Purismi

Lavorando in un teatro d’opera, scrivendo per mestiere e invecchiando con allegra libertà sono sempre alle prese con le esigenze (altrui) di purismo. Avvertenza per il lettore: il concetto di purismo che qui affronto non ha nulla a che fare con lo storico movimento che tende(va) “a considerare la tradizione linguistica nazionale come qualcosa che deve essere mantenuto incontaminato da influenze lessicali, sintattiche, morfologiche e fonetiche straniere non solo per ragioni funzionali ma anche per ragioni affettive”. Il “mio” purismo ha più a che fare con una stretta osservanza della tradizione, con l’inchino nei confronti di ciò che è classico: diciamo che è qualcosa che sta sull’altra sponda rispetto all’innovazione; non distante, ma di fronte.
Questo tipo di atteggiamento conservatore non va deprecato, è legittimo e ha una sua utilità: i custodi dell’ortodossia servono sempre, sono depositari di una quota di memoria che non va usata come catalizzatore di nostalgie, bensì come perno sul quale far girare nuove idee.
In particolare mi interessa qui ribadire un antico concetto sulla modernità (e ci scappò l’ossimoro): il fatto che il futuro avanza inesorabile non vuol dire che il passato non serva più a nulla.

Negli ultimi mesi ho avuto a che fare con giovani e giovanissimi in università e scuole. Ho incontrato ragazzi in gamba e meno in gamba, autentici gioielli e figure opache. Ma tutti mi hanno scioccato su una cosa: non conoscono i giornali. Alla domanda “dimmi i nomi di almeno due giornali siciliani” praticamente nessuno di loro è stato in grado di darmi una risposta esaustiva.
Se avessi seguito la mia logica novecentesca avrei dovuto indignarmi, ma siccome occuparsi di futuro significa sforzarsi di galleggiarci dentro, ho tirato un sospiro e ho realizzato che quella è la loro ortodossia, è il principio della loro nuova memoria. I giornali sui quali siamo cresciuti, su quali ci siamo accapigliati non esistono più. Esistono altri prodotti, contaminati e un po’ emergenziali, che dovranno imparare a gestire uno dei beni più importanti per la crescita di una generazione: il sapere della cronaca.

Non voglio sbilanciarmi, ma credo che nelle aziende editoriali le idee non siano troppo chiare in tal senso. A ogni modo queste righe non servono per ispirare nuove fabbriche di news, ma per scavare sentieri per il nuovo pubblico: che sia giornale, teatro, cinema, libri, il sistema dell’apprendimento è un flusso che scorre tra due capi e se ne manca uno, non funziona un bel niente.
Il nuovo pubblico dobbiamo essere noi a plasmarlo, intercettando le sue inclinazioni ma mantenendo il nostro diritto a sperimentare. I successi di oggi non hanno nulla a che fare con quello che accadrà l’anno prossimo. La logica di un aureo mantenimento, come un salvagente per non annegare, è proprio quella perdente. Se c’è un momento in cui bisogna rischiare, credo che sia questo: sparigliando, scommettendo.
Il purismo crede di essere un baluardo della preservazione di un bene comune, mentre rischia di esserne il killer più spietato.

Serve coraggio per imbastire nuovi programmi che guardino a dopodomani, programmi che magari non ci risultino pienamente compiuti ma che ci creino suggestioni: il futuro inizia sempre con una sensazione vaga.
Serve la saggezza di dire “io questa cosa non la so fare quindi mi rivolgo a chi la sa fare”.
Serve soprattutto finirla di essere isole senza traghetto e cominciare a ordire trame a lungo termine, tutti insieme, senza preclusioni. E questo è il più difficile dei banchi di prova di chi amministra, di chi governa, di chi decide e sceglie con chi decidere.

Se ci fosse un partito per la cultura del sano stupore lo voterei immediatamente.  

Marty, Doc e i film salvavita

Molti di noi hanno film salvavita, film che a un certo punto devono essere rivisti. Non c’entrano i gusti cinematografici, il rispetto per pellicole di alto livello, le esigenze culturali, c’entra solo una pura necessità biologica. Sono film che magari piacciono solo a noi e che ad altri fanno cagare, che in pochi hanno visto o che al contrario sono prodotti ultra pop. Che siano capolavori o semplice immondizia non importa, non ci importa: il nostro cervello chiede di metterci lì a guardarli per l’ennesima volta perché ne ha bisogno, come di una pasticca magica. Un Viagra per l’autostima.

Io ne ho diversi (tipo cinque), ma il podio è tutto per la trilogia di Ritorno al Futuro. Ogni tot di anni devo ricavarmi cinque ore e abbeverarmi alla fonte della felicità.
Vi ho già detto della mia insana passione per i viaggi nel tempo (ci ho pure basato lo schema narrativo di un’opera) e ovviamente nel capolavoro di Robert Zemeckis e Bob Gale il grande arcano è tutto nel motore bizzoso della DeLorean DMC-12 che tramite il “flusso catalizzatore” consente di muoversi nel fluire degli anni in modo quasi istantaneo.
Più volte nel corso della mia vita ho cercato di decrittare gli elementi di fascinazione di “Ritorno al futuro” e solo qualche notte fa, al termine di una gioiosa maratona in cui avevo inseguito i destini di Marty McFly e del Dr.Emmett “Doc” Brown, sono riuscito a raggranellarne alcuni.

Innanzitutto la cura del dettaglio, non solo in senso narrativo (quella è una deformazione professionale che qui cerco di mettere da parte), ma proprio nella sua essenza umana, sociale. Nulla nella trilogia è lasciato al caso, proprio nulla. Un fax, la sovraccoperta di un libro, una foto ricordo, un incidente stradale, un binario morto, un riff di chitarra, un sorriso complice, una cazziata del preside. Tutto ciò che sta ai margini, nascosto nelle pieghe della consuetudine può diventare maestosamente importante, tutto ciò che sfugge all’eccezionalità può capovolgere un destino, tutto quel che sembra può non essere e viceversa.

Poi il sistema dei rapporti umani, che più semplici sono e più complicati diventano da descrivere. Marty e “Doc” sono amici, ma non si salvano a vicenda rivelando ciascuno all’altro le trappole (mortali) del futuro. Cercano di farlo, ma non insistono: perché conoscere il futuro è pericoloso e potrebbe influire “sul continuum spazio-temporale e determinare un evento catastrofico”). In tutta la trilogia l’amore madre figlio, fidanzato fidanzata, marito moglie, è affidato a una geometria di eventi che non si può modificare, pena la creazione di universi paralleli in cui nessuno è ciò che era e mai più lo sarà. Gli autori riescono a sfiorare il tema dell’incesto con divertita grazia a conferma che tutto si può narrare se si è in grado di farlo per abilità creativa e disponibilità di audience adeguata. Non so cosa sarebbe successo se il film fosse uscito oggi anziché nel 1985, probabilmente un Comitato di genitori proto-cattolici si sarebbe mobilitato contro il messaggio diseducativo di un film che manda indietro nel tempo un ragazzo di cui la futura madre si innamora.

Infine il destino del protagonista. L’eroe giovane e spensierato, idolo di noi giovani e spensierati, inciampa e cade non nella rete di tranelli dell’odioso Biff Tannen, ma nella tela invisibile del Morbo di Parkinson e solo un anno dopo aver finito di girare l’ultimo episodio della trilogia vede la sua vita da star hollywoodiana già incrinata dalla malattia. C’è qualcosa che rende ancor più cinematograficamente eroico il suo personaggio, oggi a distanza di quasi quarant’anni, ed è la logica della piena del fiume: a volte accade che ti prenda all’improvviso bloccandoti le gambe e in quel momento ti accorgi che non importa se le tue scarpe erano più belle e costose di quelle del tale che ti stava accanto. Quando le cose accadono, accadono e basta e neanche una macchina del tempo può aiutarti. Guai a barare col flusso degli eventi. Come si dice, il tempo non torna e non perdona.

In piedi

C’è una bellissima frase di Eliane Brum, giornalista e scrittrice brasiliana, che dice: “Non dobbiamo smettere di lottare, e dobbiamo farlo come la foresta: in piedi”. La sua connotazione ecologica, data anche la biografia dell’autrice, non deve far passare sottotraccia il forte potere metaforico di queste parole. Spesso, troppo spesso, decidiamo di lottare quando siamo già a terra, quando il risultato è compromesso. E per lottare intendo anche qualcosa di non drammatico: si lotta magari per piccole questioni di principio, per leggere esigenze di nobiltà d’animo, per motivi che solo a noi sono ben chiari (chi l’ha detto che ciò che è semplice per noi debba esserlo per gli altri?).

Per molto tempo sono stato propenso a lasciar stare, a galleggiare nel quieto vivere anche se in fatto di battaglie, modestia a parte, non mi sono fatto mancare nulla. Però magari ho lasciato che il bicchiere si riempisse prima di decidermi a svuotarlo o addirittura a scagliarlo contro il muro. Invece – si impara solo con l’età, ahimè – ogni tanto è più utile intervenire sul rubinetto alle prime gocce. Quando la situazione è ancora tra il bianco e il nero, senza precipitazione ma con serena intransigenza. Lottare in piedi se possibile non è solo un vantaggio. È un dovere nei confronti della nostra dignità.

P.S.
Questo post è stato scritto da una persona sorridente che non ha (almeno consapevolmente) nulla di irrisolto e che non cerca foreste in cui arruolarsi. Così, per dire.

Notte di passione

Sono convinto che non siano solo i libri che leggiamo a dirci chi siamo, ma anche il come e il quando li leggiamo. Io ad esempio leggo la notte, per deliberato intento. Cioè non ho problemi di insonnia e sono uno che, tutto sommato, dorme abbastanza (forse troppo, a dispetto dell’età che avanza). Verso le tre/quattro del mattino il mio cervello si attiva e mi chiede di prendere un libro che tengo sul comodino: ne leggo sempre almeno due contemporaneamente e li scelgo a seconda del mood, ma di questo parliamo dopo.
Il cervello ordina, io ubbidisco e, cosa sorprendente per i miei bioritmi, trovo subito la lucidità necessaria per affrontare quelle pagine dopo aver riallacciato tutti i fili della storia (in tal senso ho la memoria di un pesce rosso). Questa cosa della lucidità mi sorprende perché solitamente ho risvegli lentissimi: invece la notte quando devo leggere è come se la ruggine del mio sistema cerebrale in fase di riavvio fosse sciolta dal CRC. Accade solo per i libri, per il resto sono un rincoglionito che stenta a trovare la bottiglia d’acqua a fianco del letto.

Adoro leggere nella penombra e nel silenzio di un momento che, per via dell’orario, mi piace pensare solo mio. Il fatto che la città e il mio mondo dormano mentre io mi tuffo in mille storie, mille paesaggi, indosso mille vite, cambio mille costumi, muoio e rinasco, vinco e sconfiggo, piango e rido per destini di carta, è una sorta di catalizzatore di attenzione ed eccitazione.
Al contrario di quando scrivo non c’è necessità, ma desiderio. Ho bisogno di scrivere e non sempre mi dà soddisfazione: chi scrive per mestiere lo sa, mette nel conto che la scrittura spesso è sofferenza, è dolore, è droga, è sentimento inespresso.
Invece la lettura è appagamento, coronamento di un desiderio, a volte anche vizio.
Io voglio svegliarmi nel cuore della notte per sapere come va a finire con quel tizio prigioniero tra pagina 252 e pagina 253. E se per caso ciò non accade – tutto sommato ho una vita normale con un adeguato influsso di imprevedibili cazzi miei – ci resto un po’ male perché so che il momento della lettura, dati gli impegni della giornata lavorativa eccetera, sarà rimandato.

Non sono un lettore bulimico. Non sono neanche un forzato della lettura. Leggo ciò che mi piace e butto tutto il resto. Per questo ho un turnover di libri che consuma il comodino e non la libreria. Perché è il comodino il vero banco di prova. La libreria è la pensione, il buen retiro dei volumi: l’alternativa è la pattumiera.
E siccome sono un lettore con pazienza zero, metto sempre due-tre libri sulla linea di partenza e do pari opportunità a tutti. Generalmente ne scarto uno su cinque: la statistica è dell’ultimo anno, mentre ci fu un periodo sfortunato in cui capitava di eliminarne anche tre su cinque (ricordo un Natale di molti anni fa in cui feci un en plein di cagate editoriali).
Insomma leggo come un medioman guarda la tv: più una cosa mi piace, più mi concilia il sonno. Mi sveglio nel cuore della notte, accendo la luce, prendo il libro, mi appassiono con la confortante certezza che mi scioglierò (troppo) presto nel migliore sonno, ancestrale e confortante. Quello in cui immagini che ci sia qualcuno che ti racconti una storia.

Una favola storta

Non vi parlerò dei possibili nuovi equilibri nella mafia dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro. Non vi parlerò nemmeno delle strategie dello Stato per affrontare il nuovo corso di Cosa Nostra, perché un nuovo corso ci sarà per forza (e speriamo che sfoci nelle fognature). Non vi parlerò di politica né di magistrati. Di tutto questo vi parleranno i miei colleghi, quelli bravi, in tv e sui giornali.
Io vi voglio parlare di una favola storta che finalmente ha un suo lieto fine. E il lieto fine di una favola storta deve essere dritto per compensare un’obliquità che disturba il mondo, facendolo sembrare storto a sua volta.
Una favola che inizia con una lettera d’addio a una innamorata. Una lettera che contiene una grande imperdonabile bugia.

Qui tutti gli altri podcast.

Gery Palazzotto
Gery Palazzotto
Una favola storta
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Il gusto per il brutto

Siamo sempre stati circondati da cose belle e cose brutte, al netto delle questioni soggettive per cui magari ciò che a me sembra brutto a un altro sembra bello. Però qui si parla di bello bello e brutto brutto: esiste un’oggettività per cui una cosa fa ribrezzo e un’altra no. Che so, la coprofagia è obiettivamente orribile mentre la sala grande del Teatro Massimo di Palermo (un esempio a caso…) è indiscutibilmente bella. Sono due esempi estremi proprio per cercare di centrare l’argomento.
E l’argomento è il gusto per il brutto.
Un tempo il cosiddetto sentire comune era una specie di livella: difficilmente qualcosa di non bello faceva i numeri di qualcosa di bello. E ciò accadeva nelle arti, nella politica (persino il tremendo fascismo aveva una sua estetica), nei costumi (gli hippies non erano brutti, erano diversi dagli altri di quei tempi), nella vita sociale.
Oggi invece in tv, sui giornali, per strada, nei teatri, in parlamento il brutto fa audience. Ed è triste dirlo, non la fa perché suscita curiosità. La fa perché piace, affascina, attrae.
Ci sono trasmissioni televisive scritte male (non farò nomi, ma basta guardare esempi recentissimi) che comunque fanno ascolti. Ci sono programmi politici scritti coi piedi (la menzogna in politica è un totem del brutto) che fanno grandi proseliti. Ci sono comportamenti sociali riprovevoli che generano un gran numero di emulazioni. Ci sono beceri esempi che assurgono al ruolo di personaggio. E tutto ciò ha un terreno di coltura elettivo.
I social network.
Io i social li uso e non li disprezzo, perché ho imparato a diffidarne. Non tutti hanno presente l’evoluzione sociale dei social (scusate il bisticcio di parole): nati come mezzo per condividere contatti, per unire persone, sono diventati un mezzo di spaccio di contenuti. E quando si passa dall’agenda telefonica al libro di testo i rischi sono enormi. Perché unire le persone è una cosa, diffondere idee è un’altra. Nel primo caso l’attività è puramente meccanica, nel secondo ci vuole un filtro, quello della conoscenza. Insomma una cosa è scorrere l’elenco per contattare qualcuno che ci piace, un’altra è sfogliare un testo scientifico per curare o prevenire una malattia.

È qui che si inserisce il gusto per il brutto. In questo gap tra ciò che siamo e ciò che vogliamo essere. Il bello è stato creato (o inventato, fate voi) per darci un parametro che è anche un trampolino. Una canzone, un quadro, un libro, un balletto, un panorama, una scultura ci attraggono e ci spingono verso un destino migliore: tutti sogniamo di essere eroi quando leggiamo le avventure di Shackleton (perdonate la fissazione); è difficile non restare ammaliati da uno Schiaccianoci di Pëtr Il’ič Čajkovskij; una messa cantata a Notre-Dame è indiscutibilmente qualcosa di bello. L’avventura è bella come la letteratura, la conoscenza è bella come la pittura, la tolleranza è bella come la musica. Il bello è dappertutto, il brutto ci aspetta al varco.
Il gusto per ciò che è orribile nega l’idea stessa di gusto, e anzi ci deprime senza preavviso.
Non a caso diceva il sommo Oscar Wilde: “Ho dei gusti semplicissimi, mi accontento sempre del meglio.”  

Fatti miei, fatti vostri (e grazie)

Contrariamente a quanto fatto in passato, quest’anno ho deciso di elencare gli articoli più letti di questo blog. E l’ho fatto perché dicono molto di me e soprattutto di voi. Come potete vedere, tra i temi che vi hanno interessato molti appartengono al settore “cazzi miei” e ciò non può che consolarmi: se la narrazione prende il sopravvento sulla cronaca vuol dire che la sete di suggestioni, di fantasia è forte, e che i cervelli vanno a buon regime.
Per questo nei miei sogni vorrei ringraziare uno per uno le migliaia di lettori che, da sedici anni, mi seguono con curiosità e alcuni – addirittura – con affetto. Ovviamente ciò è impossibile, ma l’ho detto e non per caso: chissà che un giorno non si possa organizzare qualcosa…

Comunque ecco la classifica e siccome i miei titoli non sempre sono esplicativi metto anche un brevissimo riassunto per rinfrescare la memoria di chi ha già letto e titillare quella di chi magari quel post se lo è perso. Del resto qui è tutto gratis e un clic in più non vi costa nulla.

1 Colleghi e guardati su una lettera ritrovata e su quello che accadde in un importante giornale siciliano.

2 La politica, l’informazione e la merda sulla violenza verbale di un politico rozzo e sguaiato, ergo premiato dell’elettorato.

3 Siamo merde su una donna che un giorno si denuda al balcone e butta giù pezzi della sua vita.

4 Poi sono successe due cose su un toccante incrocio di destini durante il cammino sulla Via Francigena.

5 Per via di due culi su una storia che inizia duemila anni fa e arriva ai giorni nostri (podcast).

6 La magistrata Cuffaro sulla forza e la determinazione di chi non conosce la parola “arrendersi”.

7 Materia Prima sulla storia dimenticata (ma stracitata a casaccio) di Libero Grassi (podcast).

8 Sedici su quando arriva il momento in cui devi cambiare tutto anche a rischio di perdere tutto.

9 Katia (e non è una donna) sul file di un romanzo nato per rimanere nascosto in un file.

10 Il tempo e il lusso dei sogni su “Cenere” l’opera inchiesta scritta per il Teatro Massimo di Palermo e sulla fatica di raccontare oggi.

Altruismo, ovvero egoismo

Per cercare di spiegare la mia idea del Natale devo richiamare la vostra attenzione sull’altruismo efficace, che è una teoria (con un certo seguito) elaborata intorno al 2009 da quello che allora era uno studente di filosofia a Oxford, William MacAskill. L’altruismo efficace si basa sull’idea di usare metodi scientifici per determinare il miglior modo di fare del bene e sostiene che a livello etico e politico il lontano futuro dovrebbe essere considerato importante quanto il presente. La teoria, negli ultimi tempi, è stata promossa da alcune tra le persone più facoltose del pianeta, tra cui Elon Musk.
La principale critica, mossa in prevalenza da quella che un tempo chiamavamo sinistra e oggi chiamiamo tipo “boh progressista” è che l’altruismo efficace è vantaggioso per i ricchi, secondo i quali ad esempio non dovremmo tassare i loro patrimoni in continua espansione anche se le disuguaglianze assediano il mondo e cresce sempre più il numero di chi non riesce ad avere un pasto garantito al giorno.
In pratica i promulgatori dell’altruismo efficace sostengono che i ricchi devono conservare le loro fortune, possibilmente intoccate, in modo da poterne donare una parte a organizzazioni benefiche e da poter produrre nuovi posti di lavoro.

Il motivo delle righe che avete appena letto sta nel fatto che questo 2022 è stato per me un anno complicato proprio sul fronte del rapporto con gli altri. Dopo la pandemia non mi sono dato alla pazza gioia, sono rimasto abbastanza raccolto tra le mie cose, ma mi sono anche interrogato su come potevo far godere chi è meno fortunato di almeno un minimo della luce nella quale, in solitaria, mi ero ritrovato.
Ho intensificato i miei progetti di beneficenza, ho cercato di aprirmi ai giovani per dar loro nuove occasioni creative, ho sposato un paio di linee guida che qui riassumo brevemente.
1) Dare a chi non ha (e io non sono ricco!), sempre e quanto più possibile.
2) Uscire dalla logica dell’aiuto saggio e lungimirante. Si vive anche di cose provvisorie e superflue e non è detto che a un affamato faccia più piacere un tozzo di pane rispetto a un bicchiere di vino.

Così ho coltivato l’altruismo efficace dal mio punto di vista cioè dal presente, senza curarmi della prospettiva. Far godere ora e adesso chi non ha la nostra fortuna.
Tutto è andato bene sino a quando non mi sono misurato con la crudezza della realtà, perché quando facciamo volontariato e/o beneficenza in qualche modo tentiamo di immergerci in un mondo parallelo. Un mondo in cui ci laviamo delle nostre insulsaggini, in cui cerchiamo un’assoluzione tardiva per qualcosa, in cui inseguiamo la rivincita nei confronti di un senso di colpa, in cui siamo noi ma non siamo noi, siamo quelli che volevamo essere e che non abbiamo avuto il fegato di diventare.
L’altruismo è la forma più sublime di egoismo poiché ci dà l’opportunità di fingerci migliori.

Ma poi accade l’impensabile più scontato, l’imprevisto più annunciato.
Che la persona alla quale hai voluto regalare il tuo aiuto, ovviamente in modo anonimo, cessi di vivere. A tradimento, almeno per te che ti eri illuso di essere finalmente utile per qualcosa e qualcuno che vada oltre il tuo orizzonte perbene e ovattato.
E ti disperi perché ti dici che l’altruismo è benedetto da dio, è forza, è ragione, è yoga dell’anima, è convenienza sociale, è purga dei cattivi pensieri, è il tuo futuro.
Non può finire così, ti dici. Non mi togliete la soddisfazione di fingermi migliore.

Ecco, a questo penso per Natale. Il mio altruismo efficace è tutto rivolto a una persona che non ho mai conosciuto, ma alla quale ho affidato tutte le mie possibilità di riscatto. Una persona che ora non c’è più e che non saprà mai quante cose superflue sarei stato felice di elargire, quanta vita le avrei rubato (a dispetto dei paradossi della medicina e della scienza più inoppugnabile).
Le cose cambiano, ancor di più per queste feste giacché come si dice non c’è nulla di più triste in questo mondo che svegliarsi la mattina di Natale e non essere un bambino.

P.S.
Quando ho scritto questo post non ero sicuro di volerlo pubblicare. Se lo state leggendo vuol dire che il direttore del mio “ufficio sensi di colpa” ha schiacciato il tasto invio per i fatti suoi. E in questi casi comanda lui.
Buon Natale.

Accuratezza

Sono ipersensibile alle cose fatte senza cura, ma è un problema molto personale perché – è giusto dichiararlo subito – la mia non è una visione virtuosa per così dire pura, bensì un modo di sentire, di registrare, di operare legato alla compulsività che deriva dal mio DOC (di cui vi ho detto svariate volte, tipo qui e qui). Insomma la mia spasmodica ricerca dell’accuratezza è in gran parte frutto di una condizione psicologica che il più delle volte è compatita, raramente capita.
Comunque non è di bruttoanatroccolite che voglio parlarvi ma di felice compiutezza.
Erroneamente crediamo che l’accuratezza riguardi solo il sistema lavorativo, e al limite quello sentimentale mentre non è così: abbraccia tutti i campi della nostra vita. Soprattutto c’è un equivoco che va tolto di mezzo in modo definitivo: che l’accuratezza sia una garanzia di qualità, di positività. Sappiamo bene che ci sono cose sbagliate fatte benissimo e cose giuste fatte malissimo. E che l’impegno nel compiere un atto non ha nulla a che vedere con l’etica dell’atto stesso (del resto siete in un blog che ha persino un podcast intitolato “Le cazzate sono una cosa seria”). Quindi cosa è esattamente l’accuratezza e quanto pesa nella nostra vita?
Nella vostra non so, posso dire della mia.
Per me è un enzima, una sorta di catalizzatore che accelera reazioni. Non a caso la sciatteria che ci circonda ha come primo risultato l’immobilismo, il sacrificio di qualunque intenzione sull’altare del quieto vivere, il preservare spesso interessato dello status quo. Infatti l’accuratezza tutto è tranne che una forza conservatrice. Persino nelle sue deviazioni più trasversali (che in alcuni casi non sono malaccio, almeno da indagare), tende a rifinire sino all’estremo, a purificare dalle imperfezioni: quindi comunque a innovare, dato che raffinare è sempre un atto che guarda al futuro.
Ha una controindicazione, l’accuratezza. Costa.
Costa in termini energetici, economici, psicologici, sociali. Nulla di accurato è gratis (e non parlo ovviamente solo di moneta). Infatti un prodotto, inteso non solo come un manufatto, nel quale c’è cura si riconosce nella brodaglia delle intenzioni incolte.
La stragrande mole di eventi, reazioni, relazioni che mi/ci circonda gira attorno al perno sbilenco della sciatteria, della scarsa affezione, della famosa massima siciliana per cui “il cane non è mio” (cioè non sono fatti che in fondo mi riguardano). Persino una cosa brutta fatta con accuratezza sta su un livello diverso rispetto a una cosa brutta fatta male: avrei molti esempi, ma preferisco che ognuno di voi si raffiguri il suo.
L’accuratezza è un antidoto, un vaccino, che ha le sue controindicazioni (tipo i costi appunto). Ma che ci preserva dalla dittatura del qualunque, dalla nube endemica dell’indifferenza (che talvolta soffoca più dell’odio), dall’egoismo fatto sistema, dalle sveltine delle scorciatoie.
Ripeto, non è garanzia di probità, ma di pacificazione con se stessi.

Ossimori si nasce

La morte Sinisa Mihajlovic mi ha davvero colpito – tipo occhi lucidi da rincoglionito – perchè è l’evento annunciato più inaspettato, perché è il finale del film che ti stronca, perché tu dici che non può essere vero sapendo che era perfettamente possibile ma anche perfettamente impossibile. Mihajlovic è la morte di ciò che mi ha salvato in anni difficili e ancora oggi mi tiene vivo: l’ossimoro. Perché, se ci pensate, chi vive vite mediamente non qualunque si affida all’ossimoro (figura retorica consistente nell’accostare, nella medesima locuzione, parole che esprimono concetti contrari, CIT). Noi ammiratori di Mihajlovic, anche senza sapere nulla di calcio, del suo calcio, siamo attratti da chi ci racconta una storia e al contempo ci strapazza con un giudizio tranchant. Siamo portatori sani di passioni, e ammorba(n)ti di debolezze creative. Siamo piede e testa, sudore e sangue (e che globuli bianchi!), idee e cieli plumbei. Viviamo nel buio illuminato, godiamo di un’infinita provvisorietà e ci illudiamo che una malattia in fondo sia un appuntamento per una festa di guarigione in più.
Questo era Sinisa Mihajlovic per me e per quelli come me dei quali non gliene fotteva niente delle sue punizioni a 160 km all’ora, ma che si commuovevano quando lo vedevano, in piena pandemia, in un popolare programma di quiz a perculare conduttore e concorrenti come se fosse la famosa lumaca di Pirandello che sulla padella sfrigola e pare che ride. E invece muore.

Ossimori si nasce, e per fortuna degnamente si esce di scena.