ruins and debris in ibadan nigeria
Photo by Tosin Superson

Non ne faccio un discorso sportivo, non ne ho le competenze. Parto dal foglio di word che ho aperto per scrivere queste righe: l’assistente dell’intelligenza artificiale mi chiede “descrivi cosa vuoi scrivere” e poi suggerisce “crea un piano per la mia crescita professionale come giornalista” e varie altre amenità suggestive e, diciamolo, un po’ ridicole ai miei occhi (di boomer e pure presuntuosetto). Lo spunto sedato, il volo senz’ali, il vorrei ma posso per grazia ricevuta.

Dai disastri della nostra nazionale di calcio alle soddisfazioni del nostro tennis c’è molto da imparare. Siamo dinanzi a un vero trattato di politica, anzi di politiche sociali e culturali. Ripeto, la parte sportiva la liquido come spunto. Dico solo che nel tennis abbiamo una meravigliosa conferma di talenti individuali, quasi anarchici, ben coltivati e, per buona parte multiculturali, frutto di innesti di diversità diffuse: un vero esempio di cultura dello sport.
Nel calcio invece abbiamo la fotografia di una nazione come gruppo che non ha coesione e non la cerca, anzi la combatte a suon di decreti, di nomine, di esclusioni per via di principio.

Ed è di questo che voglio dire.

Siamo una nazione che non semina, in nessun campo, e che ha per giunta la pretesa di raccogliere. Oggi parlando con un’amica che ha mollato un’azienda e un lavoro ben retribuito perché si è trovata a lavorare con un cretino come capo (questione antica ma ormai endemica), ho rivisto molte scene a me familiari (ho una casistica ormai imbarazzante). In ogni campo, ripeto in ogni campo, l’Italia ha l’incompetente perfetto al posto giusto. Dal ministero cruciale allo strapuntino comunale, dal funzionario regionale al coordinatore di un festival, dall’artista al saltimbanco, dal magistrato che riapre indagini impossibili vista social al giornalista con gli occhi foderati di prosciutto, il sistema della circolazione delle idee è pericolosamente incrinato. E il vero problema sta nella parola “sistema”. Perché quando è uno solo dei passaggi ad essere sbagliato, ci dovrebbe essere un ambito di protezione che tende a correggerlo o quantomeno a mettere un silenziatore alle minchiate. Invece quando tutta la catena gira tra pignone e corona sballati è la corsa che diventa impossibile. Ed è lì che tutto diventa tragicamente possibile.

Un Paese che non coltiva nulla se non pedine allineate, che ha allenato il sentire comune col tragico slogan “prima gli italiani”, che mette solo parenti dei potenti ai vertici, che persino nell’antimafia usa la presunzione degli “unti dal Signore”, che si bea delle sue molliche spacciandole per succulenti pagnotte, è un Paese misero che aspira alla peggiore miseria. Quella del silenzio rassegnato, del vado al seggio ma non ritiro la scheda, del tanto che me ne fotte a me. Quella di una Sicilia in cui l’annuncio ufficiale per i disastri delle autostrade – a fronte di una classe politica indecente dal primo all’ultimo dei suoi rappresentanti – è “portatevi l’acqua in auto per sopravvivere alle code”.
Ecco, non volevo parlare di sport. Ma fate finta che ho parlato di politica, di giustizia, di cultura, di disparità sociali.
Non è più il tempo di discettare di meritocrazia, purtroppo. Siamo ben oltre il limite. Siamo soli, tutti noi, ognuno di noi, dinanzi al baratro. Potremmo essere fuori dai Mondiali, siamo già fuori dal mondo.  

Di Gery Palazzotto

Uno che scrive. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

1 commento su “Il disastro di casa nostra”
  1. Splendida amara tragica analisi di un paese in decadenza forse irreversibile

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