L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.
Immaginiamo una sala con tante teche, ognuna delle quali protegge un oggetto fondamentale. Fondamentale per il patto più importante che tiene unità una comunità: quello per la verità.
C’è il guanto del killer di Piersanti Mattarella, c’è l’agenda rossa di Paolo Borsellino, c’è l’audiocassetta di Mauro Rostagno con la scritta “non toccare”. In un’altra teca ci sono le carte che Carlo Alberto Dalla Chiesa custodiva nella cassaforte della sua stanza da letto a Villa Pajno. E ancora un’altra agenda, quella che il commissario Ninni Cassarà teneva nel suo ufficio alla Squadra Mobile di Palermo. In bella mostra ci sono anche gli appunti di Peppino Impastato, i documenti che il poliziotto Nino Agostino aveva nascosto nel suo armadio di casa, un elenco dei file del computer che Giovanni Falcone aveva lasciato al ministero di Grazia e giustizia.
Tante teche. Tutte vuote.
Gli oggetti che non ci sono rappresentano buchi, anzi voragini, nella nostra coscienza collettiva. E ci ricordano, proprio con la loro assenza, il pericolo di un male istituzionale che divora questo Paese da tempo immemore: il depistaggio.
Un enorme museo della memoria. Rubata.

