tratti più belli del Cammino del Nord, quello che ti regala i cinque chilometri incantati del Paseo Itsalur, una passeggiata a strapiombo sull’Atlantico (nella foto sopra) per la quale bisogna pagare dazio: una rampa di 119 scalini a freddo, come inizio di giornata.  

E qui va aperta una parentesi.
In un ambito in cui ogni giorno, bene che vada, si consumano muscoli e articolazioni per cinque-sei-sette ore, la vera moneta non è l’euro, ma il chilometro. Nello specifico, la posada in cui alloggio stasera è, come spesso accade, in una località sperduta. Per cena io posso scegliere: o rifugiarmi in un bar a poca distanza e trangugiare panini decrepiti e birra oppure mettere le gambe in spalla e camminare per due chilometri e mezzo verso una radura che si trasforma in piazza e accoglie tutte le anime di questa montagna vista mare (che stasera sono tutte qui e sono una folla di non più di cento persone). Questa indicazione me l’ha data il proprietario della posada, un anziano che si esprime a gesti e disegni: per indicarmi la via ha scarabocchiato su un foglietto qualcosa di amabilmente incomprensibile (infatti il reperto è già in archivio) e mi ha dato una pacca sulla spalla. Una via di mezzo tra un “buona fortuna” e un “non rompere i coglioni”.

Insomma, decrittato il post-it di Hammurabi, arrivato sul posto e “pagato” i 2,5 chilometri in più che con quelli del ritorno fanno cinque, ho messo mano all’altro portafoglio, quello della lingua. Nel Cammino quelli come me parlano un nuovo esperanto, un tragico incrocio tra inglese, francese, spagnolo e ovviamente italiano. È una vera forma di credito/debito giacché è alla base di ogni scambio sociale, economico, umano. Tra Paesi Baschi e Cantabria l’idioma trasmigra nella gestualità, un po’ come da noi, e il popolo dei pellegrini comincia a ingrossarsi (al momento si cammina ancora in perfetta solitudine, ma temo di essere stato fortunato). C’è il magico incrocio delle lingue, che detto così pare una cosa da film porno, ma che in realtà è qualcosa di molto più complicato e che determina la nascita di una nuova lingua ufficiale: quella della sopravvivenza.

Chiedi “quanto costa” in francese perché le tue vacanze sulle nevi della Savoia ti hanno abituato a slogare il portafoglio. Spieghi da dove vieni in inglese perché “where you came from?” era la frase-salvezza nelle tue prime vacanze da adolescente nel buco nero della vita di relazione. Ordini da mangiare in spagnolo perché “jamon y queso” è più facile da sillabare di “prosciutto e formaggio”. E dici “grazie”, “fuck you”,  “au revoir”,  “bocadillo” nello stesso discorso (capita, eh!) perché le parole hanno un suono e non c’è nazionalità che possa toglierglielo. Musica, null’altro che musica.

Alla fine tu capisci che c’è un mondo anarchico e reale che resiste alle miserie istituzionali dei piccoli duci che vorrebbero costruire la storia in mutande e cellulare da Milano Marittina, e lo fa con l’unica arma che Dio o un dio gli ha dato: viaggiare, ovvero conoscere gli altri, ovvero imparare dalle diversità, ovvero aprirsi anziché chiudersi.

Rideteci pure.
Ma per sicurezza segnatevelo.

(9 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Pizza vista nulla

Da Bilbao a Pobeña.

Sono in un postaccio alla periferia di Muskiz, che già Muskiz di suo è un paese arroccato tra raffinerie e asfalto, figuratevi un luogo alla sua periferia. Bevo Estrella Galicia e in un sottofondo che tende all’invadenza c’è una compilation di neomelodici ispanici (che di certo non fanno lezioni di legalità in Spagna, ci metto la mano sul fuoco). Le due ragazze del bar sono gocce di miele in una tana di orsi, non parlano altra lingua che non sia la loro, tipo se dici beer oppure table (the beer is on the table, altro che the book…) loro ti guardano e ridono con una giovinezza alla quale si perdona tutto, pure la presa per il culo.

Sto celebrando la degna conclusione di una giornata da trenta chilometri di asfalto, tra zone industriali e cittadine appena apprezzabili. Questo tratto che mi riconduce all’oceano è forse il più brutto dell’intero Cammino del Nord, ma lo sapevo.

In questo viaggio sto perfezionando una tecnica (per me) molto complessa: sviluppare tolleranza. Sto migliorando, ma non ne sono apertamente orgoglioso. L’opposto che mi riguardava non era l’intolleranza, parola orribile dalle implicazioni indecenti soprattutto alla luce di questi tempi infami, ma qualcosa che ha a che fare con la diffidenza. Sono sempre stato diffidente, nei confronti delle persone, del cibo, della religione. Al limite del negazionismo per fondamentali argomenti tipo le acciughe nella pizza o il midollo nel risotto.

Quindi il gioco è il seguente: data una situazione fisicamente complessa con asperità sociali di vario livello, uno se ne può uscire senza scappare? Oggi la risposta è: si – può – fare (cit)!

Nei postacci in cui sono stato negli ultimi giorni – un paio rimarranno memorabili – sono riuscito a trovare sempre un elemento d’appeal, secondo una vecchia regola di giornalismo. Che dice: critica pure in modo atroce il ristorante, ma occhio ai gabinetti, se sono accettabili scrivi ‘ si mangia di merda, ma i cessi sono ottimi’. In tal modo si evita, anche platealmente, la trappola del pregiudizio. E il pregiudizio te lo metti in sacchetta quando, sono le 21, e hai accanto un giovane che potrebbe essere tuo figlio e fa cena/aperitivo con aranciata e patatine fritte. Aranciata e patatine! Che dalle mie parti gli danno un metadone di nero d’avola e tenerumi.

Per dire, in alcuni di questi piccoli centri baschi si mangia maluccio però, non sai come, c’è sempre un buon gin (da Bombay a salire) col quale concludere una cena al limite del commestibile. Ti danno delle polpette di prosciutto grasse e oleose, ma in compenso fanno insalate sublimi (sanno usare molto bene i peperoni e le cipolle) che da sole valgono il conto. Ti nutrono a panini, ma mantengono uno standard ufficiale di qualità che è quasi una bandiera. Hanno cittadine anche mediocri, ma il wi-fi pubblico è una bomba.

Insomma sfidano quella che tu chiami tolleranza e che il resto del mondo chiama, sottovoce, capriccio.  Stasera sfidando tutte le leggi a me note, ho chiesto una pizza margherita con salame piccante. Il loro salame è il chorizo ed è carnazza per me. Ho mangiato con gli occhi chiusi  e mi è piaciuto come un peccato mortale amnistiato.

Il Cammino è anche questo.

(8 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Coraggiosi e/o kamikaze

Bilbao.

Con l’arrivo a Bilbao assaggiamo la città. E Bilbao è pure una città particolare. Piccola e compressa, non ha spazi liberi, è tutta scale e salite (le salite, ah!) tranne il lungofiume, ha un bel centro storico in cui è divertente sbevazzare, e ha il Guggenheim. Il Guggenheim è la pietra angolare di un ragionamento culturale che ha diviso non soltanto una nazione. Bello e controverso, il museo è l’investimento di una comunità (è stato realizzato esclusivamente con fondi baschi). Può piacere o meno – a me fa impazzire – ma comunque  attrae attenzione, ergo fa il suo lavoro.

Il Guggenheim è ciò che è moderno e coraggioso, ciò che è stato portato avanti grazie all’innovazione, che è arte più antica e più genuina di quanto si pensi. È soprattutto una colossale scommessa urbanistica, concettuale. In pratica è una spremuta di quel che manca nella mia terra dove le scommesse sono affidate a kamikaze culturali e vige la dittatura del “colpa tua, merito nostro”.

Tra qualche giorno lascerò la terra basca per entrare in Cantabria. Magari la smetterò di interrogarmi sulle origini misteriose di questo popolo. In tutto ciò risento di una strana sindrome che ha una componente genetica. Quando mio padre viaggia ha una singolare ossessione: capire come minchia campa la gente di quei luoghi (io che ho viaggiato con lui, vi assicuro che può mettere a dura prova il sistema nervoso quando, analizzata l’economia del luogo, lui tira fuori un “sì, però…”).

Ecco, io sono così per le origini, le beghe dinastiche, il bilancino della storia o addirittura della preistoria. Ora immaginate quanti pensieri, discussioni con poveri malcapitati nell’ora cruciale, quella dell’aperitivo, ho inanellato per analizzare gli albori di un popolo, quello basco, che nessuno conosce: la lingua non ha nulla di europeo, c’è chi dice che discendano dai sumeri; i più fantasiosi (che vorrei avere a cena almeno una volta alla settimana) fanno un collegamento col mito di Atlantide.

Insomma, forse a buon diritto, i baschi si sentono e sono altro. Li ho frequentati e, tastandone la fierezza altera e magari scostante, credo che l’indipendenza alla quale anelano sia una sorta di contentino: non è solo la Spagna che gli va stretta…

Insomma, oggi ho camminato poco sulle mie gambe (solo 10 chilometri) e molto su quelle della coscienza civile. Vorrei che la mia Palermo, che è più grande e più cruciale nello scacchiere del mondo attuale,  imparasse a essere fiera e coraggiosa. L’innovazione vera non dà mai consensi facili – nel mio piccolo ne so qualcosa – ma richiede una continua dose, anche omeopatica, di coraggio. Il coraggio non di chi innova – quella al limite è sana incoscienza – ma di chi glielo consente.

Ok camminiamo.   

(7 – continua)      

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Chi si è fregato le discese?

Da Markina a Guernica.
Da Guernica a Lezama.

Sono stati due giorni di montagna. Di salite e discese e di quel calcolo complicato che non torna mai: sono misteriosamente più le prime delle seconde. Mi sono sempre chiesto, soprattutto nelle ultime 48 ore, dove vanno a finire le discese che mancano?

Che poi si fa presto a dire discesa. In realtà chi mastica un po’ di montagna e di corsa in altura sa che le discese ripide sono più faticose delle corrispondenti salite. Ed è anche una bella metafora, se volete. Spendiamo una vita evitando la fatica che ritroviamo proprio laddove non credevamo di incontrare: beh, take it easy.

Ho camminato per giornate intere senza incontrare anima viva. Questa prima parte del Cammino del Nord è scarsamente popolata, per fortuna. La stragrande maggioranza di quelli che dicono di aver fatto il Cammino di Santiago (come molti politici di ieri e di oggi, ad esempio) in realtà hanno percorso solo gli ultimi chilometri. Le poche occasioni di socializzazione sono quelle della sera, quando si torna a un barlume di civiltà (ci sono tappe in luoghi inesistenti ma affascinanti) e lì viene fuori la forza subliminale del Cammino nella catalizzazione dei rapporti umani. Ci si riconosce senza essersi mai visti, ci si affianca senza presentazioni. Un paio di birre, i piedi nudi, qualche sedia che si aggiunge e si socializza. Ma in modo completamente diverso da quello consono. Il Cammino è una way of life che toglie fronzoli e accende gli occhi della mente. Ho incontrato storie inaudite, ognuna delle quali varrebbe un libro o un film. O una preghiera, per chi ci crede.

C’è il ventenne olandese che è indeciso tra le sue due passioni: la musica o la finanza. È in cammino per capire quale sarà il destino che lo aspetta, e non state qui a banalizzare che potrebbe fare entrambe le cose perché nella sua visione non esiste il pannicello caldo. O musica o numeri. Way of life.

C’è il grafico pubblicitario spagnolo, felicemente sposato e altrettanto felicemente da solo in cammino, che insegue un’ idea di cui non ha idea. Una specie di hippy con iPhone e sandali che mi chiama hermano per via dell’età e dei capelli: l’una aumenta, gli altri diminuiscono. Siamo quasi coetanei, ma lui ha fatto più e meglio di me. Way of life.

C’è poi una ragazza francese che lungo questi chilometri sta decidendo il destino suo, della sua famiglia e di una comunità. Ha un buco nero da colmare o da richiudere. Nella vita di chi racconta credo che non ci sia nulla di peggio che dover scovare l’orrore nella bellezza, e la storia di questa donna mi accompagnerà per sempre. Lei è l’unica di noi a sapere chi si è fregata la sua discesa.
Way of life.

(6 – continua)  

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.


Se il vitello si dà arie

Da Deba a Markina.

La questione è semplice e spiazzante. Le distanze tra una tappa e l’altra vengono stabilite dalle guide (di cui avremo modo di parlare nei prossimi giorni) prendendo come punto di riferimento gli albergue per pellegrini. Io non sono un pellegrino, almeno nel senso classico. Lo spiego una volta per tutte, dato che alcuni me lo hanno chiesto sui social. Sono un camminatore laico, uno che sta sperimentando su se stesso un’esperienza speciale: non ho un’illuminazione religiosa canonica e non me ne frega niente della benedizione finale. Il mio dio non si perde in dettagli turistici. Inoltre non dormirei mai in una camerata insieme con altre sei-otto persone, non mi laverei mai in docce comuni e tantomeno mi metterei a turno per andare in bagno: per giunta in vacanza. Ditemi quello che volete, ma dopo aver scarpinato per una trentina di chilometri ci mancherebbe solo dividere il sonno con una banda di russatori e fare la doccia tipo servizio militare. Sarò capriccioso e snob, ma ho (ancora) un discreto livello di amor proprio.

Gli albergue quindi. Sono il punto di riferimento del Cammino (degli altri). E, rovescio della medaglia, i miei hotel e B&B sono abbastanza distanti dalle rotte ufficiali. Ciò spiega la cosa molto semplice e spiazzante di cui sopra: più chilometri da percorrere.

L’esempio di oggi è chiaro. Da Deba a Markina avrei dovuto percorrere 24 chilometri e 700 metri. Ne ho percorsi 32 e 250. Occhio, otto chilometri in più in montagna significano almeno due ore di cammino che non ci dovevano essere. A tutto ciò si aggiunga che la tappa era una delle più dure, dato che si sale in altitudine e che dall’ottavo chilometro si viaggia in autosufficienza perché non ci sono più ristori e fonti d’acqua. Insomma, roba da farsi prendere dalle visioni: col tempo che cambia da pioggia a sole, la temperatura che si impenna in un fiat da 18 a 30 gradi, un bivio cruciale preso alla cieca con conseguente errore di percorso (prezzo da pagare: due chilometri in più), un unico essere umano che incontri in tutta la giornata e che invece di darti una dritta su come ritrovare la via smarrita ti comincia a rintronare di minchiate, perché ha scoperto che sei siciliano come un suo amico, tale Calogero, che da quelle parti ha messo su un’industria specializzata nella conservazione del pesce e bla bla. Che a me fa pure schifo, il pesce conservato.  E poi, ciliegina sulla torta, la visione arriva. Un vitello esuberante  blocca un sentiero stretto e viscido. Tu gli dici: togliti da lì, che figurati io manco ti mangio, se tu fossi un asparago potresti temere, togliti da lì ripeto, e poi non sei manco un toro. E invece quello ti guarda e ti ricorda, cretino che non sei altro, che hai una maglietta rossa, uno zaino pesante sulle spalle, solo due zampe e gli occhiali appannati per la fatica. Ebbene sì, il vitello poteva chiudere la partita con una sventagliata di coda. Invece mi ha guardato sbuffando mentre, come un ladro, strisciavo su una parete fangosa a pochi centimetri dal suo orifizio più allarmante.

Pensiamo sempre a finali avventurosi per le nostre vite. Mai che ci scappi il timore, pure reale e fondato, di restare fulminati dal peto di un vitello. 

(5 – continua)  

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Appeal zero, of course

Da Zarautz a Deba.

Il terzo giorno di viaggio, da Zarautz a Deba, è stato faticoso per uno strano fenomeno di addizione. Strano perché mi ha preso alle spalle in questo mood di sottrazione. 

Si sono sommate due forze diverse. Da un lato la fatica accumulata ed esasperata dalla mancanza di recupero. Dall’altra una soave forma di assuefazione alle cose che normalmente ti disturbano, tipo la pioggia, il fango, un muscolo che duole.

La fatica, come i maratoneti sanno bene, è una droga. Le endorfine liberate durante uno sforzo prolungato sono una cocaina naturale che snebbia le idee, fertilizza la creatività, pompa autostima. A proposito di autostima, c’è un divertente siparietto che facciamo con alcuni amici improvvisati, qui durante il Cammino. Ci guardiamo, la mattina infagottati nei nostri mantelli impermeabili con gli occhi gonfi e i lineamenti stanchi (tipo la foto sopra), oppure la sera coi nostri orribili sandali e la nostra maglietta da “tempo libero” (sempre la stessa), e ci diamo voti che convergono in un unico risultato: appeal zero.

Insomma, maschi e femmine, siamo il miglior preservativo di noi stessi. Infatti generalmente ce ne stiamo ognuno per i cazzi nostri, per amor proprio.

L’immagine più sexy che ci si scambia è quella dei nostri piedi dopo che ognuno di noi ritiene di aver sperimentato il miglior trattamento segreto: chi dice vaselina, chi dice burro di karitè, chi dice acqua e bicarbonato.

Tornando alla fatica, qui non c’è una competizione. Nel Cammino la fatica è un investimento, non un dazio da pagare. Perché io non so se ce la farò a percorrere tutti questi chilometri – nessuno lo sa – però so che devo far fruttare ogni passo con questo maledetto zaino che affatica più le spalle che le gambe. E investire costa.

L’assuefazione invece ti intorpidisce, ti incanta. Non senti più la pioggia che ti martella le ossa tipo il tizio della Plasmon e intanto quella lavora sul tuo sistema scheletrico. Non ti curi del fango e intanto quello lavora sul tuo involucro penetrando nelle pieghe più impensabili. Non ti curi del doloretto all’adduttore (che da maratoneta ti avrebbe fatto suonare una sirena d’allarme che avrebbero sentito da qui a Bagheria) e intanto quello sta apparecchiando al tuo fisioterapista una stagione autunno-inverno coi fiocchi.

Ecco l’insieme di queste due forze dà la dimensione dell’eccezionalità di una missione così. Che forma e, come dicono i miei amici, deforma. Gioiosamente.

(4 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.